Attualità

Perché “The Falling Man” è così importante

Il voyeurismo, certo, l’etica e l’estetica; però anche il nostro rapporto con la paura e la speranza. Il dibattito sulla foto più potente dell’Undici settembre.

di Anna Momigliano

The falling man AP Photo/Richard Drew

The Falling Man (Richard Drew/AP);  Un altro jumper (Jose Jimenez/Primera Hora / Stringer)

L’11 settembre del 2001, 2996 uomini e donne hanno perso la vita nelle Torri Gemelle: alcuni erano poliziotti, vigili, pompieri e volontari accorsi lì per prestare soccorso, però la stragrande maggioranza delle vittime erano persone che, al momento dell’impatto dei due aerei, si trovavano all’interno dei grattacieli per lavoro o per altre ragioni. Di queste, secondo una stima di Usa Today, duecento sono morte tentando la fuga negli ascensori e almeno altrettante saltando dalle finestre. Le storie collettive e individuali dei “jumper”, come li chiamano i media, e delle immagini che li ritraevano hanno segnato profondamente le coscienze degli americani. È stata la vista di quegli uomini e quelle donne che si gettavano nel vuoto a spingere il sindaco Giuliani ad esclamare «siamo in un territorio inesplorato» e a portare testimoni oculari a dichiarare di avere vissuto la scena «come fosse un film»: la realtà era diventata così orribile che «per essere sostenuta doveva essere percepita come uno spettro o un incubo», come nota Zizek.

Le prime immagini dei “jumper” furono mostrate in diretta dalla Cnn, che stava riprendendo in tempo reale la caduta delle torri; tuttavia la rete decise di censurarle in tutte le messe in onda successive. A posteriori, però, l’immagine più celebre è una fotografia scattata da Richard Drew per l’Associated Press e ribattezzata “The Falling Man”: inizialmente pubblicata a pagina 7 del New York Times il giorno dopo l’attentato, quell’immagine avrebbe ispirato un infinito dibattito mediatico, sia sull’opportunità di pubblicarla sia sull’identità del soggetto. Quella fotografia avrebbe ispirato il romanzo omonimo di Don DeLillo, pubblicato in Italia da Einaudi con il titolo L’uomo che cade, e una scultura di Eric Fischl, “Tumbling Woman”: la galleria newyorkese che mise in esposizione l’opera nel 2002 fu costretta a cancellarla perché, a solo un anno dall’attentato, il pubblico la considerava offensiva nei confronti delle vittime.

Su quella fotografia, controversa e potente, sono state scritte e dette molte cose. L’anno scorso, in occasione del quindicesimo anniversario dell’attacco terroristico, però, Esquire ha pubblicato un bellissimo ed esaustivo longread di Tom Junod, una delle migliori firme della testata, che ha il pregio di soffermarsi non solo sulle questioni che quell’immagine solleva sull’etica giornalistica e il nostro rapporto col voyeurismo, ma anche su ciò che quella fotografia, e tutte le reazioni che ha suscitato, racconta sull’elaborazione del lutto, sia tra le famiglie delle vittime e tra il pubblico più ampio, e sulla necessità, molto umana, di attribuire un significato alla morte, o agli ultimi istanti di una vita.

Perché quell’immagine e non un’altra? Junod parte dalla costatazione che la potenza della fotografia scattata da Drew è prima di tutto estetica: l’uomo ritratto «lascia questa terra come un arco. Non ha scelto la sua fine, eppure sembra, negli ultimi istanti della sua vita, averla accettata. Se non stesse cadendo, potrebbe quasi sembrare che stesse volando. Sembra rilassato, mentre fende l’aria. Sembra a suo agio, nella presa di un movimento inimmaginabile. Non sembra intimidito dalla forza di gravità né da quello che lo aspetta. Le braccia lungo i fianchi, la gamba sinistra piegata, quasi in una posa casuale». Gli altri “jumper” immortalati nella loro caduta erano scomposti, invece quell’uomo, L’Uomo Che Cade, ha l’eleganza di un tuffatore olimpionico.

Naturalmente, ammette il giornalista, c’è un che di illusorio in quell’eleganza. Di quella persona morente, infatti, Drew ha fatto ben dodici scatti, di cui undici mostrano che è «caduto come tutti gli altri che hanno saltato, cioè disperatamente, inelegantemente, senza la precisione di un arco né con la grazia di un campione di tuffi. Senza essere aumentato dall’estetica». Eppure. Eppure quell’attimo di bellezza composta, estrapolato quasi per caso nel mezzo di una caduta orrenda e brutale, ha ispirato qualcosa: «Qualcuno ha visto in quella fotografia lo stoicismo, la forza di volontà, un ritratto della rassegnazione. Altri ci hanno visto qualcosa di diverso, qualcosa di discorde e dunque terribile – la libertà». Un atto di liberazione, una dichiarazione finale di individualità, e di ribellione contro la violenza indiscriminata dei terroristi. La caduta come redenzione: Junod questo non lo menziona, però è lo stesso tema dell’incipit dei Versetti Satanici di Salman Rushdie, ispirato non all’Undici settembre ma agli attentati sugli aerei degli anni Ottanta: «Per rinascere – cantò Gibreel Farishta, precipitando dai cieli – devi prima morire. Ho-ji! Ho-ji! Per scendere sulla terra rotonda, bisogna prima volare» (soltanto molti anni dopo, degli esperti avrebbero determinato che più della metà delle vittime di Lockerbie sopravvisse all’esplosione dell’aereo e che, dunque, precipitarono per svariate miglia mentre erano ancora vive, e forse coscienti).

