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21:24 martedì 15 luglio 2025
Il figlio di Liam Gallagher si sta facendo bello ai concerti degli Oasis indossando le giacche del padre Gene Gallagher è stato pizzicato a indossare una giacca Burberry di papà al concerto di Manchester: l’ha definita un «cimelio di famiglia».
In una piccola città spagnola, una notizia che non si sa se vera o falsa ha portato a una caccia all’immigrato lunga tre giorni Tutto è partito da una denuncia che ancora non è stata confermata, poi sono venute le fake news e i partiti di estrema destra, infine le violenze in strada e gli arresti.
Una ricerca ha scoperto che quando sono stressate le piante ne “parlano” con gli animali Soprattutto con gli insetti, attraverso dei suoni specifici. Gli insetti però non sono gentilissimi: se una pianta sta male, loro la evitano.
Hbo ha pubblicato la prima foto dal set della serie di Harry Potter e ovviamente ritrae il nuovo Harry Potter L'attore Dominic McLaughlin per la prima volta volta in costume, con occhiali e cicatrice, sul set londinese della serie.
Nel nuovo disco di Travis Scott c’è un sampling di Massimo Ranieri In uno dei più improbabili crossover di sempre, nella canzone "2000 Excursion" di Scott si trova anche "Adagio Veneziano" di Ranieri.
L’annuncio dell’arrivo a Venezia di Emily in Paris lo ha dato Luca Zaia Il Presidente della Regione Veneto ha bruciato Netflix sul tempo con un post su Instagram, confermando che “Emily in Venice” verrà girato ad agosto in Laguna.
Ancora una volta, l’attore Stellan Skarsgård ha voluto ricordare il fatto che Ingmar Bergman era un ammiratore di Hitler «È l’unica persona che conosco ad aver pianto quando è morto Hitler», ha detto. Non è la prima volta che Skarsgård racconta questo lato del regista.
Superman non ha salvato solo la Terra ma anche Warner Bros. La performance al botteghino dell'Uomo d'acciaio è stata migliore delle aspettative, salvando lo studio dalla crisi nera del 2024. 

Fauxsumerism, come comprano i Millennials

Un nuovo studio racconta che per le ultime generazioni è più importante condividere che acquistare. Le nuove vie dello shopping fra carrelli virtuali, social network, paragoni con le vecchie vetrine e previsioni future.

30 Aprile 2014

Nati tra gli anni ottanta e i duemila, i celebri Millennials (chi scrive ne fa parte) sono stati definiti, peschiamo a caso da un lungo elenco di aggettivi, bamboccioni, choosy, schermo-dipendenti e autoreferenziali. Adesso uno studio pubblicato da WWD li definisce fauxsumers. Il fauxsumerism, dice lo studio, sarebbe a dire il consumo di moda tipico dei Millennials, rivoluziona l’idea stessa di consumo, mettendola a rischio. In breve: preferiamo il navigare al comprare. I Millennials sarebbero in buona sostanza una specie di aggiornamento virtuale del flâneur ottocentesco che, per quanto poetico, non sembra giovare più di tanto all’industria della moda. A meno di trovare il modo di trasformare i “browsers in buyers”.

Lo studio di recente condotto da Intelligence Group, una divisione di Creative Artists Agency, ha intervistato un campione di 1300 Millennials al fine di comprendere i modi nuovi in cui viene consumata la moda. Il risultato più evidente, e per alcuni allarmante, è che nelle loro interminabili sedute di navigazione alla ricerca dei prodotti più desiderati, quello che fanno è comporre magiche liste del desiderio non finalizzate all’acquisto, custodite in carrelli virtuali. E allora perché interessano tanto le aziende? Si stima che i Millennials, circa 2 dei 7.1 miliardi di persone che abitano il pianeta, spenderanno circa 400 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020: un mercato difficile da ignorare. È naturale che il loro comportamento diventi oggetto di studio. Molti degli intervistati dichiarano di acquistare solo ciò che ritengono necessario e di comporre abitualmente liste di oggetti desiderati, mentre il 72% prima di correre in negozio fa le sue ricerche online, nel tentativo di risparmiare tempo e fatica.

Uno dei dati più interessanti dello studio è l’emergere di una “economia della condivisione”, per cui il Millennial sarebbe più interessato all’accesso, all’interazione e alla condivisione, che alla proprietà di un oggetto. Lo studio rintraccia le origini di questo comportamento nelle conseguenze nefaste della recessione. Sono lontani gli anni in cui Audrey Hepburn, la window-shopper più elegante e malinconica della storia del cinema, faceva colazione davanti alle vetrine di Tiffany, ciondolando sulla quinta strada al ritmo di Moon River. Il sogno della merce esposta in vetrina ha una magia che il cinema ha saputo cogliere, un tempo che nulla ha a che fare con quello dello shopping virtuale, che è veloce, effimero, bidimensionale. E l’allure della vetrina (per non parlare di quello della quinta strada) è difficile da riprodursi in un negozio online. Del resto, il suo scopo non è mai stato l’acquisto diretto, quanto piuttosto l’allestimento di una fantasmagoria che stimoli il desiderio e conduca gli oggetti fuori dalla vetrina dentro le nostre fantasie quotidiane.

Alcuni hanno giustamente paragonato il comportamento dei Millennials a quello dei window-shopper. E come qualsiasi commessa sa bene, il rapporto tra quelli che si bloccano imbambolati a guardare le vetrine – imbrattandole – e quelli che entrano a comprare è tutto a vantaggio dei primi. Quindi niente di nuovo sotto il cielo? Forse. Il fauxsumer infatti mantiene poco della passività del consumatore tradizionale. Quello che conta per lui è l’esperienza del consumo e la sua condivisione. Il sogno tramutato immediatamente in immagine Instagram, in tweet, status, racconto. Karl Lagerfeld lo ha capito prima di tutti, tanto che nel suo nuovo store di Londra il camerino è selfie-friendly, mentre in Italia in molti negozi è ancora vietato scattare foto. Il risultato è che il consumatore diventa una strana figura sospesa tra entertainment, consumo e curatela d’arte. Ebay punta proprio su questa confusione quando definisce la sua piattaforma online per la moda una galleria dove tutto è sempre in vendita. E la sfida per i retailer potrebbe nascondersi proprio qui, nell’abbattimento o quanto meno l’accorciamento della distanza tra lo sguardo e l’acquisto. In questa direzione va l’esperimento di Ssense, “I think she’s ready”, primo videoclip “shoppabile” al mondo.

Forse Kurt Vonnegut non aveva in mente il social shopping quando in Mattatoio n. 5 scriveva che «come tanti americani, stava provando a costruirsi una vita che avesse senso dalle cose che trovava nei negozi di souvenir»; però ci è andato vicino, accostando lo shopping a una pratica curatoriale. Nessuno poi esclude che gli anni Ottanta in noi siano solo in letargo, in attesa di tempi migliori.

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