Attualità

Nessuno crederà a nessuno

La sentenza della Fortezza da Basso e le reazioni che ha generato: i giudici della Corte d'Appello hanno finito per favorire la rape culture?

di Davide Piacenza

Per una di quelle coincidenze fortuite dei flussi di notizie, in questi giorni sui media italiani appaiono in contemporanea due casi legati a doppio filo allo stupro. Il primo ha per protagonista Bill Cosby, la star americana de I Robinson, e le trentacinque donne che siedono sulla copertina dell’ultimo New York Magazine e lo accusano di aver abusato di loro nell’arco di quattro decadi. Il secondo, quello di cui ci occupiamo, orbita intorno a una sentenza della Corte d’Appello di Firenze dello scorso marzo, resa pubblica pochi giorni fa: riguarda la vicenda dello «stupro della Fortezza da Basso», com’è diventata nota in ambito mediatico, ovvero la presunta coercizione subìta da una ragazza, all’epoca 22enne, il 26 luglio del 2008, nei pressi della fortificazione fiorentina. La giovane si era recata in bicicletta a una festa per raggiungere un amico, e poi, stabilì il Tribunale di Firenze nel gennaio di due anni fa, era stata condotta in luogo appartato da sei persone di età compresa fra i 20 e i 25 anni, che avevano «abusato delle di lei condizioni di inferiorità fisica e psichica». I sei in seguito sono stati assolti con formula piena dalla Corte d’Appello, che nella sentenza (pubblicata in queste ore perché sono scaduti i termini per la presentazione del ricorso in Cassazione) ha giudicato i fatti «non encomiabili per nessuno» ma «non penalmente censurabili».

La ragazza, che nel frattempo si è trasferita all’estero proprio a causa dei contraccolpi della vicenda, ha scritto una lettera a un blog dove racconta la sua convivenza obbligata coi trascorsi di quella notte («A sette anni di distanza ancora ho attacchi di panico») e declina il suo j’accuse a chi l’ha attaccata in sede processuale e al di fuori, additandola addirittura per le sue inclinazioni politiche e artistiche e mettendo in dubbio la sua versione dei fatti. La sentenza della Corte d’Appello è stata accolta negativamente da molti: le parlamentari di Sel Marisa Nicchi e Alessia Petraglia si sono dette «indignate ed esterrefatte» dai contenuti del documento, in quanto stentano a credere «che nel 2015 sia anche solo pensabile che la responsabilità di uno stupro ricada su chi lo subisce». Sui social si è diffusa una simbolica protesta con cartelli accompagnati dall’hashtag #Nessunascusa, e ieri sera a Firenze una serie di sigle sindacali, femministe e associazioniste si sono riunite per manifestare contro l’assoluzione dei sette giovani.

Jarramplas Festival Held In Piornal

Proprio in questi giorni Teju Cole ha pubblicato su The New Inquiry un suo commento sull’affaire Bill Cosby, che però vale anche per quello della Fortezza da Basso: esiste un tic emotivo che porta chi è vittima di violenze a pensare: nessuno mi crederà. In Italia, invece, la scrittrice Giusi Marchetta ha firmato un intervento sui fatti di Firenze. Anche lei, come altri, più che sull’assoluzione in sé ha posto l’attenzione su alcuni passi della sentenza, e in particolare su espressioni che paiono dare un giudizio morale sulla condotta di vita della ragazza: la sessualità «non lineare»; gli slip rossi esposti mentre montava il toro meccanico alla Fortezza, quella stessa sera; l’essere bisessuale; l’aver avuto in passato rapporti con alcuni membri del “branco” che l’ha circondata. «Ho molto apprezzato il pezzo di Teju Cole», dice a Studio Marchetta. «Per caso ha risposto a un appello agli uomini che mi era venuto naturale. Probabilmente anche il silenzio su queste situazioni fa parte della cultura dello stupro: considerarlo una “questione di genere”, una cosa da donne».

