Attualità

Stati Uniti d’America (Latina)

Da Somos Republicans al Tequila Party. Il futuro della politica Usa passa (anche) attraverso i latinos

di Cesare Alemanni

Per presentarsi su Twitter hanno scelto l’immagine di Abramo Lincoln, una figura della quale spesso, specie in Europa, ci si dimentica di citare un dato fondamentale: oltre a essere uno dei più celebri presidenti della storia americana è anche stato il primo presidente repubblicano. E non poteva che essere il leader abolizionista – padre nobile del Grand Old Party e del tredicesimo emendamento – l’icona scelta da Somos Republicans, il gruppo numericamente più consistente tra quelli che rappresentano gli ispano-americani di tendenza repubblicana. Lincoln come antidoto a un presente che per il GOP al momento significa candidati che soffrono di amnesie nei dibattiti (Perry), che chiedono all’Iraq il rimborso dei costi di guerra (Bachmann) o che vogliono erigere un muro (Rommney), anzi no due (Bachmann), anzi no uno ma elettrificato (Cain) alla frontiera con il Messico.

Benché ufficialmente non affiliati al partito e non ancora numerosissimi, le posizioni degli ispanorepubblicani di SR stanno occupando una porzione di spazio politico non del tutto irrilevante nel dibattito interno al GOP, specie da quando diversi candidati hanno assunto posizioni sempre più “impresentabili” sul tema dell’immigrazione. Il 21 ottobre scorso, Lauro Garza – uno dei rappresentanti di più lungo corso della frangia ispanica del Grand Old Party in Texas, nonché leader di SR nello stato governato da Perry, un “uomo del rinascimento” come si definisce; un passato da Master Peace Officer, un presente da animatore politico – ha comunicato la sua intenzione di lasciare il partito in cui ha militato per una vita a causa della totale incompatibilità con le idee razziste espresse in merito all’immigrazione da personaggi come Cain, Rommney e Bachmann. Dopo aver paragonato il proprio gesto a quello del giovane Ronald Reagan che, negli anni ’60, deluso dalle loro politiche abbandonò i democratici; in una lettera indirizzata ai membri della sua comunità Garza ha motivato la sua decisione accusando in particolare Cain (definito “un bigotto pieno di odio”) di strumentalizzare l’immigrazione dal Messico per un subdolo calcolo elettorale, umiliando e allontanando dal partito l’elettorato repubblicano latino (stimato in un 60% sul totale degli ispanici) storicamente più incline a posizioni conservatrici che liberal (famosa la frase di Reagan: “Latinos are Republicans. They just don’t know it yet”).

E a ben vedere – a leggere i loro issue – si scopre che quelli di SR, ortodossamente republican lo sono per davvero: Stato superleggero, diritto alla vita, libero mercato, bassa pressione fiscale e difesa del porto d’armi. A questi va però aggiunto un ulteriore tema fondamentale: la pressione per un trattamento più praticabile e umano del problema dell’immigrazione. Pur consci che essa non rappresenti un “valore” cardine particolarmente sentito nel pantheon repubblicano, da tempo gli iscritti a SR stanno comunque cercando di sensibilizzare la propria parte politica rispetto all’utilità, anche strategica, di una soluzione accettabile del problema.

Il DREAM Act (acronimo per Development, Relief and Education for Alien Minors), una proposta di legge avanzata nell’agosto 2001 dal senatore democratico Richard Durbin, pareva aver aperto alcuni spiragli all’epoca, ma dopo 10 anni – anche per via del clima creatosi negli Usa dopo 9/11 – attraverso diverse vicissitudini e numerosi fallimenti, la proposta è ancora in alto mare anche se periodicamente (a maggio ci ha provato Obama) si cerca di riportarla di attualità. Spiegandola in breve, si proponeva di regolalizzare in via definitiva la posizione residenziale di tutti gli immigrati entrati negli USA da minorenni che ci vivessero da almeno cinque anni e che fossero riusciti a conseguire un titolo di studio valido. A dicembre 2010, il Senato ha bloccato il provvedimento con 55 voti contrari e 41 a favore, nonostante esso fosse stato appoggiato da Obama (e ancor prima da Bush). Cinquanta di quei voti erano di parte repubblicana. Uno dei più influenti Think-Tank conservatori (5° nella classifica dei più influenti pubblicata lo scorso anno da Foreign Policy), la Heritage Foundation, ha definito il DREAM Act: «Un incubo. Un’amnistia di massa, estesa a tutti gli immigrati illegali entrati negli Stati Uniti prima dei 16 anni».

