Attualità

Un report su Report

La celebre trasmissione d'inchiesta è ancora così autorevole? Gli ascolti continuano a essere alti, ma è forse il contesto a essere cambiato.

di Anna Momigliano

«Speriamo che una nostra denuncia, domani, faccia saltare qualche poltrona». Se dovessero chiedermi a cosa penso quando penso a Report, probabilmente risponderei: alla Gabanelli in studio che tra un servizio e l’altro dice di volere far «saltare qualche poltrona». Di poltrone in effetti ne ha fatte saltare parecchie: sue inchieste hanno spinto alle dimissioni un presidente dell’Anas, due dirigenti di Moncler, un sindaco e un manager di Conad, per fare solo alcuni esempi recenti, e persino Antonio Di Pietro sostiene che la fine dell’Italia dei Valori è iniziata alla trasmissione di Raitre, «ma io stimo Milena Gabanelli». Report è il programma giornalistico che non si può non stimare anche quando ti rovina la carriera. In diciotto anni di onorato servizio (è diventato maggiorenne qualche settimana fa), si è guadagnato sul campo un’autorevolezza rara nel panorama dei media italiani, un’immagine, che in pochi osano contestare, austera, precisa e nemica dei potenti.

 

Sarà anche per questo che s’è alzato un polverone quando il capo della comunicazione Eni Marco Bardazzi ha ribattuto punto per punto su Twitter a un’inchiesta di Report su sospette tangenti in Nigeria, definendo la puntata «fiction». Moltissimo è stato scritto sulla vicenda specifica, ritenuta da alcuni un esempio da manuale di come sfruttare l’immediatezza dei social network contro un programma registrato. Forse però l’episodio è indice di qualcosa di più grande. Report, certo, resta un punto di riferimento per il giornalismo italiano. Con una media di due milioni di spettatori nella stagione corrente, è senza dubbio uno dei programmi di approfondimento più seguiti e, soprattutto, rispettati. Ma tra gli addetti ai lavori si sta diffondendo la percezione che qualcosa si sia incrinato, che il programma non sia più intoccabile come lo era un tempo.

«Report ha conosciuto tre fasi», dice Mario Sechi, ex direttore del Tempo che spesso commenta gli affari mediatici per il Foglio. «È nato come un programma di nicchia, visto da un pubblico ristretto che si vantava di guardarlo. Poi la Gabanelli è diventata un personaggio pop, e il dato interessante è che la sua ascesa come personaggio popolare è parallela a quella di Grillo. In altre parole, proprio mentre esplodeva l’antipolitica, si affermava come programma depositario della verità: c’era la Verità di Report, con la V maiuscola, e la verità degli altri, con la V minuscola. Più recentemente, però, questo totem ha iniziato a incrinarsi, e il caso Eni è un esempio da manuale».

Un esempio «da manuale», forse, ma non l’unico. Una vicenda simile si era già verificata nel dicembre del 2014, quando il capo dell’ufficio stampa di Nicola Zingaretti, Emanuele Lanfranchi, registrò e mise in Rete una telefonata con un giornalista della trasmissione, facendo passare l’immagine di un modus operandi non proprio cristallino. Stando alla ricostruzione di Lanfranchi la redazione aveva richiesto un’intervista su un tema, poi però il giornalista aveva fatto anche domande su argomenti non previsti (cosa legittimissima: se le domande andassero concordate sarebbero grave) e in sede di montaggio avrebbe tagliato completamente quelle riguardanti il tema originale (cosa poco elegante, che però non viola alcun codice etico). La Gabanelli contestò questa ricostruzione. In ogni caso, alcuni giornali scrissero che l’ufficio stampa di Zingaretti aveva «applicato a Report il metodo Report».

