Attualità

Superare il confine

Lo scontro di somiglianze tra Russia e Turchia, due “post democrazie” sulla linea tra Est e Ovest, che vivono nel desiderio di risuscitare antichi splendori.

di Anna Momigliano

Quando i caccia russi sganciarono le prime bombe in Siria lo scorso settembre, il presidente turco Ahmet Davutoglu avvertì Putin: «È un grave errore». Nello stesso periodo anche la Francia iniziava la sua campagna aerea contro obiettivi siriani. Il bersaglio dei francesi, che da tempo colpivano l’Isis in Iraq, era chiaro: i campi di addestramento dello Stato islamico. Quanto ai russi, la questione era più complessa. Ankara li accusava di puntare soprattutto gli altri gruppi ribelli, quelli che combattono contro Assad, sostenuti, più o meno direttamente, dalle nazioni occidentali, dai Paesi arabi e dalla stessa Turchia: «Dei 57 bombardamenti finora effettuati dalla Russia, soltanto due hanno colpito Daesh», ha dichiarato Davutoglu a ottobre, utilizzando il nome arabo del gruppo terrorista. Se Mosca davvero vuole fare guerra all’Isis, ha aggiunto, «siamo pronti a combatterlo insieme». Un’accusa di parte, perché dei ribelli siriani la Turchia è uno degli sponsor principali. Ma anche un’offerta d’aiuto ambigua, perché con lo Stato islamico e il caos che esso sta causando in Medio Oriente, Ankara ha un rapporto controverso tanto quanto Mosca, se non di più.

Da anni in Siria si combattono due conflitti distinti, che solo occasionalmente si sovrappongono: da un lato la guerra della coalizione internazionale contro l’Isis, dall’altro una guerra civile tra il regime di Bashar al-Assad e una variegata galassia di ribelli. Mentre l’Occidente e i suoi media sono concentrati sul primo conflitto, Russia e Turchia vedono come priorità il secondo. Cosa confermata dai fatti di questi giorni, in cui le due potenze – assai simili tra loro per storia e ambizioni, ma diametralmente opposte per schieramento – appaiono sempre più prossime a uno scontro aperto.

Syrian Kurds Battle IS To Retain Control Of Kobani

Martedì un aereo militare russo è stato abbattuto da caccia turchi sul confine tra Siria e Turchia. Qualcuno ha fatto notare che è la prima volta dalla fine della Guerra fredda che un Paese membro della Nato colpisce alla luce del sole un obiettivo russo. Il governo di Ankara sostiene che avesse invaso il suo spazio aereo. Mosca nega. I russi accusano i turchi di aiutare l’Isis, ma i turchi negano. Putin dice di combattere lo Stato islamico, Davutoglu risponde che sta solo proteggendo Assad. Dove sia la verità – ammesso che di verità si possa parlare, in una guerra tanto opaca e caotica – è difficile dire. È possibile che l’aereo russo abbia sconfinato. È anche possibile, però, che il suo bersaglio fossero i ribelli turcomanni, cioè brigate anti-Assad composte da siriani di antica origine turca, particolarmente vicine al governo di Ankara, e che dunque per questo Davutoglu si sia sentito sotto attacco. È possibile, peraltro, che il governo turco non stia facendo abbastanza per contrastare l’Isis, che, come è stato ipotizzato, abbia scelto di non tagliare le vie di rifornimento del gruppo terrorista, per evitare di rafforzare i ribelli curdi, dando ragione a chi l’accusa di esserne complice.

Il rischio è che questa “guerra per procura” diventi una guerra e basta

Una cosa, se non altro, sembra chiara: la guerra civile siriana, che è un’altra cosa rispetto alla lotta all’Isis, sta diventando sempre più una faccenda tra Mosca e Ankara. Con il rischio che questa “guerra per procura” diventi una guerra e basta.

