Attualità

Rabin, icona anni Novanta

L'assassinio di Rabin, 20 anni fa, come evento generazionale: il processo di pace e la controcultura in Israele.

di Anna Momigliano

Gli anni Novanta in Israele sono iniziati con una stretta di mano e sono finiti con gli autobus che saltavano in aria. In mezzo, c’è stato un omicidio politico, buona musica, euforia, illusioni.

Nahum Barnea, uno dei più acuti commentatori israeliani, li ha raccontati come gli anni del flipper emozionale: «Passavamo costantemente dalla speranza alla disperazione, dall’euforia alla depressione, dalle eleganti cerimonie sul prato della Casa Bianca ai massacri dei terroristi, dalle tensioni tra destra e sinistra all’uccisione di un primo ministro». La stampa internazionale li ha ricordati come gli anni del processo di pace. Per me, come per altre persone che hanno vissuto in Israele e che oggi hanno tra i trenta e i quarant’anni, erano semplicemente gli anni dei moonlight children, gli anni della controcultura, della ribellione giovanile, gli anni in cui è esplosa la scena musicale con i Mashina e Aviv Geffen (che qualcuno ha definito il Kurt Cobain di Tel Aviv, anche se ricordava più il cantante dei Cure e, soprattutto, non è morto), in cui, per la prima volta, gli adolescenti israeliani cominciavano a somigliare agli adolescenti del resto del mondo occidentale. Erano, certo, anche gli anni di Rabin, e credo che le due cose siano più legate di quanto non si tenderebbe a pensare.

In Israele il disimpegno è giocoforza di sinistra: se vuoi goderti la vita col cavolo che ti va di morire per la Grande Israele

Quando Yitzhak Rabin è stato ucciso, il 4 novembre del 1995 davanti alla grande folla di Tel Aviv, erano passati due anni e mezzo dall’inizio del processo di pace suggellato dalla storica stretta di mano tra lo stesso premier e Yasser Arafat. Erano anche passati tre anni esatti dall’uscita del primo album di Aviv Geffen, Ze rak or hayareach, “è soltanto il chiaro di luna”, che non solo ebbe un successo senza precedenti ma creò attorno a sé un piccolo fenomeno culturale, ragazzini che adoravano Geffen e che si rispecchiavano nei testi che parlavano di rabbia, solitudine e droghe: non più soltanto futuri soldati o pionieri innamorati, come li aveva dipinti la cultura pop precedente, ma adolescenti incazzati neri e moderatamente depressi.

C’era anche Geffen, quella sera con Rabin. Da quel giorno, una sua canzone triste che parlava di una vita spezzata divenne l’inno della sinistra israeliana, anche se in realtà l’aveva scritta per un amico morto di overdose. C’erano anche tutti i suoi fan, i moonlight children. I maligni dicono che Rabin l’abbia voluto proprio per portare in piazza i ragazzini, che altrimenti non sarebbero andati a manifestare per la pace e forse c’è del vero. Si potrebbe obiettare che, a modo loro, i moonlight children erano pacifisti quanto se non più di Rabin: non avevano alcuna voglia di andare al fronte o in sinagoga, sebbene probabilmente gli fregasse ben poco della questione palestinese. In fondo, il messaggio non era poi così lontano dall’inno del Labour di Rabin, quello vero, scritto da una cantante impegnata e organica al partito, non la melodia di Geffen per l’amico morto in circostanze meno nobili: «Non sussurrate preghiere al Dio della guerra, gridate forte un inno alla pace».

Questo è il lato di Israele che faccio più fatica a spiegare agli amici italiani: in Israele, ma suppongo valga per molti altri Paesi in guerra, il disimpegno è giocoforza di sinistra, perché, se vuoi goderti la vita, col cavolo che ti va di combattere e morire per la Grande Israele. (A dire il vero, quello della cultura pop disimpegnata, di sinistra per esclusione, era stato un tema già anticipato dal folk-rock israeliano degli anni precedenti, che però non si era mai tradotto in una vera e propria sottocultura).