 «Il ventennio berlusconiano aveva costretto tutti a ragionare in termini di amici e nemici»

Per “metodo Report”, s’intendono tante cose, dal “giornalismo a tesi” a un sapiente utilizzo del montaggio per sostenerlo. Le registrazioni nascoste sono una di queste. Fatto interessante, Report è nato nello stesso anno di un’altra trasmissione giornalistica che ha fatto delle registrazioni nascoste uno dei suoi strumenti di indagine: come Le Iene, è in onda dal 1997. Erano gli anni in cui cominciava a prendere piede in Italia il giornalismo d’assalto, quello volto a smascherare, a dare l’impressione di difendere i deboli da ciò che i potenti tentano di nascondere. Il Gabibbo, per intenderci, è nato nel 1990, proprio con l’idea di aggiungere a Striscia la Notizia, creatura dei tardi anni Ottanta, qualche elemento più “alto” e d’informazione: un difensore pubblico che mettesse la coscienza in pace a chi voleva guardare le veline. Certo, mettere Report nella stessa categoria di Striscia la Notizia e Le Iene può essere fuorviante: quelli sono programmi di infotainment inframezzati da qualche inchiesta, Report invece è una testata d’informazione pura, «è considerato un punto di riferimento nel giornalismo d’inchiesta televisivo italiano» afferma il suo sito, e non a torto. È una trasmissione erede del Santoro della prim’ora, dicono alcuni, nonché madre di PresaDiretta, dicono tutti. Il suo pubblico è quello di Raitre, lo stesso che guarda Ballarò e Che Tempo Che Fa: non a caso Fazio, come si dice, fa “da traino” di audience per la trasmissione della Gabanelli. Ma la vocazione di giornalismo come forma di difesa civica, sotto alcuni aspetti, non è poi così lontana da quelle di altre trasmissioni più nazional-popolari.

«L’obiettivo editoriale di Report è alimentare il dubbio, il che è un bene, ma al dubbio si accompagna spesso l’idea precostituita che ci sia sempre qualcosa di marcio sotto», commenta Fabio Guarnaccia, direttore della rivista  Link. Idee per la Televisione, del gruppo Mediaset. «Report è un ottimo programma giornalistico, che si è costruito una sua autorevolezza, spesso meritata, sul campo. Ma a volte tradisce una serie di difetti di natura ideologica, che diventano visibili solo quando tratta di argomenti familiari a chi guarda». In altre parole: «È percepito come un programma serio e che non ha paura di nessuno. Studiano molto, si documentano, ma poi a volte tendono a semplificare troppo».

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Aldo Grasso, sulla web TV del Corriere, l’aveva definito «l’ultimo baluardo del servizio pubblico: magari si sbaglia anche ma non guarda in faccia a nessuno, fa delle inchieste serie, uno di quei generi che la televisione moderna ha abolito: se non ci fosse la Gabanelli avremmo una Rai dove i giornalisti fanno cicip e ciciap con Passera». Report dunque è l’eccezione che conferma la regola in un panorama giornalistico italiano spesso condiscendente, ma è anche una trasmissione contro qualcosa. «Il ventennio berlusconiano aveva costretto tutti a ragionare in termini di amici e nemici, tanto che anche i format televisivi nati in quegli anni erano costruiti così», sostiene Sechi. «È un prodotto del ventennio, che però ha trovato una nuova connotazione negli anni dell’ascesa dell’anti-politica: è il classico programma anti-establishment».

I bersagli di Report, perché un bersaglio c’è quasi sempre, si possono dividere in due categorie: il potere (da smascherare) e il quotidiano (che è pericolosissimo, solo che non ce ne accorgiamo). Da un lato dunque i politici e le grandi aziende, Eni, Zingaretti e Di Pietro, appunto, ma anche Caseleggio e Grillo, oggetto di un’inchiesta sui proventi del suo blog: il Movimento aveva nominato Milena Gabanelli alla Presidenza della Repubblica (lei, a onor del vero, non c’entrava niente), così qualche pentastellato se la prese a male, «è un’ingrata traditrice», Grillo però rispose con un post insolitamente pacato. Dall’altro lato, poi, il caffè, la pizza, l’olio di palma l’aspartame: minacce quotidiane.

