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10:35 mercoledì 9 luglio 2025
Dalle prime recensioni, il nuovo Superman sembra più bello del previsto Dopo le prime stroncature pubblicate per sbaglio, arrivano diversi pareri favorevoli. Su una cosa tutti sembrano d’accordo: David Corenswet è un ottimo Clark Kent. 
Per combattere i deep fake, la Danimarca garantirà ai suoi cittadini il copyright delle loro facce Il governo sta cambiando la legge sul diritto d’autore per proteggere impedire i "furti" di volti, corpi e voci.
I fan di Squid Game hanno odiato il finale della serie e quindi si stanno facendo i loro finali usando l’AI Sui social c'è già chi propone lo Squid Game dei finali di Squid Game, il vincitore diventa quello ufficiale.
Una delle ragioni del disastro causato dell’alluvione in Texas potrebbero essere state le troppe allerte meteo ricevute dalla popolazione Si chiama warning fatigue, cioè la tendenza a sottovalutare o ignorare un pericolo che viene segnalato troppe volte e troppo spesso.
Netflix ha annunciato la data d’uscita della serie di Stefano Sollima sul Mostro di Firenze E ha pure pubblicato il primo teaser trailer. Si parla già di una possibile prima alla Mostra del cinema.
Dopo più di 100 anni di attesa, la Senna è stata balneabile soltanto per un giorno Nei tre punti balneabili del fiume è già stata issata di nuovo la bandiera rossa. Stavolta, però, la colpa è della pioggia.
Una ricerca conferma che l’estate in Europa ormai dura quasi sei mesi  Un ricerca evidenzia come, da Atene a Terana, l’ondata di colore associata all’estate duri oltre duecento giorni l’anno. 
Si è scoperto che le compagnie low cost premiano i dipendenti degli aeroporti più bravi a trovare i bagagli a mano troppo grandi In un’email pubblicata dal Guardian si legge di un premio di una sterlina per ogni bagaglio extra large denunciato.

Un club a Silicon Valley

Se fai parte di Founder Den, è come se portassi un tatuaggio in bella vista

10 Ottobre 2011
San Francisco. Jason Illian ha l’età giusta e l’approccio giusto, oltre che l’esperienza. È alla sua seconda start-up e vuole – nella tradizione di Silicon Valley – cambiare il mondo. In particolare, il mondo dei libri. La sua start-up si chiama Rethink Books. Jason ha il profilo che non soltanto rassicura sulla fondatezza delle sue ambizioni, ma che gli garantisce un invito al club più esclusivo di San Francisco: Founders Den. Si tratta di un incubatore specificatamente pensato per l’imprenditore che ha già all’attivo una o due start-up di successo; che si è costruito una reputazione; e che si muove tra software e profitti e perdite come tra l’arredamento di casa. Founders Den è un incubatore speciale anche perché ‘invita’ l’imprenditore. È un ‘club esclusivo’ a cui sono ammessi gli imprenditori che hanno più probabilità di altri di aver successo. Prima ancora che spazi e consigli, contatti e visibilità, Founders Den offre credibilità. Se fai parte di Founder Den, se sei un imprenditore (o un’imprenditrice) che è ospitato nei suoi austeri, quasi essenziali uffici di SoMa, è come se portassi un tatuaggio impresso in bella vista: sono un predestinato.

