Attualità

L’Italia vista dallo Zecchino d’Oro

Il Boom, Mani Pulite e l'epopea berlusconiana: come Cino Tortorella e l'Antoniano hanno riflesso la storia italiana dal dopoguerra a oggi.

di Leonardo Tondelli

Qualche giorno fa ci ha lasciato Cino Tortorella: attore, regista, giornalista, pioniere della televisione italiana, e in particolare della televisione per bambini; per più di trent’anni una presenza ubiqua su Rai e canali locali, sul Corrierino e sul Giornalino, ovunque un bimbo mettesse il naso, di lì Tortorella era passato, lasciando spesso un segno. Ma tutti, ovviamente, lo ricorderanno soprattutto per lo Zecchino d’Oro, la rassegna canora che s’inventò dal nulla e che presentò per cinquant’anni, prima vestito da mago e poi in borghese. Lo Zecchino è stato uno dei tanti modi in cui gli italiani si sono raccontati, dagli anni Sessanta in poi. Tra una strofa e l’altra sono passati il Boom, la guerra fredda, la distensione, la crisi della Prima Repubblica e tanto altro. Qui sotto qualche appunto storico-canoro che affianca la storia del Paese a quella del coro dell’Antoniano (o, volendo, qualche dritta per chi ama il genere o deve imparare a conviverci).


1965: “Dagli una spinta”
«Di scena sono i missili e i razzi a propulsion, qualcuno entra in orbita, qualcuno fa eccezion; poi quelli che ricadono in fumo se ne van: son cose che succedono, ma si rimedieran». Le generazioni centrali del Novecento sono nate col treno a vapore e hanno fatto in tempo a vedere l’uomo sulla Luna: l’osservazione che altrove avrebbe ispirato epici inni al progresso, qui ottiene l’effetto contrario. Verga rovesciava positivismo e darwinismo e voleva raccontare la storia dei vinti; “Dagli una spinta” finge un po’ di ottimismo ma condivide lo stesso punto di vista. Non importa cosa inventeranno domani di eccezionale, vedrai che a noi si guasterà comunque. Noi siamo quelli che scendono e spingono… no, in effetti noi siamo già un po’ troppo furbi, un po’ troppo cinici, noi siamo quelli che dicono agli altri di scendere e spingere.

1967: “Per un ditino nel telefono”
«Sette-sette-sette arrivò la polizia, e invadendo casa mia portò via il mio papà…». La tecnologia è il male. Il bambino cerca di infilarci un dito perché è piccolo e perfido. Non ne potranno seguire che sventura e vergogna. Ci metteranno le manette i carabinieri. La polizia ci porterà in prigione. La mamma in manicomio. Ogni volta che sui giornali leggete un pezzo sgomento sugli orrori di internet e sui social network – covi di spacciatori e stupratori seriali – e vi domandate: ma questi giornalisti da dove saltano fuori? Beh, è difficile dirlo, ma forse nel 1967 seguivano lo Zecchino d’Oro.

1967: “Popoff”
«Ehi, Popoff, così proprio non si fa! Non cammina in questo modo un cosacco dello Zar!». L’idea che il successo arrida all’individuo diverso, l’innovatore, quello che non rispetta regole e protocolli (non per egoismo, ma perché proprio non se lo può permettere) è la morale andersoniana di tante fiabe Disney, e più recentemente Pixar. In “Popoff” però, sotto le immagini cartonate s’intravede l’orrore della ritirata di Russia (che altro poteva venire in mente ai nonni che al pomeriggio si sintonizzavano sul programma del mago Zurlì?), il che getta sul messaggio una luce sinistra: nella disfatta non sopravvive chi segue le regole, ma chi le sa aggirare.

1968: “44 gatti”
«Quando alla fine della riunione / fu definita la situazione / andò in giardino tutto il plotone / di quei gattini senza padrone». Prima che sul palco dell’Antoniano arrivassero le delegazioni dai Paesi del Patto di Varsavia, la quota di comunismo reale era assicurata da parolieri come Giuseppe Casarini: la lotta di classe non è mai stata così pucci. Mentre insegna al bimbo a guardare al mondo come a una vertenza sindacale, Casarini non disdegna la praticità immediata, gettando luce su uno degli angoli più oscuri della tavola pitagorica: la tabellina del sette. Eterna riconoscenza anche solo per questo.

1968: “Il torero Camomillo”
L’universo dello Zecchino d’oro – alternativa autarchica al colorato mondo Disney – è un luogo pieno di animali gentili e altri personaggi che non si fanno mai male, ma proprio mai: i cowboy non portano nemmeno le pistole («perché lo sceriffo non vuole»). Questa rigida autocensura, che anticipa di molto i bollini televisivi, se spinta alla massima potenza produce personaggi memorabili come il torero Camomillo, «che schiaccia un pisolino e non ci pensa più» sulla schiena del toro, mentre l’arena va in delirio. Mio eroe e mio modello.

