Attualità

Il cinema italiano come rivista d’arredamento

A Venezia 72 si è rinnovata la mania del cinema italiano per gli interni borghesi. Dalla libreria alla porta-finestra ecco quali sono i suoi topos.

di Clara Miranda Scherffig

Il buco nell’acqua: ecco come viene da ribattezzare il nuovo film di Luca Guadagnino. A Bigger Splash — che vuole citare il titolo del capolavoro di Hockney ma gli restituisce semmai schizzi di altra natura — arriverà nelle sale il 26 novembre. A Venezia 72, con altri due film a fargli da damigelle, L’attesa di Piero Messina e Arianna di Carlo Lavagna, ha rinnovato la mania del cinema italiano per gli interni borghesi. Un’antica passione, vuoi per coloritura folcloristica, mimesi realistica o intenzioni estetizzanti. Dalle terrazze di Ettore Scola al casolare di Speriamo che sia femmina passando per una qualsiasi sala à la Castellitto-Mazzantini fino ai party sorrentiniani, l’interno borghese ha sempre avuto nel cinema italiano un suo posto d’onore.

Prendete anche il salotto morettiano, con le sue Ivar Ikea alte fino al soffitto piene di libri veri, o quel monologo sulla leggerezza del telefono della Sip (disegnato da Giugiaro, “quello dei rigatoni”) che, in Aprile, condensa tutta la consapevolezza del cinema italiano nei confronti di una classe sociale che si rispecchia nei suoi interni. Anzi, quest’interesse per l’arredamento benestante è a volte così spiccato che va oltre i confini della verosimiglianza. Abbiamo allora case di proletari che, se non vivono nello sfarzo, mostrano pochi segni di umiltà domestica. La famiglia di pescatori in crisi di Terraferma (Emanuele Crialese, 2011) vive in un pianterreno spoglio ma signorile, dove la semplicità non si accompagna allo morettilibreriasquallore di beni poveri, ma al minimalismo “delle buone cose”, che però non sono di pessimo gusto. Prima di trasferirsi nel garage per far posto ai turisti, senza neanche consultare l’estetica AirBnB, Donatella Finocchiaro e figlio ristrutturano casa con la classica palette “casa vacanza meridione”: colori forti alle pareti e pochi ma pesanti mobili di mogano scurissimo per non snaturare il setting originale. E se anche il personaggio è un impiegato semplice (Benvenuti al Sud, Luca Miniero, 2010), capita che la sua cucina sia confortevolissima, illuminata in modo caldo, magari con qualche piatto decorativo alle pareti e il pavimento di tutta casa in meravigliose piastrelle di cotto. Insomma, con le molte variazioni del caso — arricchiti, imprenditori, intellettuali ricchi, intellettuali decaduti, studenti — la tavola, la cucina, il salotto, perfino la grana dei tendaggi possono dirci se un film è italiano, al di là della sua discutibile qualità narrativa o cinematografica.

 

La libreria

Alte, piene fino al soffitto, in ordine alfabetico/tematico e dunque alla vista meno decorative di quelle dei profani, che le organizzano in ordine di grandezza o, peggio ancora, di colore… È la libreria il centro della casa, quasi un muro portante, dove un giovane Muccino Jr. si appoggiava sbuffando mentre la madre Anna Galiena gli intimava di lavarsi i pantaloni e il fratello semi paralitico (Enrico Silvestrin) dava consigli d’amore in Come te nessuno mai. La libreria c’è in ogni casa che si vuole rappresentare come “rispettabile” e vissuta — infatti chi se la ricorda nel cinepanettone? — e non a caso Moretti, di nuovo lui, ci ha girato la scena conclusiva di Mia Madre, che è un po’ una dichiarazione ideologica e umana. Ma poi si nota una trasformazione, che più che seguire le mode del design, risponde alle esigenze di un mondo sempre meno analogico e più “digitale”, o forse, semplicemente, meno legato all’idea della cultura come capitale immateriale. E cioè la libreria a colonna, posizionata una tantum come un albero appena piantato, di difficile consultazione perché i libri si impilano a gruppi di 5, 8, e quindi riesce difficile tirarli fuori, leggerli di nuovo, con quelli in fondo che si impolverano. Mi piace immaginare che siano stati Aldo Giovanni e Giacomo a lanciare la moda, ma forse mi sbaglio, e senz’altro è un Ozpetek dei primi Duemila quello che ha proposto il sistema ed è un Salvatores recente (Happy Family, 2010) che l’ha collaudato, nel loft di Fabio de Luigi.

