Attualità

Il ritorno delle piante

Nuove riviste che nascono da Barcellona a New York, la crescita dello urban gardening, e poi Instagram & co. Le piante come tendenza.

di Davide Coppo

Me ne sono accorto per caso una sera di inverno, mentre me ne stavo sul divano a guardare la grandiosità di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola compressa nei tredici pollici dello schermo di un laptop. Ero arrivato alla “scena-del-mango”, quella in cui il soldato Chef si addentra nella giungla per cercare del mango, e si trova faccia a faccia con una tigre saltata fuori da un cespuglio. Forse la colpa fu della poca tensione di una scena che conoscevo bene, quasi a memoria, ma ricordo di non essermi concentrato né su Chef, né sulla tigre, né sul pericolo che la giungla vietnamita nasconde. Mi ero concentrato sul cespuglio, che in realtà non era un vero cespuglio. E pensai: «Che bella alocasia».

L’alocasia è una pianta tipica del Sud-est asiatico, può raggiungere un’altezza di tre o quattro metri ed è caratterizzata da grosse foglie verdi, simili a orecchie di elefante. Quella dietro cui si nascondeva la tigre vietnamita era del tipo macrorrhiza, una delle più comuni, potenzialmente la più grande. La macrorrhiza è anche la stessa alocasia che a pochi centimetri da me, nel mio salotto, stava patendo la secchezza dei caloriferi di Milano nord, che avevano già ucciso le due foglie principali e mettevano in pericolo le restanti, più piccole, alcune neonate. Non avevo ancora capito quale fosse il problema, cioè la mancanza di umidità, eppure Apocalypse Now presentava già la soluzione: nella giungla, con un’inquadratura a campo più largo, era facile notare le piccole nuvole di nebbia che permettono alle alocasie di prosperare.

Prima di quell’inverno c’era stato un autunno, prima dell’autunno un’estate e quell’estate mi ero trasferito in una nuova casa. In poco tempo, come non mi era mai successo prima, stavo riempiendo la casa di piante. Come un riflesso incondizionato. Si comincia dalle piante-Ikea, posizionate in ogni megastore svedese strategicamente nell’ultimo reparto, con una precisa logica commerciale: dopo i mobili pre-fabbricati, dopo il legno pre-tagliato, le scaffalature in serie e le (brutte) librerie che hanno uniformato l’estetica dell’arredamento occidentale dal 1965 a oggi, dopo tutto questo legno smaltato, complementi d’arredo… le piante: che sono uniche, verdi, imperfette, delicate, personali. Vive, soprattutto. Dopo le piante Ikea (l’iperresistente zamia, l’aloe, i piccoli ficus generalmente destinati a morti precoci) si passa alle piante più tradizionali da appartamento, il ficus elastica, il benjamin, le madeleine dell’infanzia in un salotto con quadro familiare. Poi, se il vezzo di arredamento diventa passione, inizia la ricerca di piante più rare, pezzi di design naturale preziosi e unici.

È uno strano ibrido tra l’ornamentale e e il funzionale.

Questa espressione è strana. Da molti punti di vista, una pianta non è un pezzo di design, per tutti i motivi elencati poco sopra in contrasto con i mobili Ikea. Da altri, invece, lo è. Lo scopo per cui le piante finiscono nelle nostre case, sulle nostre mensole e sui nostri pavimenti, è uno strano ibrido tra l’ornamentale e e il funzionale. Dal punto di vista funzionale, soddisfa un probabile istinto atavico dell’uomo: quando fai crescere qualcosa con le tue cure, ciò che ti ritorna, sotto forma di soddisfazione e appagamento, dà un certo benessere. Dal punto di vista ornamentale, beh, le piante sono belle. Almeno: quelle che scegliamo per la nostra casa (quelle brutte non le conosciamo, perché essendo brutte sono state lasciate nel loro habitat, ai Tropici). Le piante, su Instagram, su Tumblr, nei servizi di moda e sulle riviste di arredamento, sono design. Jean Des Esseintes, nel romanzo À Rebours di J.K. Huysmans, arredava la sua particolarissima casa con fiori e piante finte, ma di una rassomiglianza al reale così estrema da renderle indistinguibili. Des Esseintes deficitava evidentemente del lato più sentimentale, ma era un problema non relegato alle sole piante.