Tenth Anniversary Of Yitzhak Rabin AssassinationQuando Rabin fu colpito in pieno petto da un estremista relgioso, orde di quei ragazzini che erano andati in piazza per vedere Geffen, cominciarono ad adorare anche Rabin. In molti si raccolsero davanti all’ospedale Ichilov, a pregare per la vita del primo ministro agonizzante. Altri depositarono candele nella piazza in cui era caduto (a quei tempi: la piazza dei Re, oggi si chiama piazza Rabin). Si diffuse una certa moda, presto adottata anche dagli adulti, di appiccicare ovunque adesivi in sua memoria. Tra i più diffusi: Shalom Haver, “Addio, amico mio”, e: Dor shalem doresh shalom, “Una generazione intera esige la pace”, che dava l’idea di come la militanza per il progetto di pace stava acquistando un connotato generazionale che nessuno si sarebbe aspettato prima.

A un certo punto distinguere tra i moonlight children e gli orfani di Rabin divenne quasi impossibile. In questa confusione, i
media israeliani ci misero del loro, cominciarono a parlare dei «meravigliosi ragazzi che depongono le candele» e a mettere in bocca a ragazzine pre-adolescenti frasi come «che tragedia, con Rabin hanno ucciso la pace» – assioma riduttivo che continua a fare danni ancora oggi. Davvero nessuno pensa che i negoziati sarebbero potuti saltare anche senza la morte di Rabin?

Soprattutto, come più tardi avrebbe notato il sociologo Yoram Peri, i media israeliani cominciarono a mandare il messaggio che tutti i teenager erano con Rabin. Anche quella era un’idiozia, perché per ogni ragazzina che deponeva candele per il primo ministro ucciso ce n’era un’altra che mandava lettere d’amore al suo assassino, l’estremista religioso Yigal Amir; per ogni teenager che aveva l’adesivo “Addio, amico mio” sullo zainetto ce n’era un altro che ci appuntava il motto “È tutta colpa tua, amico mio”, a indicare che i guai del Paese erano tutta opera di Rabin, traditore della patria. Erano anni di grandi tensioni tra destra e sinistra, raccontati molto efficacemente dallo scrittore David Grossman nella sua “canzone degli sticker”, interpretata dal gruppo rap locale Hadag Hanahash, centone degli slogan sugli adesivi uniti da un ritornello preso in prestito da una campagna pubblicitaria vegetariana: «Quanto odio è possibile ingoiare?».

L’equazione tra “giovani” e “cultura giovanile” era tutta nella testa dei giornalisti, sbagliata nell’Israele degli anni NovantaIsraelis Pay Respects to the Rabins
forse molto più che altrove: se è vero che la controcultura era quasi tutta con Rabin, gli estremisti religiosi, che facevano molti più figli, erano anagraficamente più giovani rispetto al cosiddetto “campo della pace”, e gli avamposti militanti nei Territori occupati pullulavano di adolescenti più della laica e gaudente Tel Aviv.

Di tutte le cose che sono state dette e scritte sulla generazione Rabin, la più azzeccata l’ha forse scritta, senza mai parlarne apertamente, Etgar Keret, raro caso di autore adulto che ha saputo ricreare un linguaggio adolescente, nella sua storia breve “Rabin è morto”, uscita a pochi anni dell’assassinio. Racconta di un gatto, di due ragazzini che lo adottano e di un motociclista che lo investe. Costernato, chiede scusa, ma quando viene a sapere il nome del gatto prende a ceffoni i ragazzini, che per risposta lo spediscono all’ospedale: «Forse se non avessimo trovato Rabin nessuno l’avrebbe ucciso. Forse anche il vero Rabin non sarebbe stato ucciso, se solo fosse rimasto un po’ più sul palco, e magari avrebbero sparato a Peres. Così noi avremmo chiamato il gatto con un altro nome, tipo Shalom, che è da tamarri, e lui sarebbe morto lo stesso ma nessuno sarebbe stato preso a mazzate».

Immagine in testata: Rabin parla al Congresso dell’Internazionale socialista, 1976 (Photo by Central Press/Getty Images). Nel testo: murales dedicato al primo ministro assassinato (David Silverman/Getty Images), Ragazzo rende omaggio a Rabin (Photo by Brian Hendler/Newsmakers)