Attualità

Le mille notti

Un racconto ambientato nel cuore del tessile cinese esportato, dell'imprenditoria italiana e dell'impossibile convivenza a Prato. Tra Le mille e una notte e la fine dell'accordo Multifibre.

di Vincenzo Latronico

Pubblichiamo un racconto breve originariamente commissionato dal Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato per Territoria 4 – Il Grande Balzo, uscito nel 2009Qui la scheda del libro. L’autore racconta la storia di Michele Biancalani, imprenditore immaginario, sullo sfondo della Chinatown di Prato, recentemente protagonista delle cronache nazionali a causa dell’incendio costato la vita a 7 lavoratori cinesi.


Il 12 settembre 1688, l’arabista Antoine Galland fece ritorno a Parigi dopo un lungo soggiorno ad Istanbul, portandosi appresso un trattato sulla storia del caffè, una collezione di monete orientali e il primo manoscritto in mani europee del libro che nel mondo arabo era famosissimo sotto il titolo Le mille e una notte. Era intenzionato a tradurlo, cosa che in seguito avrebbe fatto, dando alle stampe il più clamoroso successo editoriale della prima metà del Settecento. Durante la lavorazione fece leggere alcuni dei racconti del suo Decameron orientale a letterati e filosofi di sua conoscenza, che ricevettero ognuno poche pagine copiate a mano in grandi buste ingiallite. A tutti parvero le cose più intense e misteriose e orientali che avessero letto in molto, molto tempo.

Prima di concludere la traduzione, preso forse da scrupolo, Galland fece il conto delle notti che conteneva il suo manoscritto. Erano novecentottantasette. Si tormentò a lungo su come reperire le notti mancanti, finché non riuscì a mettersi in contatto con un ecclesiastico maronita dotato di una memoria, così disse, non meno prodigiosa di quella di Sheherazade, e di un nome che alcuni sostengono essere Hanna Diab. Il maronita si offrì di aiutarlo, e lasciò in fretta Aleppo per imbarcarsi e raggiungere a Parigi lo studioso così gentile da pagargli il viaggio fino all’altro capo del mondo. È a questo suo viaggio che la prima edizione europea de Le mille e una notte deve, fra le altre cose, il racconto di Ali Babà e i quaranta ladroni e quello della lampada di Aladino. Che cosa spinse il maronita a partire, a vendere la sua conoscenza? Il denaro, il desiderio di aiutare un accademico, l’impulso di vedere il mondo lontano? Quel che è certo è che, dopo il suo arrivo, passò giorni e forse mesi chiuso in una stanza con Galland, raccontandogli le storie che conosceva così bene. Il primo dei dodici volumi de Le mille e una notte di Antoine Galland uscì nel febbraio del 1707, e allora per l’accademico francese il maronita era già diventato Sheherazade.

La prima notte in cui Michele Biancalani parlò con Guo, il 18 ottobre del 1999, le raccontò del maronita che era Sherazade. «Chi sei?», gli aveva chiesto lei in un inglese schematico, quasi a mattina, dopo che tutto ciò che doveva succedere era già successo, dopo. Intendeva chiedergli, ovviamente, quale fosse il suo lavoro, ma Biancalani non si era avveduto del malinteso. L’umidità e il ventilatore troppo rumoroso dell’albergo lo tenevano sveglio. «Sono Sheherazade», aveva risposto lui. Se Guo gli avesse domandato a quale delle due si stesse riferendo, Michele Biancalani avrebbe risposto la prima, quella che con la conoscenza strega i potenti e vince la morte e la volontà altrui.