In più di una persona, racconta Junod, ha provato a identificare L’Uomo Che Cade, contattando le famiglie delle vittime che corrispondevano all’identikit: un uomo dalla pelle scura – forse di origine latina, forse mediorientale, forse un afroamericano dalla pelle un po’ più chiara della media – con il pizzetto e che quel giorno indossava una giubba bianca, probabilmente la divisa di uno chef, e sotto una T-shirt arancione. Le reazioni, diversissime, dei vari familiari coinvolti in queste ricerche dimostrano quanto quell’immagine sia delicata, ma forse anche importante. Quando un giornalista canadese, Peter Cheney del Globe and Mail, contattò la famiglia di Norberto Fernandez, un giovane padre morto nelle Torri Gemelle e che rispecchiava quella descrizione, la reazione fu di sdegno totale. A infastidirli non era soltanto l’invasione della privacy in un momento di grande dolore, ma l’idea stessa che qualcuno pensasse che un loro caro avesse potuto togliersi la vita.

Chi ha saltato, ovviamente, non aveva alcuna possibilità di salvarsi, è stata una decisione disperata, eppure la famiglia Fernandez aveva disperatamente bisogno di credere che il loro caro avesse passato i suoi ultimi istanti in un altro modo, sperando fino all’ultimo e pensando a loro: «Voleva tornare a casa da noi, e sapeva che non avrebbe potuto farlo saltando da una finestra», avrebbe detto la figlia, Catherine, una volta cresciuta. In ogni caso, quel giorno Fernandez non indossava una T-shirt arancione. Il fratello e la sorella di Jonathan Briley, un’altra vittima che rispondeva a quella descrizione, hanno invece tentato di verificare se Jonathan fosse davvero l’uomo della fotografia, anche se ad oggi non ne sono ancora sicuri: in ogni caso hanno aggiunto una copia di “The Falling Man” ad una piccola collezione di effetti personali che tengono per ricordare il fratello.

Tra le persone contattate per l’identificazione della foto, c’è anche una donna del Connecticut che ha perso due figli nelle Torri Gemelle. La donna, che Esquire non identifica per nome, ha rifiutato di guardare direttamente l’immagine ma se l’è fatta descrivere da altre persone, per poi giungere alla conclusione che, no, non era uno dei suoi ragazzi perché nessuno dei due poteva essere vestito così (lavoravano in una società di investimento). Però desiderava sapere come erano morti i suoi figli. Così, quando vide su un giornale la foto di alcuni impiegati in fila davanti a una finestra, pronti per saltare, contattò il fotografo chiedendogli di ingrandire l’immagine: uno dei suoi figli era il primo della fila, l’uomo che guardava nel vuoto, l’altro gli stava dietro. «Almeno so che i miei figli erano insieme fino all’ultimo», avrebbe raccontato. «Ma alcune volte mi chiedo per quanto tempo loro hanno saputo. Sono stupiti, sono nell’incertezza, sono spaventati – ma quando hanno capito esattamente? Quando è arrivato il momento in cui hanno capito che non c’era più speranza?».

Due reazioni opposte, nota lo stesso Junod: «La famiglia Hernandez vede la decisione di saltare come un tradimento dell’amore nei loro confronti, come qualcosa di cui Norberto fosse accusato. La donna del Connecticut ha visto nella decisione di saltare una perdita di speranza: un’assenza con cui anche noi vivi dobbiamo convivere. Lei ha scelto di conviverci guardando, vedendo, cercando di sapere».

Negli anni successivi all’attentato, la maggior parte dei media americani ha scelto di non mostrare immagini video e fotografie dei jumper, autocensurandosi, così come oggi si decide di non pubblicare i filmati delle decapitazioni dell’Isis (Junod paragona il disprezzo  verso chi cerca online informazioni su questo tema al disprezzo per chi va a cercare su YouTube il video della morte di Daniel Pearl, il giornalista americano decapitato da dei terroristi in Pakistan): che senso ha mostrare delle morti vere e atroci, se non quello di solleticare il voyeurismo più becero?

Come gli altri morti dell’Undici settembre, anche i “jumper” sono considerati, e a ragione, vittime di un attentato terroristico: sono stati uccisi, non si sono uccisi. I medici forensi, del resto, rifiutano la categoria: «Non ci piace dire che hanno saltato. Nessuno ha saltato. Sono stati costretti con la forza».  Eppure, come scrive Junod, a freddo, quindici anni dopo, se quelle immagini ci disturbano è anche perché mostrano un dato di fatto, che a sua volta dimostra quanto devastante, a più livelli, sia l’impatto del terrorismo: «Gli americani hanno risposto al peggiore attentato della storia con atti di eroismo, di sacrificio, di generosità e, per un’orrenda necessità, con un atto prolungato di suicidio di massa».