Quando Silicon Valley, più di 10 anni fa, produceva non meno di mille nuovi milionari (in dollari) alla settimana, c’erano imprenditori che passavano direttamente dall’università al successo grazie ad un pacchetto di milioni che i Venture Capitalist erano impazienti di distribuire. Poi c’erano gli imprenditori meno dotati, che avevano bisogno di un ‘aiutino’. Per questi imprenditori fu creato l’incubatore. L’aiutino garantito dall’incubatore era composto di servizi standard, tipo il commercialista, l’avvocato e ovviamente l’ufficio e la connessione Internet. I prototipi erano Idealab di Bill Gross e soprattutto Garage Technology Ventures di Guy Kawasaki. L’idea dell’aiutino si dimostrò contagiosa e la formula dell’incubatore si diffuse come un virus. Ne nacquero ovunque, ispirati dall’entusiasmo e dall’avidità. Spesso erano finanziati da enti pubblici. Una specie di Cassa del Mezzogiorno applicata alla “più imponente distribuzione di ricchezza nella storia dell’umanità”, come è stata definita la bolla delle start-up della seconda metà degli anni Novanta. Ogni università si sentì autorizzata a mettere in piedi il proprio incubatore, grazie alla forza invincibile del sillogismo socratico: Stanford è una università e ha un incubatore; quella della Calabria è un’università; ergo, deve avere il suo incubatore. D’altra parte, era facile: i servizi erano standard, non specialistici e soprattutto non necessariamente tecnologici. Uffici, computer, connessioni non si rifiutano a nessuno. E non si capisce se il gioco era avere un commercialista amico da mettere a disposizione di venti start-up o piuttosto venti start-up da mettere a disposizione di un commercialista amico. Non poteva funzionare e ovviamente non funzionò. A metà dello scorso decennio gli incubatori erano morti.

Mentre calava il sipario sugli incubatori, gli incubatori risorgevano. Ovviamente, in Silicon Valley. Qui c’è però un problema semantico. Si chiamano ‘incubatori’, ma non sono incubatori. O meglio, lo sono, ma operano in una maniera diversa dagli incubatori precedenti. Gli americani, pragmatici come sono, li chiamano incubatori 2.0, o acceleratori. Insomma, sembrano la stessa cosa ma non lo sono. Gli incubatori di prima generazione davano un sacco di supporto all’imprenditore, soldi compresi; talmente tanti soldi che John Doerr, uno che se ne intende (ha investito in Google, Netscape e Amazon), ne storpiò il nome: li chiamò ‘inceneritori’. Quelli di seconda generazione, invece non danno soldi agli imprenditori, a meno che non abbiamo già creato un team operativo; e comunque gliene danno pochi, di soldi: quanti bastano per sopravvivere sei mesi al massimo. Poi i soldi finiscono e l’imprenditore e i membri del suo team sono gentilmente invitati a togliere il disturbo. Questo avviene sia che la start-up stia andando bene sia che stia andando male. L’idea è che se vai male all’inizio, c’è qualcosa che non va; e allora devi lasciare lo spazio a chi potrebbe essere messo meglio di te. Insomma, una possibilità; hai una possibilità soltanto. Se la sprechi, sei fuori. Però sei fuori anche se vai bene, perché l’idea è che sei mesi, se sei bravo, sono sufficienti per raccogliere le idee, un po’ di attenzione, e soprattutto un po’ di altri soldi. Non per niente, questi incubatori 2.0 si chiamano anche ‘acceleratori’. A questo punto, sei pronto per spiccare il volo.

A differenza degli incubatori, gli acceleratori non offrono servizi standard ma consigli e contatti. Ora, non è che gli imprenditori del 2011 siano diversi da quelli del 1999. E’ che il mondo è cambiato: la tecnologia è meno sofisticata, costa meno, e ci sono più ingegneri. Sviluppare tecnologia è facile e costa poco; è trasformare il tutto in un’azienda e farci sopra dei soldi, che è diventato difficile. Ecco perché, se l’incubatore della prima generazione era una fabbrica, quello di seconda è una scuola. Entrare a far parte di un acceleratore oggi per un imprenditore e il suo team significa ricevere un primo livello di accettazione (il linguaggio corrente la definisce ‘validazione’) e soprattutto tanti, tanti consigli. E poi contatti, tanti contatti. Questa è l’economia della connessione, vero? E allora l’acceleratore offre visibilità, consigli, e contatti.

Con la proliferazione degli incubatori (o acceleratori), è emersa la necessità di differenziarne l’offerta. Oggi ci sono incubatori specificatamente disegnati per start-up nel digital social media, nel consumer market, nel software. E, appunto, Founders Den, il quale ospita – almeno teoricamente – i predestinati. Come Solomon Hykes, che è arrivato a Founders Den dopo essere rimasto tre mesi in un acceleratore tradizionale. La sua start-up, DotCloud, ha ricevuto un primo finanziamento di 10 mila dollari, e un secondo di 10 milioni di dollari, sei mesi dopo. Questo a dimostrazione che gli acceleratori funzionano.

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