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La porta-finestra

Sempre in Happy Family si nota un cambio quando il salotto diventa loft e la cucina open space: forse oggi alle produzioni costa troppo affittare meravigliosi appartamenti tutti stucchi e rifiniture, dentro la cerchia dei Bastioni o appena fuori via dei Serpenti? È vero però che il salotto non è mai stato un luogo “concluso”, come la camera da letto e la cucina. Il salotto è separato dalle altre stanze, ma non del tutto. Ci sono spesso le porte-finestre: non vere porte, ma porte con vetro smerigliato che fanno un gran chiasso quando le chiudi perché il vetro è originale (e ci puoi sbirciare attraverso). Tutti i Muccino abbondano di porte-finestre, appena socchiuse o con le chiavi ancora abbandonate nelle toppe (spiragli che lasciano uscire i segreti, crepacci del nucleo famigliare).

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Il divano

Dopo una furiosa litigata coniugale, meglio lasciarsi andare su divani morbidi, bianchi, capienti. Ecco come sono i divani delle case di medici e imprenditori. Diversi quelli di professori, studenti e attori, tendenzialmente più scuri, di lanina, vagamente vintage. Quasi scandinavo era lo spazio di La bestia nel cuore (Cristina Comencini, 2005), abat-jour retrò e grandissime vetrate fredde, con al centro un divano di gran classe ma tetro, poco accogliente. La via di mezzo, del buon gusto che incontra la cultura, la troviamo nei salotti dei professionisti della parola civile, giudici e giornalisti: divani morbidi ma non troppo, dalle tonalità panna, grigio chiaro o beige-carne, come quelli del Portaborse (1991) di Daniele Lucchetti, sempre attuali. Un altro classico è il divano del luogo di villeggiatura: di cui non si va molto orgogliosi e dunque si ricopre con stoffe africane o indiane, coloratissime, e al posto delle stuoie da giardino altri teli con fantasie minuziose, tessute a mano da indigeni del Machu Picchu. Anche l’amaca è una grande variante del divano da vacanza, come spiccava sulla veranda di Ferie d’Agosto (1996).

 

Il tavolo

Il film di Virzì è un buon esempio per introdurre un topos carissimo al cinema italiano, soprattutto per la struttura narrativa ma non meno per la scenografia: la cena a tavola. Se pensiamo proprio a Ferie d’agosto, ecco le tavolate in legno per la famiglia di sinistra di Silvio Orlando e il tavolone di plastica dei coatti di Ennio Fantastichini. Se da una parte abbiamo le ciotoline in terracotta fatte a mano, magari pure comprate sull’isola di Ventotene per supportare l’artigianato locale, l’altra tavolata manca poco che abbia le posate usa e getta. I primi mangiano a lume di candela o al massimo di zampirone; i secondi, chiaramente, alla luce della televisione. La cena è un momento importantissimo e viene consumata su tavolate chilometriche, come quella della famiglia Cantone in Mine Vaganti (2010). La tragicommedia di Ferzan Ozpetek è praticamente più un film sulla borghesia leccese che sull’omosessualità: e se i cristalli abbondano a cena, ci sono pure a colazione e a pranzo; due pasti più informali che vengono consumati su tavoloni rotondi e sempre in terrazzo.ferie-d-agosto-rich-visore.9488_big

 