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Questi paragrafi dovevano essere, e sono, l’inizio di uno scritto commissionatomi dalla Provincia di Prato, che voleva offrire uno sguardo esterno sulla città di Prato e il territorio circostante, all’interno della quarta edizione del progetto di arte contemporanea Territoria. Uno degli argomenti portanti di Territoria 4 è la difficile coabitazione fra i pratesi, colpiti duramente già alcuni anni fa dal declino del tessile italiano, e la corposa comunità cinese della città, confusamente percepita come corresponsabile di tale declino. L’immagine di Sheherazade avrebbe attraversato, in controluce, tutto il racconto, a simboleggiare le traversie e i tentennamenti dello scambio reciproco fra culture distanti. A parlare di Sheherazade, dopo l’amore, sarebbe stato nel racconto il dottor Michele Biancalani, agente e poi direttore commerciale di una storica fabbrica pratese di telai industriali, e poi disoccupato. Nella storia professionale del dottor Biancalani, e in certo modo anche in quella personale, si poteva leggere un’immagine dell’ascesa e del declino del tessile a Prato.

Tutto questo lo avevo pensato prima di passare alcuni giorni di sopralluogo nella città. Avevo deciso che Michele Biancalani sarebbe stato appassionato de Le mille e una notte perché suo nonno, in gioventù, gli aveva fatto leggere un saggio di Borges a riguardo. È così che è successo a me. Avevo deciso che avrebbe avuto ricci folti e portamento elegante, e nessuna cultura universitaria, perché la dirigenza s’impara in fabbrica aiutando il babbo. Avevo deciso di dargli un’amante cinese, Guo, per far emergere la sua tenerezza e la sua confusione e le pienezze ed esiguità della sua immagine di industriale in Cina. Avevo deciso che il suo primo viaggio a Shenzhen sarebbe stato il 13 ottobre del 1999, e sarebbe stato per conquistare il mondo.

Attraversando i tornelli del controllo passaporti all’aeroporto di Fiumicino, il 13 ottobre del 1999, Michele Biancalani si voltò a guardare la madre un’ultima volta prima della partenza; incrociò uno sguardo emozionato ed ambizioso e umido, forse, e distolse gli occhi. Al suo ritorno, due settimane dopo, varcò un identico tornello con il passo baldo e lieto del conquistatore, del condottiero con i cannoni caricati a brevetti e le stive colme di ordinativi barattati con ciondoli e collanine di specchi. Durante la sua permanenza aveva venduto quasi il venti per cento della loro produzione annua di telai, e riletto il terzo volume de Le mille e una notte e fatto l’amore sei volte con una cameriera dell’American bar del suo albergo, che si chiamava Guo e che non aveva mai sentito parlare di Prato. Ne aveva sentito parlare, invece, il CEO della Wang Textile Corporation, che aveva firmato i suoi ordinativi. Sapeva che da lì dovevano venire i macchinari con cui proiettare la sua azienda oltre le colonne d’Ercole del midmarket, e sapeva che li avrebbe pagati oro perché non c’era altro posto in cui farli produrre. Al ritorno del figlio, il cavalier Biancalani padre aumentò di ventinove unità la forza lavoro della sua azienda per evadere in tempo i nuovi ordini ricevuti, e conferì un sostanzioso aumento a tutti in previsione del lavoro in eccesso che ci sarebbe stato, sì, ma anche per ridistribuire marginalmente la ricchezza e scongiurare il fantasma antico dell’odio di classe.

Quel fantasma, e la ricchissima industria pratese che infestava, era la ragione per cui gli operai della città erano i meglio pagati d’Italia, e così fioriva l’economia della provincia, trascinata dai consumi e dalla crescente richiesta internazionale di tessuti pregiati. Il vento spettinava le spighe e i fascicoli di fatture quando qualcuno scordava aperte le finestre in contabilità; il dottor Biancalani junior viaggiava in Cina in business e suo padre a Natale riceveva gli auguri personali del presidente della Banca Commerciale Italiana. Come un motore a pieno regime è il mercato che gira.