Non è sempre stato così. C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui le nazioni chiamate in causa nella lotta per deporre o salvaguardare Assad erano altre: l’Arabia saudita, il Qatar contro il regime e l’Iran a favore. Poi il Qatar (forse in origine uno dei finanziatori dell’Isis) s’è reso conto di avere fatto il passo più lungo della gamba. Poi l’Arabia saudita, che pure resta schierata in Siria, si è impegnata in una guerra in Yemen che prosciuga energie e denaro. Poi l’Iran ha firmato il trattato sul nucleare con gli Stati Uniti e da allora, anche se continua a sostenere Assad attraverso Hezbollah, la sua longa manus – si guarda bene dall’intervenire apertamente come invece fa l’aviazione di Putin.

Oggi i veri protagonisti, quelli disposti a rischiare di più, sono Russia e Turchia. Due nazioni al confine tra ciò che Europa e ciò che non lo è; due potenze ambiziose, determinate a proteggere interessi, alleati e prestigio fino all’ultimo; due “post democrazie”, come le chiamerebbe il politologo britannico Colin Crouch, guidate da uomini forti giunti al potere con elezioni ma che per la democrazia liberale, così come l’intendiamo noi, nutrono ben poco interesse; due ex imperi, già nemici in passato, che oggi vivono nel desiderio di risuscitare gli antichi splendori.

Syrian Kurds Battle IS To Retain Control Of Kobani

Quando è diventato presidente, poco tempo fa, Davutoglu ha promesso di restaurare un «ordine ottomano». Già agli inizi dell’era di Erdogan, quasi quindici anni fa, gli analisti lo indicavano come il grande architetto della cosiddetta “dottrina neo-ottomana”, che puntava a riportare la Turchia al centro del Medio Oriente, sempre più proiettata verso i Paesi arabi e sempre più egemone nella regione. In base a questa filosofia, da lui ribattezzata «zero problemi con i vicini», Davutoglu aveva persino convinto Erdogan a diventare amico di Assad. Quando è esploso il conflitto in Siria, e ancor più quando la guerra ha assunto i connotati tribali di uno scontro tra sunniti e sciiti, Ankara è scesa in campo. Era una questione di prestigio, di potere e d’onore. L’obiettivo: consolidare la sua egemonia di Paese sunnita contro il rivale Iran.

La forma mentis del presidente russo non è molto diversa da quella del suo omologo turco. Se Davutoglu è un neo-ottomano, anche Putin sogna di ricostruire un impero perduto: non a caso lo chiamano lo Zar, né lui ha mai fatto mistero della sua nostalgia per l’Unione sovietica (ha definito il collasso dell’Urss «il disastro geopolitico del secolo»). Mosca è legata a doppio filo con il regime siriano dalla metà degli anni Settanta, quando Assad padre decise di rompere con gli altri governi arabi, sempre più vicini agli Usa, dopo la guerra del Kippur. Perdere Assad, dunque, significherebbe perdere un vassallo, uno sbocco sul Mediterraneo, e status, anche se forse è l’idea stessa di “perdere” che più spaventa il Cremlino.

Tanto quanto è cristallino il fine ultimo di Putin e Davutoglu nella guerra civile siriana – ovvero mantenere il proprio status di potenza – è invece opaco il ruolo di entrambi nella lotta contro lo Stato islamico. Mosca non è certo un alleato dell’Isis, ma non lo vede come il nemico principale e le accuse secondo cui utilizzerebbe la guerra al Califfato come un pretesto per colpire i ribelli anti-Assad potrebbero non essere fuori luogo. Similmente, anche la Turchia sostiene di essere in guerra contro Daesh, e infatti lo è, soprattutto in patria, visto che due attentatori suicidi si sono fatti saltare in aria nella capitale qualche tempo fa. Eppure, quando si tratta di suolo siriano, si è dimostrata disposta a chiudere più di un occhio davanti al gruppo terrorista, lasciando passare armi e rifornimenti. L’Isis «deve essere fermato», aveva detto Davutoglu dopo le stragi in Turchia. Quale prezzo sia disposto a pagare per fermarlo, tuttavia, resta ancora da vedere.

 

Nelle immagini: manovre dell’esercito turco sul confine siriano (Kutluhan Cucel per Getty Images)