1983: “Evviva noi”
Negli anni Ottanta arrivano i comunisti, rumeni, ungheresi, russi, vietnamiti, e danno subito lezioni a tutti quanti, come nella ginnastica olimpica e nelle coreografie. “Evviva noi” è trascinante e commovente assieme, e sta in questo elenco solo perché è una delle pochissime che riascolto volentieri, e ci ricorda che un altro Zecchino (un altro mondo) era possibile, o almeno pensabile. «Canta andando a scuola / Che la scuola è luce / Luce che ti accende / Mille verità! / Canta per il babbo / Babbo tanto stanco / Stanco ma felice / Se ti ascolterà! / Evviva noi! Noi amici che cantiamo, Noi! Noi che ci vogliamo bene, Noi! Noi bambini senza guerra… Pace in terra! Pace in terra!». Avete presente quando in Goodbye Lenin fanno credere alla madre che il Muro è crollato perché i tedeschi dell’Ovest volevano raggiungere i comunisti nell’Est? Ecco, mi fa questo effetto. «Geografia! Geometria!».

1985: “Riprendiamoci la fantasia”
«Perché Mazinga ce la vuol portare via! Anche se Heidi è bella le diciamo ciao, e a Goldrake facciamo: Marameo!». I parolieri italiani hannno individuato la nuova fonte di Ogni Male: i cartoni animati giapponesi. “Riprendiamoci la fantasia” è un manifesto del ritorno alla natura: basta Goldrake, passiamo il tempo a fare i rumori degli animali del cortile e a sollevarci vicendevolmente con la carriola, finché non ci stanchiamo, mangiamo tanto e andiamo a letto. Lo Strapaese non muore, o almeno nel 1985 stava ancora benissimo.

1990: “Nonno Superman”
«Nonno, facciamo una drittata? Andiamo in discoteca / Stasera sono la tua fidanzata…». Il pezzo dello Zecchino che anticipava più profeticamente il berlusconismo è stato scritto alla fine degli spensierati anni Ottanta, e già a metà Novanta cominciava a suonare inquietante (lo spartiacque potrebbe essere stato l’arresto del mostro di Marcinelle?). Ok, era solo un’innocente canzoncina, ma nel cortile delle elementari dei marpioni coi capelli bianchi cominciavano ad avvistarsene. «Nonno prima o poi ti metti nei guai…».

1992: “Un giallo in una mano”
Sono passati appena due anni da quando Nonno Superman faceva lo spavaldo in motoretta, ma il clima è radicalmente cambiato. L’inchiesta Mani Pulite decima la classe dirigente, e lo Zecchino d’Oro non può far finta di niente. “Un giallo in una mano” ribadisce, a ogni ritornello, la Fiducia nella Magistratura: «Però c’è il commissario che sa quello che fa». Il “giallo” in sé è sbiadito come in un episodio di Montalbano: anche se il Mignolo ha un alibi risibile, il colpevole è senz’altro il Pollice perché è il più grosso, ergo il più prepotente. Ma se era tutto chiaro sin dall’inizio, perché tutta la manfrina dell’inchiesta? Per insegnarvi ad… «amare l’onestà». Grillo e Casaleggio al tempo devono aver preso appunti.

1994: “Metti la canottiera”
All’alba del 1994 qualsiasi velleità autarchica è deposta: gli americani hanno colonizzato l’immaginario dello Zecchino al punto che il piccolo calciatore, oltre a riconoscere che «questa è l’epoca di Rambo», fantastica anche di «bambine in vestito da seta» che dovrebbero sorridergli da bordo campo: se solo i genitori non gli imponessero questa fastidiosa canottiera, emblema di italianità conservatrice. Apparentemente i genitori hanno l’ultima parola, però, insomma, l’Antoniano degradato a coro di cheerleader, capite che l’egemonia culturale ce la siamo giocata. (Ah, l’anno dopo sarebbe scomparsa Mariele Ventre, che aveva fondato e diretto il coro dell’Antoniano per 32 anni).

1996: “È meglio Mario”
I bambini che ascoltavano terrorizzati “Un ditino nel telefono” sono cresciuti, hanno comprato il computer e ancora prima di accenderlo hanno iniziato a fare gli sboroni – a Bologna si dice così – vantandosi del microprocessore («treottosei, quattrottosei cinqueottosei… ce l’hai un pc? Io sì che ce l’ho!»). L’ostilità degli italiani per l’innovazione tecnologica, camuffata da superficiale entusiasmo, non poteva descriversi meglio. Il bambino che naviga sui poveri contenuti multimediali del tempo (immaginiamoci qualche variopinto cd rom allegato all’Espresso, o peggio) maschera la delusione utilizzando quelle tipiche espressioni che i giornalisti non hanno smesso di usare: le «autostrade telematiche», il «Duemila un po’ virtuale». Poi improvvisamente al ritornello sbotta: ma è meglio il mio amico che sa fare le sgommate. Altro che la multimedialità, altro che gli ipertesti da saccheggiare per la ricerca di scienze: andiamo a tirare due calci a un pallone, sono queste le vere gioie della vita. Tanto più che Mario «non è un genio in matematica», ci mancherebbe, e… sa ballare «il twist». Nel 1996. Bambino, non so come dirtelo, il tuo amico Mario è Nonno Superman mascherato, lui è determinato a non invecchiare e vuole attirarti nella sua bolla atemporale dove si balla il twist e si sgomma in Lambretta. Forse è meglio che impari l’html.