Nel racconto, il succedersi dei viaggi di Michele Biancalani si sarebbe sviluppato in parallelo con un approfondimento del suo rapporto con Guo ed uno slittamento dell’equilibro commerciale fra la sua azienda e la Wang Textile, con cui aveva firmato un irresponsabile, benché inizialmente vantaggioso, contratto di esclusiva sul mercato cinese. L’accordo Multifibre, che dal ’74 proteggeva i mercati occidentali dalla concorrenza di paesi dove il lavoro ha il costo di un sacchetto di noccioline, iniziava a scricchiolare. La tigre orientale ruggiva, e ad ogni ruggito la sua forza contrattuale abbassava i margini di guadagno che i Biancalani strappavano al loro principale cliente. Il vento seguitava a spettinare le spighe, Prato ad arricchire, anche se un po’ di meno. Come una ruota della fortuna è il mercato che gira.

Di cosa parlavano Guo e Michele abbracciati sotto o sopra il lenzuolo, quando l’aria condizionata – che gli alberghi avevano iniziato ad installare dopo il 2002 – cedeva al caldo del Guangdong? Michele del fatto che si sentiva come Sheherazade, portatore di novità misteriose, ma via via meno pregiate. Guo, invece, gli parlava di Prato, dove si era trasferita sua cugina, che ogni settimana le scriveva lettere che sopravvivevano alla censura e a un viaggio così lungo, e che lei leggeva a tarda notte sotto il bancone del bar, quando i clienti erano tutti a letto ubriachi e Michele era a Prato o dove, chissà. La cugina di Guo ci era arrivata per lavorare come operaia in un pronto moda del Macrolotto, la zona industriale a prevalenza cinese a sudovest della città. Questa, in parte, è una forzatura, perché il grosso degli oltre ventimila cittadini cinesi residenti a Prato proviene dalla regione dello Zhejiang, a millequattrocento chilometri dalla città natale di Guo. Ma magari una delle due si era trasferita in gioventù.

La cugina di Guo era un espediente narrativo volto a mettere in gioco lo sguardo cinese sulla città di Prato, al duplice livello della comunità migrante locale e degli industriali in patria con cui trattava Michele Biancalani. I secondi sono responsabili del declino economico di cui i primi, ogni giorno, sono spettatori. Che rapporti vigono fra i due gruppi? Gli stessi che vigevano, nell’Italia del primo Novecento, fra la famiglia Agnelli e chi emigrava per fare fortuna negli Stati Uniti. Ma certo, il fatto che i cinesi di Prato provengano dal paese in cui fioriscono le aziende che hanno messo in crisi l’economia locale, si potrebbe dire, non aiuta a farli accogliere in pompa magna dalla città. Questo curioso sdoppiamento si sarebbe riflesso nei moti interiori di Michele, che doveva la fortuna familiare al tessile cinese, e che ad esso doveva anche il fallimento della sua città. In seguito Michele Biancalani, pur sapendoli innocenti, avrebbe cavalcato in patria il risentimento verso i migranti cinesi per riciclarsi come politico di destra in seguito alla chiusura della sua fabbrica. Di questo, però, a Guo non parlava, anche se ci pensava, a volte, quando lei gli leggeva traducendole approssimativamente in inglese le descrizioni che sua cugina le faceva della via Pistoiese.
Io ci sono stato, in via Pistoiese, oltre la porta dello stesso nome a ovest della città. Volevo conoscere quella zona, intervistare gli abitanti per scoprire le parole con cui la cugina di Guo avrebbe potuto descrivere Prato. Nelle mie intenzioni Michele, gradualmente, sarebbe giunto a vedere la propria città con occhi diversi – con gli occhi di quegli stessi migranti che, come politico, incolpava del degrado. Era questa la prospettiva esterna che volevo sposare.

Girando per il triangolo inscritto fra la via Pistoiese e la via Filzi si comprende ciò che si intende per Chinatown. I marciapiedi sono gremiti di persone cinesi. I negozi vendono verdura cinese e merce cinese – ma le insegne sono in italiano, perché così prescrive una legge comunale di recente approvazione. Quelli fra i commercianti che non si sono uniformati hanno ricevuto una multa, e le loro insegne sono state coperte da sacchetti di plastica neri. Le insegne coperte in via Pistoiese sono, comunque, uno spettacolo migliore rispetto alle infilate di negozi chiusi o in vendita nelle vie del centro di Prato. Hanno chiuso in moltissimi, negli ultimi anni.