Terrazzo, androne, scale

Quando si parla di terrazzo, oltre al già citato Scola, non si può far a meno di pensare alle Fate ignoranti, dove lo spiazzo all’aperto con vista sul quartiere Ostiense diventa prolungamento di una cucina agevolissima, con un gran tavolaccio al centro, simbolo di una vita privata che progressivamente esce allo scoperto. Altro spazio simbolico dove si può misurare la propria libertà — economica o emotiva — è quello dell’androne e delle scale del palazzo signorile. La sconosciuta (Tornatore, 2006) in questo caso è quasi da manuale. L’ucraina ex-36356_pplschiava Kseniya Rappoport inizia la sua “scalata sociale” e narrativa in un palazzone della Trieste bene. Vive nei sottoscala ma aspira ad arrivare ai piani alti della famiglia Adacher. A separarli è questa scalinata di marmo scuro, pesante e sempre lucidato come gli ottoni dei pomelli e dei citofoni degli inquilini, tutti rispettabili cittadini con servitù “di fiducia”. Fidata deve essere soprattutto la governante: Piera degli Esposti ne da un’interpretazione sopraffina. Curiosità sul tema: a Venezia 72 c’è stata una gradevole sorpresa alla Settimana della Critica, con l’unico italiano che vi partecipava. Adriano Valerio ha esordito con un lungo — Banat, il viaggio — ambientato metà a Bari e metà in Romania. Nella capitale pugliese l’abitazione sfoggia anche lì parquet molto borghesi, ma è vuota o in via di svuotamento. Forse finalmente si è capito che l’interno borghese si può anche disabitare. Valerio lo fa in nome della precarietà professionale e sentimentale dei due bravi protagonisti (Edoardo Gabriellini e Elena Radonicich). A sorreggere il tutto è la padrona del condominio dove si incontrano i due, una signorotta che vive di arti marziali in mezzo a drappeggi quasi aristocratici: di nuovo la nostra Piera degli Esposti, al massimo della sua forma sbrigativa e nordica. Inoltre, dopo l’androne e la scalinata, non si può dimenticare gli ascensori nelle trombe delle scale, con panchetta di pelle per riposare i glutei durante la salita — ricorrenti nella Commencini — o con la chiusura a fisarmonica tipo grata — nella variante televisiva della commedia sentimentale borghese, Tutti pazzi per amore (1, 2, 3). Ma alla fine, l’ascensore e le scale sono quasi accessori da poveri, se si ha la villa con giardino, non importa se in Brianza a macinare soldi, o tra le colline del Chianti, a intagliare sculture antropomorfe. Due esemplari su tutti: Il capitale umano (Virzì 2013) e Io ballo da sola (Bertolucci, 1996), a distanza di anni e orientamenti politici, due modelli nella rappresentazione della casa fuori città.

La casa di villeggiatura

Se si torna a Venezia 72, sembra però che siano state aperte le porte a un cinema che espone l’arredo come se stesse vendendo dei prodotti, o meglio, l’idea legata a quei prodotti. Per cominciare, Guadagnino ha presentato una commedia thriller con protagonista Tilda Swinton. Ad affiancarla c’erano il bravo Matthias Schoenaerts e una non male Dakota Johnson e due ruoli minori che incuriosivano, quelli della storica Aurore Clément e di un fiacco Corrado Guzzanti. Ma al di là delle performance, A Bigger Splash si presenta come un remake de La Piscina, un successone del 1969 di Deray. Rimaneggiando un po’ i ruoli che furono di Alain Delon e Romy Schneider, vediamo una celebre cantante accompagnata dall’amato fidanzato trascorrere le vacanze a Pantelleria. È senza voce, ha prescrizione medica di tacere per due settimane; il compagno parla poco e dunque viene dato libero sfogo a un amico storico di lei, Ralph Fiennes, piombato sull’isola con la figlia adolescente. Ovviamente vai di ambiguità e seduzioni varie, in un susseguirsi di aperitivi in piscina, cene e incursioni gastronomiche fuori pasto. Tutto, chiaramente, nella “suggestiva cornice” della villa dove i quattro più domestica — tipo semianalfabeta di nome Clara — alloggiano. Neanche una villa, è un dammuso ristrutturato. Gli interni però — poltroncine di vimini, tappetini intrecciati, maioliche coloratissime — richiamano più un’Ibiza figlia dei fiori ma già impasticcata piuttosto che le consistenze monocromatiche dell’isoletta mediterranea. Ma qui non c’era esigenza di ricostruire lo spazio secondo verità. Forse secondo “evocazioni” scenografiche? Chi lo sa.