Generalmente, quando realizzo – non lo realizzo immediatamente – di stare attraversando una nuova passione (la scoperta di uno scrittore; la cucina; un genere cinematografico; il gin) faccio un gioco con me stesso: provo ad andare a ritroso alle origini della passione, in una specie di logica deterministica freudiana, convinto che le passioni siano, in qualche modo, guidate da qualcosa. Qualcosa che può essere un sentore, soltanto questo. Sfuggente, astratto, intangibile. L’ho fatto anche con le piante, e ho trovato un po’ di indizi. Innanzitutto, il nuovo negozio nel nuovo quartiere: ha aperto poche settimane prima del mio trasferimento, è il mio riferimento e il mio modo preferito di spendere i soldi e regalarmi piccole dosi di serotonina (sì: capita che le piante migliorino l’umore, come l’Mdma; no: non rendono più sciolto il ballo in discoteca). Si chiama Offfi, con tre effe, e lo gestisce Mario Nobile, uno che dopo dieci anni di management ha mollato l’ufficio per aprire il suo negozio di piante. Qui le piante sono particolari, dai cactus crestati ecuadoregni a vari tipi di alocasia del Sud-est Asiatico, al senecio kleinia dall’Etiopia. Mario, quando gli chiedo perché a un certo punto della sua vita ha deciso di cambiare lavoro così radicalmente, mi dice che sentiva il bisogno di fare qualcosa di concreto. Vale a dire di non lavorare soltanto con numeri e dati su un computer, ma con qualcosa di tangibile, in cui immergere le mani, e da far nascere con le mani. Il verbo fare, nel senso più concreto del termine: qualcosa di molto simile a costruire.

Chiedo a Mario se ha un’opinione sul “ritorno delle piante”, su questo interesse e questo sentore. Lui cita Jorn de Précy, figlio di un ricco commerciante britannico, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, proprietario del giardino di Greystone e autore del piccolo libro E il giardino creò l’uomo (Ponte alle Grazie), descritto nel sottotitolo con una frase un po’ troppo new age: Un manifesto ribelle e sentimentale per filosofi giardinieri. De Précy dice cose come: «Ecco: solo i giardini resistono al naufragio della modernità. Di questo tratta il libro che tenete tra le mani: di come solo questi luoghi sfuggano ai disastri della storia invitandoci in rifugi incantati, lontani dalle perversioni della civiltà». Oggi, meno epicamente, parleremmo di un bisogno di slow in una società sempre più veloce. D’altronde ciò che sta accadendo con le piante è simile a quello che è successo con il cibo pochi anni fa.

Altri indizi sul sentore, cioè, mi dico, sulla correttezza del sentore: la recente nascita di due riviste indipendenti, internazionali, con quell’estetica da magazine indipendente e internazionale e cool, le fotografie giuste, l’impaginazione giusta. Questione di design, come si diceva prima. Una si chiama Wilder Quarterly e ha base a New York, è stata fondata a fine 2011 da Celestine Maddy, un’ex digital strategist; l’altra si chiama The Plant, il primo numero è dell’estate 2011, ha sede a Barcellona ma un ufficio anche a Londra. Come Mario, anche Celestine Maddy ha lasciato un lavoro digitale per dedicarsi alle piante – sotto forma di rivista. «Non riuscivo a trovare una rivista [di piante, nda] che parlasse alle persone della mia età» ha detto a proposito della decisione di fondare Wilder. Cristina Merino, spagnola, è la direttrice di The Plant. Quando le chiedo dell’ascesa del trend delle piante, e lo paragono a quella recente del cibo, mi fa capire che è d’accordo. Spiega: «Il paragone con il food ha molto senso. Le piante e il cibo sono sempre esistite; ora c’è un interesse crescente – specialmente in ambienti urbani – e suppongo abbia a che fare con un forte bisogno di ritorno alla natura. La vita oggi ha ritmi così veloci che prendersi del tempo per andare al mercato e cucinarsi una buona cena, o prendersi cura delle proprie piante e osservarle mentre crescono e sbocciano, è un autentico lusso». Poi dice una frase che mi sembra molto vera e molto importante: «You feel so grateful», che è un sentimento che si prova quando si riceve qualcosa. Quando la tua alocasia “butta” una nuova foglia, ad esempio. Design e funzionalità “viva”, come prima. Appagamento estetico e appagamento sentimentale.

Questo ritorno alla natura in contesti urbani è ravvisabile anche in letteratura: il libro H is for Hawk, un esempio fortunatissimo di nature writing, scritto da Helen McDonald, ha vinto a novembre 2014 il prestigioso Samuel Johnson Prize for Non-Fiction. È la storia autobiografica dell’autrice e del suo avvicinamento alla falconeria. A gennaio 2015 per Adelphi è uscito Diario di Oaxaca di Oliver Sacks, in cui lo scrittore e neurologo inglese racconta il suo viaggio nel Messico meridionale a studiare le felci con l’American Fern Society. E proprio grazie a Sacks si constata, per l’ennesima volta, come i trend siano circolari, fatti di eterni ritorni: durante la metà dell’Ottocento, in un’Inghilterra immersa in un inarrestabile aggiornamento della Rivoluzione Industriale (e nel 1848 sarebbe uscito il Manifesto del Partito Comunista), scoppiò la pteridomania o Fern-Fever, vale a dire la mania delle felci. A suo modo, anche questa una necessità di lentezza nel periodo più fast che la società umana abbia mai vissuto. Niente di nuovo, quindi, nelle mode occidentali. Niente di male, anzi.

Dal numero 22 di Studio

Fotografie di Delfino Sisto Legnani