A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. E quando non ci si azzecca, si riesca ad essere convincenti

Qualsiasi argomento si affronta, il punto di partenza è che sotto c’è del marcio, e i giornalisti di Report – tutti «freelance che autoproducono la loro inchiesta (cioè la realizzano con la loro videocamera, si pagano le spese, la montano nel loro luogo di residenza), con la costante supervisione dell’autore della trasmissione, e infine la vendono alla Rai» si spiega nel sito – sono molto bravi a trovarlo. Da un lato questo approccio pone un problema: se parto dal presupposto che il mio compito è trovare il marcio, come mi comporto se non lo trovo? Non è che sono portato a trovarlo per forza, anche quando non c’è? Non c’è una sorta di conflitto d’interesse tra la ricerca della verità e la ricerca del marcio? Si chiama “giornalismo a tesi”. In fondo, si potrebbe obiettare, ovunque ci sia una ricerca c’è un conflitto tra il principio di obiettività e il desiderio di trovare ciò che si sta cercando: «You find what you look for», mi aveva detto un amico medico, per spiegarmi come mai alcune malattie sono diagnosticate sempre più spesso (come a dire: un pizzico di malafede c’è, e si va a mode, ma se non facessimo così non diagnosticheremmo quasi nulla). Dall’altro lato però le inchieste di Report nella maggioranza dei casi sono molto ben documentate: si parte da una tesi, ma si cerca di sostenerla al meglio.

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A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. E, anche quando non ci si azzecca, si riesce a essere convincenti. Con qualche eccezione, però. Mi sono rivista, per esempio, la puntata sul caffè andata in onda nell’aprile del 2014. Una delle linee delle linee dell’indagine, condotta da Bernardo Iovene, riguardava i filtri delle macchinette per l’espresso nei bar: spesso non sono puliti, e il risultato che i caffè nuovi vengono fatti con dell’acqua sporca di residui dei caffè precedenti. Questo, dicono i puristi, rovina la qualità dell’espresso degustato (che è un gran peccato, ma di per sé non un motivo d’allarme), ma il giornalista suggeriva che avrebbe potuto anche rappresentare un danno alla salute: due rappresentanti dell’Asl negavano, «noi ci occupiamo di minacce alla sanità pubblica, questa non lo è», un medico invece diceva che i residui potrebbero essere tossici «se in grandi quantità, non mi sembra il caso di fare allarmismi». A quel punto Iovene chiedeva ad alcuni passanti quanti caffè si bevessero al giorno: anche dieci o quindici, rispondevano quelli. Il messaggio era che, visto che beviamo tanto caffè, allora i residui erano tossici. Non era dato però sapere se questi dieci-quindici caffè costituissero una «grande quantità» rispetto alla soglia di tossicità, senza contare che, se ti bevi dieci-quindici caffè, forse c’è da preoccuparsi più della caffeina che dei residui.

«Un modello di spettatore passivo»

I vizi ideologici, come notava Guarnaccia, si fanno notare quando l’argomento affrontato è più facile, più noto allo spettatore. In altre parole, è il genere di comunicazione che si basa sulla sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore: Report affronta temi tosti, che in pochi altri hanno il coraggio di toccare, fa vedere numeri, documenti, intervista esperti, e io mi fido. Quando il tema mi è più vicino, comincio a farmi più domande e la sospensione dell’incredulità si riduce.

«Report si basa su un modello di spettatore passivo», prosegue Sechi. «È un programma di montaggio, che è il suo pregio è anche il suo difetto: non ha la diretta, dunque il montaggio è essenziale alla narrazione. Il problema è che questo modello, da solo, funziona finché non c’è un botta e risposta, fino a quando qualcuno non si mette a controbattere e a fare fact checking in tempo reale.» Bardazzi, per esempio, l’ha fatto ed è assai probabile che qualcuno proseguirà sulla stessa strada. «La mia impressione», conclude Sechi «è che il nuovo clima politico e le nuove tecnologie stiano mettendo in discussione questo modello. Che, per la prima volta in maniera clamorosa, il totem di Report è stato messo in discussione. È una cosa salutare, soprattutto per Report».

 

Nelle immagine di copertina e di testata un impianto di estrazione nel Delta del Niger, territorio dove Eni ha interessi e che costituisce uno dei punti della controversia tra l’azienda e la trasmissione  (Chris Hondros/Getty Images)
Elaborazioni su dati Auditel