Alle mie avances di intervistatore goffo ma volenteroso hanno risposto quasi solo residenti italiani di via Pistoiese e bambini, migranti di seconda generazione che non avevano problemi linguistici. Chiedevo loro di parlarmi di Prato. Un italiano mi ha detto che Prato finisce dove il centro si apre su Porta Pistoiese, e da lì inizia la Cina. Una bambina, alla cassa di un supermercato, mi ha detto che per lei Prato finisce a Porta Pistoiese, e poi inizia una zona della città in cui non si va se non ci sono ragioni veramente importanti per farlo. È il centro.

«Mi ha scritto mia cugina da Prato», diceva alle volte Guo a Michele, quando non c’era molto altro da dire. «Le ho parlato di te, magari potreste incontrarvi», proseguiva. Michele, in genere, non rispondeva, e pensava che il pelo pubico di lei era crespo e fittissimo come lana di ferro, o lanugine, in realtà.

La persona con cui ho fatto l’intervista più lunga e interessante, a Prato, è un ventiseienne di nome Alex, nato in Cina ma in Italia ormai da dieci anni. Alex non è il suo vero nome – si chiama Yexiang, ma si presenta come Alex per aiutare la memoria degli italiani. Il suo nome è cambiato poco dopo il suo arrivo, molto prima delle insegne dei negozi. Alex fa il mediatore culturale, che è un’evoluzione del mestiere di traduttore, che è ciò che faceva Antoine Galland, l’arabista. Il modo più semplice di rendere evidente la distinzione fra traduttori e mediatori è dirsi che i primi si occupano di parole, i secondi di concetti legati alle specificità di una cultura. In un certo senso, potremmo dire che Galland fu un traduttore per la Francia, perché le portò Le mille e una notte, e un mediatore per il maronita dal nome incerto. Diventando ricco – e famoso in tutto il mondo – grazie alle storie che l’ecclesiastico conosceva in quanto patrimonio collettivo, Galland probabilmente gli illustrò il concetto di proprietà intellettuale. Dato che Alex è un mediatore culturale, gli ho chiesto di illustrarmi il concetto di integrazione, di cui in un modo o nell’altro parlano quasi tutti i pratesi che ho interrogato in materia. Il problema della comunità cinese di Prato, dicono, è che non si integra. È per questo che servono le insegne in italiano, e anche gli esami di lingua obbligatori, magari: per facilitare l’integrazione. «Ma come mi spiegheresti cosa significa integrazione, se io non lo sapessi?», ho chiesto ad Alex.
Alex è rimasto in silenzio per un po’. «Fare finta di essere italiani», ha detto poi.

Nell’ultima parte del racconto, anche centinaia di operai della Wang Textile Corporation si sarebbero integrati: avrebbero fatto finta di essere centinaia di italiani in particolare, gli operai della azienda di Biancalani che aveva appena svenduto tutte le apparecchiature per la produzione di telai, prima di chiudere. È successo davvero. Con la terminazione dell’accordo Multifibre, nel 2005, ma anche prima, l’unica via d’uscita dai debiti per molti industriali pratesi è stato vendere in blocco tutto il contenuto delle proprie fabbriche ai concorrenti asiatici. Magazzini e macchinari venivano imballati e spediti nei cargo; ad accompagnarli c’era una parte consistente della forza lavoro dell’azienda. Restavano in Cina per un mese o poco meno, a fare esattamente ciò che facevano prima, lavorare nelle vecchie catene di montaggio smontate e trasferite e rimontate lì, dall’altro capo del mondo. Si trattava di una colossale rappresentazione teatrale, a beneficio degli operai cinesi che con attenzione seguivano ogni gesto alle loro spalle, prendendo appunti, e che poi avrebbero assunto il loro posto ai macchinari produttivi. Erano attori all’ultimo ingaggio, in tournée – e sulla seggiola da regista, ovviamente, c’era Michele Biancalani.