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A ricordare più un servizio di Abitare che un luogo propriamente vissuto sono anche gli interni di un altro film in concorso, L’Attesa. Dispiace doverlo bistrattare perché si tratta di un’opera prima. L’autore è Piero Messina, che se prima ringraziava di portarsi addosso l’etichetta di “aiuto regia di Sorrentino”, ora senz’altro maledice l’appellativo. Il dramma trova inspiegabile collocazione in una maestosa magione ai piedi dell’Etna: Juliette Binoche ha appena perso il figlio e la fidanzata di lui Lou De Laâge, del tutto ignara, parte da Parigi per trascorrere insieme le vacanze di Pasqua. Anche qui, tra cose non dette, recupero memoriale e menzogne varie, ci troviamo in interni borghesissimi, a loro volta incastrati in un idilliaco scenario siciliano. Come Tilda Swinton si infiltra nella sagra di San Gaetano, così la Binoche deambula per la processione pasquale di Caltagirone. Donne straniere dalla pelle candida però perfettamente a loro agio nel contesto esotico, dove sono un po’ padrone, un po’ turiste. Anche qui la borghesia spinta non trova ragioni, se non il desiderio di situare vicenda e personaggi in lutto in uno spazio gradevole allo sguardo. La sequenza d’apertura ci presenta la facciata di un villone con una grande scalinata: mura scrostate e ciuffi di vegetazione che cresce tra le intercapedini delle tegole (perché non si vuole snaturare il materiale originale con ammodernamenti, il moderno è volgare). Un materassino gonfiabile rosa — sorrentinata senza cognizione di causa — vola, solo in questa infinità di borghesia. Sebbene Binoche ci viva, nell’attesa davvero la casa si trasforma nella casa delle vacanze, quella dove ritorni dopo una giornata al lago, a lavare via l’odore di natura e prepararti la famosa bella cena di pesce. C’è anche questo, nell’Attesa come in A Bigger Splash, ma entrambi mostrano sbavature culinarie che non ci fanno venire l’acquolina, solo gran risate. E non unicamente per Fiennes che porta la Tilda a vedere “come si fa la ricotta” a casa di una vecchina locale che lo chiama per nome, ma soprattutto quando ci si mette a grattugiare il parmigiano con tutta la forma, cioè tipo un chilo e mezzo di parmigiano che a tirarlo su si fa una fatica infinita, figurarsi grattugiarlo per bene.

Questa fissazione per la casa di villeggiatura che trasuda segreti e misteri ce l’ha anche Arianna, altra opera prima, anche se l’autore (Carlo Lavagna) è filmmaker piuttosto navigato. Con Arianna viene voglia di essere più clementi, innanzitutto perché presentato alle Giornate degli Autori e poi perché beneficia di una sceneggiatura che ha un senso, non ambiziosissima e a suo modo legittima. Soprattutto vanta un cast che funziona e anzi, presenta al mondo due interpreti — Ondina Quadri e Corrado Sassi — parecchio interessanti. Eppure il film a tratti ricorda una puntata di Tatort — storico serial poliziesco tedesco — girata come uno spot di Miu Miu. Quest’ansia di rimarcare il milieu sociale si estende fino alle location della campagna laziale, che invece di dare respiro alla vicenda (già di per sé piuttosto claustrofobica: il coming of age di una ragazza ermafrodita) la rinchiudono in prati e verandine che si vogliono ariosi e invece fanno spesso piccolo budget. Gli spazi abitativi perdono vitalità: dalle classiche lenzuola apposte sui mobili durante l’assenza degli inquilini per proteggerli dalla polvere, al tavolo in cucina pieno di taglieri e briciole, fino alla famigerata libreria. Qui non abbiamo la libreria a colonna ma si fa un errore di realismo. Nelle case di villeggiature vengono di solito sfoggiate librerie di scarti, la collezione di gialli Mondadori, quattro edizioni identiche de Il vecchio e il mare e una guida datata del Touring. Da Arianna mancavano poco Adelphi di pubblicazione recentissima.

Stasera-in-tv-La-grande-bellezza-su-Canale-5-4A nominare gli Adelphi non si può fare a meno che riportare i volumi impilati alle spalle di Jep Gambradella con la Ferilli a letto serminuda. Il problema non è la politica dello spazio borghese, quanto il semplice senso dell’interno della borghesia. La scenografia è un accessorio indispensabile per inquadrare un discorso cinematografico: non importa se questo è giocato sul piano della verosimiglianza, della parodia o della pura esperienza visiva. Spesso trascende la qualità di un’opera, ma dev’essere in conversazione coerente con il film. Questi, invece, sono tre film che in misura maggiore o minore funzionano come la pubblicità: esibiscono beni da desiderare. I loro arredi sono svuotati da significati narrativi o estetici e acquistano il valore di status symbol. Ma anche trattasi di product placement particolarmente creativo, si sbaglia. Innanzitutto perché, se vogliamo convincere lo spettatore sul piano diegetico, dobbiamo anche giocare sull’identificazione: e quella funziona tramite l’empatia, non attraverso l’esposizione. Laddove invece la scenografia viene costruita con intenti realistici, non c’è nessun realismo in questi interni puliti, specchianti, disabitati come una hall d’albergo. Non ci sono marmellatine ai fichi che tengano per dare un’anima a questi spazi.