Alcuni mesi prima, Russel Pearce, Senatore dello Stato dell’Arizona, si faceva portavoce di un disegno di legge a livello statale chiamato Senate Bill 1070 che si proponeva di inasprire pesantemente le misure restrittive contro l’immigrazione illegale. Corroborato dai numerosi fatti di violenza imputabili ai narcos che operano alla frontiera tra Messico e Arizona, Pearce raccolse un numero considerevoli di sostenitori tra i senatori dello stato e, il 19 aprile 2010, la SB1070 vinse la votazione nel Senato dell’Arizona con 17 voti a favore e 10 contrari; votata da tutti i senatori repubblicani eccetto uno. Tra i passati sostenitori della necessità di una riforma più severa della legislazione sull’immigrazione anche l’ex senatore dello stato e candidato presidenziale John McCain.

Nel momento stesso in cui la governatrice dell’Arizona, Jan Brewer, il 23 aprile 2010 siglò l’atto dandogli corso effettivo da lì a 90 giorni, le polemiche e le già aspre tensioni che si erano accumulate durante i mesi precedenti esplosero in una serie di reazioni politicamente violente sia all’interno sia all’esterno dell’Arizona, arrivando fino a un’ingiunzione del Dipartimento di Giustizia Americano che, il 28 luglio 2010, esattamente un giorno prima che la legge entrasse in vigore ottenne il blocco di alcuni dei suoi provvedimenti più controversi e in odore di scoperto razzismo. Si parlò di “violazione dei diritti civili”, “provvedimento apartheid” e “legge nazista”. Barack Obama e Janet Napoletano (Segretario dell’Homeland Security ed ex governatore dello Stato) intervennero nel dibattito squalificando gli stessi presupposti della legge. Un immenso polverone cui non si sottrassero nemmeno influenti personaggi del mondo dello sport, della musica e dello spettacolo e che contribuì a indebolire la posizione del fino ad allora trionfante Russell Pearce – considerato all’epoca il politico più potente d’Arizona – e ad aumentare la visibilità degli esponenti politici di origine latina, tra cui Dee Dee Garcia Blase. Fondatrice di Somos Republicans per l’Arizona, considerata una delle principali artefici della call-to-action dei latinos locali, anche grazie alla sua azione di sensibilizzazione nel giro di venti settimane, durante i mesi delle roventi polemiche intorno alla legge proposta da Pearce, più di 40.000 ispanici hanno fatto richiesta della tessera elettorale (si calcola che in Arizona ci sia un bacino di altri 400.000 latinos registrabili sugli 800.000 totali).

Qualche mese dopo, a dicembre, mentre il DREAM Act falliva al Senato, Dee-Dee scriveva una lettera alla sua comunità invitandola ad abbandonare vecchi schemi di appartenenza politica per unirsi in un’azione congiunta tesa a «prevenire lo tsunami di sentimenti antilatini che si stanno sollevando in tutta la nazione». Uno dei primi risultati, di questa nuova espressione politica latina, è stata la rimozione, a inizio novembre, di Russell Pearce dalla carica di Senatore dello Stato tramite una Recall Election che ha visto un’enorme partecipazione politica della componente ispanica del corpo elettorale, con la vittoria finale di Jerry Lewis, un mormone, un politico d’area conservatrice indistinguibile da Pearce su quasi tutti i temi più caldi eccetto l’immigrazione.

Il giorno dei festeggiamenti a fianco di Jerrry Lewis c’era anche Dee Dee Garcia Blase che nel frattempo ha abbandonato Somos Republicans (che resta comunque una voce fortemente critica all’interno del GOP) per diventare leader nazionale di Tequila Party: risposta etnica e per ora politicamente non partigiana al Tea Party. Dee Dee stava ancora brindando quando un giornalista le ha chiesto se non sentiva di aver tradito il suo vecchio partito capeggiando un movimento che è in gran parte composto da ex membri del partito democratico. La risposta di Dee-Dee è stata secca: «Questa non è una battaglia politica ma culturale. È meglio che il Grand Old Party si dia una svegliata sul tema dell’immigrazione perché d’ora in poi nessuno farà più il lavoro sporco per loro con il nostro elettorato».

E del resto se – come scrive su Twitter – riuscirà a portare alle urne quei 20 milioni di Latinos che non esercitano il loro diritto di voto, un giorno forse non lontano, Dee-Dee  “qualcosa” conterà.

 

Foto:  Justin Sullivan/Getty Images