Attualità

Quelli che Mao (e quelli che no)

di Claudia Astarita

La Cina del 2011, oltre a essere diventata la seconda potenza economica mondiale, è anche un paese di cui si parla per “gli incredibili successi ottenuti sul piano della lotta alla povertà, dell’urbanizzazione, del miglioramento della qualità della vita e della sanità”, dichiarano pieni di orgoglio i membri del governo e gli esponenti del Ministero della Propaganda. Ma a pochi giorni dal novantesimo anniversario della fondazione del partito comunista cinese è sempre più evidente che il paese è spaccato in due, sia per quel che riguarda la memoria collettiva, sia relativamente alle speranze per il futuro della nazione.

Da un lato ci sono i nostalgici come Wang Dinguo, che si iscrisse al partito nel lontano 1933 e partecipò alla Lunga Marcia l’anno successivo. La donna è consapevole che con i suoi 100 anni appena compiuti difficilmente potrà essere testimone dei prossimi cambiamenti della nazione. Tuttavia, non nasconde di sognare che “i Cinesi trasformeranno il paese in un posto ancora migliore, dove tutti potranno vedersi garantiti i medesimi diritti e avere abbastanza cibo con cui sfamarsi”. Non essendosi mai dimenticata degli anni in cui il popolo non aveva cibo, vestiti, e spesso neppure un posto per dormire, Wang Dinguo ancora oggi è convinta che solo lavorando sodo e lasciandosi guidare da Pechino la Cina potrà continuare a crescere e a migliorarsi.

Quello che veramente stupisce della Repubblica popolare di oggi è il fatto che non sia solo la generazione di Wang Dinguo a credere ciecamente nei leader del partito comunista, ma che anche la maggior parte di giovani e adulti dimostri di non essere pronta a criticare in maniera seria e costruttiva il partito. L’intera popolazione ha partecipato con gioia e con trasporto alle ricostruzioni dei “momenti gloriosi degli anni della rivoluzione” che sono stati inscenati nelle scuole e nelle caserme di tutto il paese. Moltissimi si sono radunati nei parchi delle metropoli ad ascoltare i comizi tenuti dai sosia di Mao Zedong. Gli alunni delle scuole elementari cantano e ballano “per ricordare i grandi successi del partito”, gli adolescenti si sono iscritti numerosi all’edizione contemporanea dei “giochi rivoluzionari”, una competizione sportiva in cui gli uomini si sono cimentati nella corsa con le lettighe, nella gara “fai saltare il fortino”, il cui obiettivo era fingere di far esplodere panche di ferro servendosi di dinamite di plastica e nella la corsa con la carriola carica di sacchi. Le donne nella “raccolta delle zucche”, una corsa in cui, appunto, bisognava accumulare in un cesto zucche posizionate su una pista da atletica, nella “marcia con il sovraccarico” -un sacco a pelo verde militare e nella gara di ricamo.
Due partecipanti, Lin Suen e Han Rui, hanno spiegato che, dal loro punto di vista, “il socialismo con caratteristiche cinesi” è speciale perché “ha aiutato il partito a fare il bene della Cina, migliorando la qualità della vita a tutti. I cinesi sono tanti, per questo Pechino non è ancora riuscita a soddisfare le esigenze di tutti, ma entro il 2050 non esisteranno più sacche di povertà nel paese: il governo ce lo ha promesso”.

I cinesi che non sono mai usciti dal continente non ce la fanno a non credere alla propaganda. Sono pochi quelli a cui i genitori hanno avuto l’opportunità e anche il coraggio di raccontare che la grande Cina ha anche un’altra storia, molto più triste ed oscura di quella insegnata a scuola. E’ la storia delle persecuzioni, dei soprusi, della corruzione, delle epurazioni indiscriminate e della violenza delle guardie rosse.

Questa grande fortuna è capitata a Wendy Lau: l’aver avuto dei genitori adolescenti negli anni della Rivoluzione Culturale e dei nonni comandanti di due sezioni dell’Esercito di Liberazione Popolare ai tempi della Lunga marcia non ha impedito alla ragazza di scovare gli scheletri che il Partito nasconde con successo sin dagli anni della sua fondazione. Se i genitori sono cresciuti convinti dell’infallibilità di Pechino e dell’assoluta necessità di non criticarne mai le scelte, l’aver vissuto lo shock della tragedia di Tiananmen da Hong Kong, allora colonia inglese quindi territorio libero dal controllo della propaganda cinese, ha cambiato per sempre la loro immagine della Cina popolare. “Personalmente, detesto il partito: da quando frequento le scuole elementari, il PCC non ha mai mantenuto le promesse fatte: tutto quello che abbiamo imparato in classe non può essere confermato nella Cina reale. Dicono di preoccuparsi dei più poveri, di essere contro la corruzione, di proteggere la libertà di espressione: nulla di tutto questo succede in Cina. Quindi come è possibile continuare ad avere fiducia?”.

Wendy Lau fa parte di quella piccola minoranza di cinesi capaci di valutare in maniera obiettiva i passi avanti (e indietro) compiuti dal regime. Non si tratta di dissidenti, di persone pronte a rischiare la vita pur di convincere il partito della necessità di rispettare i diritti dei cinesi e di concedere loro maggiori libertà ma, più semplicemente, di cittadini consapevoli e proprio per questo tristemente rassegnati all’idea che, anche quando la Repubblica popolare diventerà la prima potenza economica mondiale, dissenso e libertà continueranno ad essere soppressi e negate con violenza.