Ho chiesto a Giusi cosa l’avesse turbata della sentenza, che nel frattempo ho deciso di consultare, per provare a capire e farmi un’idea. Mi ha risposto: «Quello che si legge è disturbante. Il riferimento (ripetuto nel testo) agli atteggiamenti disinibiti della ragazza e allo stato di eccitazione dei presenti come se le due cose fossero non solo connesse ma logicamente consequenziali, quasi ovvie. Un altro tra i passaggi più discutibili credo sia quello riguardante le lesioni sul corpo di lei: troppo poche». (Per essere considerate estremi per l’applicazione dell’art. 609-bis primo comma, quello che norma i delitti perpetrati con l’uso della violenza).

In questa storia, definita dai giudici «non encomiabile per nessuno» ci sono almeno due prospettive di cui tenere conto

La Corte, nel trascrivere le sue decisioni, ha definito l’atto sessuale di gruppo «un discutibile momento di debolezza e fragilità che [la ragazza] avrebbe voluto censurare e rimuovere». Ma in questa storia ci sono almeno due prospettive di cui tenere conto. Una è quella morale, l’altra è quella legale. Marco Fanti, avvocato grossetano, ha lasciato un commento all’articolo di Giusi Marchetta per rispondere alle sue tesi. In sostanza, Fanti sostiene che l’intero impianto della sentenza di primo grado fosse traballante, e viceversa che quello dell’assoluzione si basi su «una logica giuridica in linea di principio corretta», peraltro avallata da un collegio giudiziale femminile già dimostratosi sensibile a questi temi in passato. Contattato da Studio, il legale ha sostenuto che «il punto centrale della sentenza, da cui è poi derivata l’assoluzione, non si è fondato su considerazioni per così dire moralistiche: le critiche hanno semplicemente estrapolato alcuni passaggi marginali della motivazione».

«La Corte d’Appello ha valorizzato alcune testimonianze che avevano escluso di aver visto la ragazza in stato di alterazione, la circostanza che non avesse avuto difficoltà a percorrere un lungo tragitto in bicicletta da sola per tornare a casa, e altri aspetti», dice Fanti. Di certo la colpevolizzazione della vittima in casi del genere, in un paese che fino a poco tempo fa doveva ancora metabolizzare «le ragazzine che si vestono da sgualdrine», è una pratica tristemente diffusa. Nel caso della Fortezza da Basso, però, sembra doveroso operare una distinzione. Per Fanti «la credibilità della ragazza era minata anche dal fatto di aver indicato tra i colpevoli un settimo ragazzo, assolto in primo grado perché risultato essere da tutt’altra parte al momento del fatto». Secondo i giudici non soltanto non c’è prova che la ragazza in questione avesse bevuto tanto da metterla in «condizioni di inferiorità fisica o psichica», ma le incongruenze nella sua deposizione sono emerse nell’ordine delle decine, e quindi i richiami al «branco» suonano ridimensionati.

Rimane più di un dubbio, ovviamente. È difficile esprimere un’opinione in un senso univoco. Ha ragione Marchetta, quando dice che la rape culture è anche «sapere che se una sera decidi di appartarti con un gruppo di uomini e poi cambi idea, sarà molto difficile fermarli o essere creduta se denuncerai che da un certo punto in poi è diventata una violenza». D’altra parte ce l’ha anche Fanti, quando rimarca che l’impianto giuridico del primo grado era tutt’altro che solido. Casi di cronaca come quelli dell’asilo di Rignano Flaminio ci insegnano che nel caso di delitti sessuali veri o presunti l’emotività gioca un ruolo di primo piano, e la creazione del “mostro” è quasi ineludibile. In sede processuale invece assumono rilevanza le prove fattuali, che in questo caso mancavano. Con la stessa empatia provata per quanto subìto dalla ragazza di Firenze, riesce altresì difficile non trovare preoccupante che ventenni alticci siano stati messi in carcerazione preventiva in compagnia di comprovati criminali, in attesa di un processo che li ha poi scagionati dalle accuse. A prescindere dalla sentenza, non ci sono scusanti per lo shock causato all’amica – sulle cui abitudini sessuali, precedenti con i suddetti ragazzi e inclinazioni personali la giustizia italiana non avrebbe dovuto esprimersi in ogni caso. Ma quei sei sono da considerare stupratori ed esponenti della rape culture? Per le istituzioni, no. Per la morale di molti, sì.

Nelle immagini: nella festa tradizionale di Jarramplas a Piornal, in Spagna, si lanciano rape a un mostro che suona un tamburo. Piornal, 20 gennaio 2013.