Attualità

Termometro estetico della nuova legislatura

Si è passati da "onestà onestà" a "comodità comodità": scarpe brutte, cravatte lunghe e lucide, sandali con calza. Ecco i guardaroba dei nuovi parlamentari.

di Francesco Caldarola

Il Senato – Roma, 23 marzo 2018 (ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

Il giorno della verità, si sa, è sempre il secondo, quello dopo: troppo facile giudicare dal primo. Perché l’esordio della legislatura è quello dove tutti i nuovi parlamentari arrivano col vestito migliore, quello delle foto che postano sui social, quello che hanno scelto apposta: quello buono, insomma. Quindi per avere il termometro estetico della XVIII legislatura in Parlamento bisognava andarci il giorno dopo, quando la guardia si era abbassata, quando i fotografi erano molti meno, quando le matricole smettevano l’aria da primo giorno di scuola e rivelavano qualcosa in più.

Che poi quali dovrebbero essere i canoni minimi che un parlamentare dovrebbe seguire almeno per non sfigurare? «Armonia fra parole e forma», mi risponde Fabiana Giacomotti, massima esperta di stile, docente di Storia dei processi culturali e direttore scientifico del Master Comunicazione e Valorizzazione del Made in Italy all’Università La Sapienza di Roma – «cioè kalokagathia: buono e bello convivono, si equivalgono. “Beauty is the truth, truth beauty”, come diceva Keats». Giusto, ma nel concreto? «Imparino innanzitutto a parlare, a controllare il vernacolo. Le scarpe con la zeppa, le cravatte dai colori cheap sono tollerabili in persone dall’eloquio piacevole, fanno persino tenerezza. Risultano intollerabili tra sgrammaticature e dialetti». Ecco: bene ma non benissimo, almeno entrando in Transatlantico il secondo giorno di legislatura.

Intanto dopo i primi passi si capisce subito che c’è un tema pins: le prime, ovviamente, era stato Berlusconi a imporle, anzi facevano proprio parte del celeberrimo kit del candidato, a forma di bandierina di Forza Italia, e lui stesso quando va in tv la porta spesso appuntata sul gigantesco rever a lancia dei suo completi. I forzisti che le portano oggi sono pochini, e anche questo qualcosa vorrà dire. Le hanno invece in massa i leghisti: sono le spillette con Alberto da Giussano che sguaina lo spadone e c’è da chiedersi perché, visto che quella simbologia nel partito è ormai modernariato, ma tant’è. Il problema dei leghisti è che spesso indossano giacche già dotate di pins, quelli dei marchi; risultato: il povero Alberto giace arroccato su un fiorellino o su un cerchietto, con tragico effetto arricciamento. Anche i Cinquestelle – sarà il patto della spilletta – ne hanno di loro: sono cinque stelle, appunto, tutte in orizzontale, ed è subito divisa militare alla Classe di Ferro con Adriano Pappalardo.

Basta uno sguardo, comunque, per capire che è cambiato tutto, un’altra volta: basta camicie bianche alla leader socialisti sul palco di Bologna, basta vestiti fittati da nuovo corso rottamatore, basta anche con le leggendarie cravatte di Marinella (bei tempi quando i deputati si avvicinavano per controllare se dietro aveva la dedica personalizzata di Berlusconi: l’altro giorno per trovarne uno che la avesse c’è voluta mezza mattinata, «ma non mi citi, per favore» e chissà se era discrezione o nuovo corso salviniano del centrodestra). Da “onestà, onestà”, si è passati a “comodità, comodità”, che è un modo gentile per dire che la maggioranza non arriva alla sufficienza estetica. Eppure Di Maio un suo stile ce l’ha: non sarà il massimo della personalità però neanche è impresentabile, anzi. Ma il Parlamento non gli va dietro. Va dietro semmai a Rocco Casalino, cravatta regimental e cinta scintillante, dominus del gruppo: infatti ad un certo punto pensi di essere da Zara visto che sembrano tutti commessi con le cravatte strette e lucide.