Nella sua ultima notte con Guo, Michele ebbe alcuni problemi di erezione. Guo non sapeva che era l’ultima volta che sarebbe stato in Cina, ma forse lo immaginò. Per ingannare il tempo gli chiese di parlarle ancora de Le mille e una notte, ma Michele Biancalani le rispose che de Le mille e una notte non aveva più niente da dire, e nel tentativo di vincere il silenzio fu lei che per ore gli descrisse Prato. Gli raccontò di una Prato fantastica, da lettera o da cartolina, in cui le imprese aprivano e la manodopera accorreva a fiumi e i soldi fluivano verso paesi lontani e il vento spettinava le spighe. Anche la mattina successiva, in un capannone poco distante dall’albergo, Michele e i suoi operai avrebbero continuato a trasmettere le conoscenze collettive di una città a chi da allora in avanti sarebbe stato l’unico a trarne profitto. Erano diventati maroniti.

Al termine della nostra conversazione Alex mi ha chiesto di illustrargli il mio progetto di racconto, e io, che mediatore culturale non sono, ho avuto difficoltà a spiegargli i concetti di “sguardo esterno” e di “scrivere un racconto a proposito di un posto”. Non gli ho parlato di Sheherazade e di Michele Biancalani: la nostra chiacchierata era bastata a farmi abbandonare quel progetto. Ho scherzato che avrei scritto di una storia romantica fra un ragazzo italiano e una ragazza cinese, che per la prima volta si baciano nel sottopassaggio che collega via Pistoiese a via Filzi e si sposano nel parco di via Colombo di fronte a una folla mattutina di praticanti del tai-chi. Alex mi ha detto che anche lui voleva fare un cortometraggio con una trama simile, alle medie.

«Cosa vede», mi ha domandato Alex, sinceramente interessato, credo, «Cosa vede un occhio esterno in una situazione come quella di Prato?».
Qualche giorno dopo, tornato a Milano, mi sono chiesto cosa avevo visto. Avevo visto grandi sistemi imprenditoriali vissuti e crollati, o frantumatisi in una nube di contoterzisti senza impiego e fondi in affitto. Avevo visto la più grande comunità cinese dell’Europa meridionale, attratta dal bisogno di manodopera a basso costo di quella stessa industria che la concorrenza del loro paese d’origine avrebbe abbattuto, e in seguito invischiata nella stessa crisi economica di cui i concittadini pratesi, ingiustamente quanto più o meno esplicitamente, la incolpavano. Avevo visto i negozi chiusi e gli stipendi dimezzati e l’insicurezza. Cosa avevo visto? Il mercato che gira.
«Non vede niente», ho risposto ad Alex.

L’edizione de Le mille e una notte curata da Antoine Galland ha finito per influire sulla tradizione manoscritta del volume negli stessi paesi arabi da cui aveva avuto origine. Le storie narrate dal maronita, vere o inventate che fossero, sono entrate a far parte de Le mille e una notte, il cui canone è stato quindi fissato in Francia. Non credo che Galland avesse illustrato a Hanna Diab il concetto di stampa a caratteri mobili, e i meccanismi circolatori in cui i suoi racconti sarebbero stati immessi, ma forse sì. Forse il maronita lo sapeva, che era stato spedito dall’altra parte del mondo per raccontare quelle storie per l’ultima volta, che nel bottino di conquista si sarebbero presi anche quelle, che d’ora in poi raccontarle spetterà a qualcun altro.

Quando Michele Biancalani fu di ritorno dal suo ultimo viaggio a Shenzhen, a Prato ogni cosa gli parve diversa.

 

Nell’immagine, fabbriche a Prato.