1997: “Un bambino terribile”
«Sono un bambino terribile! Suono i coperchi e le pentole! Nemmeno io so il perché!». Perché sei uno stronzo. Il tuo psicologo te lo dirà con più diplomazia, ma fidati, il succo è quello. Inoltre vivi in una nazione che ha detto no al Ritalin e sì alle canzoni in cui la tua ipercinesi è salutata come portatrice di sana gioia di vivere (e no, non è colpa del rock. Forse è un po’ colpa di Bennato, ma non del rock, non c’entra proprio niente il rock).

2000: “Il cuoco pasticcione”
«I camerieri son disperati / Il nostro cuoco prova i brasati. Tutto ribolle, tutto s’incolla / Ma lui non molla finché ce n’è!». Berlusconi stava per rivincere le elezioni, Antonella Clerici stava per inaugurare La prova del cuoco: il brano che vince l’edizione del 2000 è veramente il ritornello giusto al momento giusto. Si appiccica al primo ascolto e descrive l’orrore di un Paese rassegnato alla decadenza, vittima di dirigenti troppo assorti a dare un assaggio qua, una leccatina là: un disastro senza redenzione di fornelli unti, padelle carbonizzate che nessuno laverà mai.

2003: “Le tagliatelle di nonna Pina”
«Inglese, pallavolo e perfino latin-dance / E a fine settimana non ne posso proprio più! / Mi serve una ricarica per tirarmi su»Se c’è mai stata una drug song all’Antoniano, la nonna Pina ne sa qualcosa. Purtroppo le miracolose Tagliatelle non schiudono nessuna porta della percezione: è droga da prestazione, i bambini che si fanno di pasta all’uovo stanno cercando di sopravvivere a un training infernale di corsi e doposcuola. La Tagliatella autarchica riporta per un istante l’ordine, la pace, ma fornisce anche l’energia necessaria a combattere il logorio della vita moderna.

2011: “Un punto di vista strambo”
Quando tutti gli animali ormai sono stati presi – coccodrilli, maialini, lumache, pianeti viventi più o meno antropomorfi – al maestro Flavio Conforti non resta che scrivere il mambo del pipistrello, e il risultato è un’adorabile lezione di relativismo culturale. «Provaci un po’ anche tu: le gambe in aria, la testa in giù, dai prova! E così capirai che in fondo l’unico tu non sei nel mondo»A qualche bambino sarà andato il sangue alla testa, ma ne valeva la pena. Nel 2011 Tortorella non presentava più da tre anni, dopo cinquanta di ininterrotta presenza; aveva litigato coi frati dell’Antoniano. In seguito gli è capitato di esprimere un giudizio molto negativo sulle edizioni più recenti: ma quella del 2011, coi pipistrelli e col gatto mascherato, è stata un’inattesa dimostrazione di vitalità.

2015: “Prendi un’emozione”
«Prendi un’emozione, chiamala per nome, trova il suo colore e che suono fa. Prendila per mano, seguila pian piano, senti come nasce, guarda dove va»Qualsiasi resistenza sarebbe probabilmente stata vana: anche lo Zecchino è entrato nell’Era delle Emozioni. Lo ha fatto al termine di un’edizione di altissimo livello, proprio nell’anno del successo mondiale di Inside Out, e non è un caso. I neuropsichiatri confermano: l’uomo non è quello che pensa (Cartesio si sbagliava), ma quello che prova: lo Zecchino forse non capisce ma si adegua.

2015: “Tutanc’mon”
«Fe ramlet el Sahara el gaw har ktir/ Eed wehed faraana neyem alatul…». Ne facessero a Sanremo, di canzoni così. Un riff irresistibile, un tiro invidiabile, un raro esempio di canzone dello Zecchino che dice più con la musica che col testo. Ma anche il testo, a pensarci bene, con quell’arroganza di partire in arabo senza avvertire né chiedere il permesso, è un avvertimento preciso: lo Zecchino oggi è questo, l’Italia è questa (per una volta i commenti su YouTube scaldano il cuore): mandate pure Salvini a farsi i selfie a Lampedusa, i suoi nipoti alle scuole primarie balleranno comunque “Tutanc’mon”. «E allora yalla yalla vieni qua, e vedrai che poi ti piacerà. E se non balli questa, cosa ballerai? Yalla Besha!».