La cravatta stretta e lucida – ma purtroppo un po’ troppo oltre la cinta, diciamo lunghezza Trump – la porta anche Matteo Orfini: raro, di solito è senza, come è sempre senza anche Roberto Giachetti, criticato perché ha presieduto la prima seduta senza indossarla («Ma de che stamo a parlà? L’ho sempre messa solo quando c’è il Presidente della Repubblica»)
A essere sinceri la figura migliore la fanno le donne, quelle che nei pezzi di colore vengono sempre criticate da cronisti uomini che non ricordano certo Lord Brummel: Giorgia Meloni e Laura Boldrini in tailleur nero (eleganti) bene anche Maria Stella Gelmini con richiami di rosso, Debora Serrachiani in mocassino alla maschietto (originale) e indovina il blazer (a quadri, fine) anche Mara Carfagna. Lo sbaglia invece Annagrazia Calabria, troppo ampio e bianco, pericoloso da indossare in zona bouvette. Ostenta poi orgogliosamente il jeans dentro lo stivale Micaela Biancofiore: amazzone era e amazzone è rimasta. Laura Castelli del Movimento si vede che è molto a suo agio: per lei un vestito floreale – come anche la Boschi, che però è più delicata – con stivale marrone, tipo Alla conquista del west.

Si è poi intravista una mitica deputata in rosa confetto e sandalo con calza: è stata inseguita prima che scomparisse dentro l’emiciclo ma non se ne è riusciti a scoprire il nome: «Non lo so, dottore», si scusa il commesso, «sono i primi giorni, non li conosciamo tutti neanche noi, mi pare Lega o Fratelli d’Italia». Triste mistero. A metà mattina Mattia Feltri della Stampa soffia sul fuoco: «Le scarpe! Quelle dicono tutto!». In effetti ha ragione: si vedono purtroppo plateau, scarpe a punta e persino scarpe slacciate. In più si evince subito una terribile tendenza per gli uomini: quella per la scarpa “comoda”. Esiste infatti una terrificante tipologia di calzatura, soprattutto sul nero, una specie di Camper che però non lo è, che dovrebbe garantire, appunto, comodità, manco dovessero andare a correre tutto il tempo. È purtroppo trasversale: leghisti, grillini, ma se ne vedono anche tra i Pd e i Forzisti. L’alternativa – sicuramente migliore – è la Clarks: la indossa Nicola Fratoianni (in pelle) e pure il vicesegretario della Lega Lorenzo Fontana. Ce l’ha anche Filippo Sensi del Pd, ma la chiccheria è che le porta con l’abito.

Se ormai “comodità comodità” è il grido di battaglia a fare da contrappeso sono in pochi: i doppiopetto si contano sulle dita di una mano, qualche abito sartoriale, alcune scarpe serie, Brunetta in pashmina. Paladino della resistenza è Andrea Ruggieri di Forza Italia, Roma nord in purezza: abito scuro, cravatta giusta, Rayban, borsa – a occhio – da un migliaio euro. Nel Pd – anche qui, l’ironia è facilissima – va molto lo spezzato: lo portano Gennaro Migliore e anche Francesco Boccia (con giacca a quadri, tipo cravatta di Proietti in Febbre da Cavallo). Ha uno spezzato, si fa per dire, anche l’onorevole leghista Daniele Belotti, noto ultras atalantino: per lui scarpe da ginnastica chiare, jeans, camicia azzurra dalla quale spunta la t shirt bianca come negli anni Ottanta. Meglio solo un altro deputato con fermacravatta in pendant con l’orecchino scintillante.

Insomma: il peggio in passato forse è già stato toccato con la famosa cravatta a forma di pesce di Speroni; Tatarella si macchiava sempre e Spadolini non era Oscar Wilde. Leonida Bissolati nelle cerimonie indossava i guanti bianchi e i deputati del Regno vestivano in frac e cravatta. Però, c’è da chiedersi, dopo aver fatto un giro nel nuovo parlamento: verrà in futuro qualcosa di ancora più terribile di deputati che girano in aula con lo zainetto?