Attualità

Democrazia d’Egitto

Morsi è un nuovo Mubarak con la barba? Un despota in versione light, che mantiene il potere anche grazie al sostegno dell'Occidente?

di Anna Momigliano

Due giorni fa, in piazza Tahrir, un ragazzo sulla trentina teneva un cartello in inglese, evidentemente rivolto al presidente americano: “Obama, your bitch is our dictator”. Amar Sediki (a proposito, potete seguirlo @MrSedky) era sceso nelle piazze del Cairo insieme ad altre decine di migliaia di persone per protestare contro il presidente che lo scorso 22 novembre ha varato una serie di decreti che, in sostanza, gli attribuiscono una autorità quasi assoluta.

Ironia della sorte — o, meglio, ironia senza dubbio intenzionale — quel cartello poteva essere interpretato come riferito all’attuale presidente, Mohammed Morsi, tanto quanto a quello precedente, Hosni Mubarak.

Lo scorso inverno, gli egiziani hanno rovesciato il governo di Mubarak, che era al potere dal 1981 e sostenuto da un apparato militare che era di fatto al potere da più di mezzo secolo. Mubarak — considerato da alcuni un “tiranno light“, per il valore che un’espressione del genere può avere — piaceva non poco in Occidente, in parte perché il suo autoritarismo laico era considerato un argine all’islam radicale dei Fratelli Musulmani e dei gruppi salafiti, in parte perché era un garante del trattato di pace con Israele, il solo fra una nazione araba e lo Stato ebraico, firmato dal suo predecessore Anwar el-Sadat alla fine degli anni Settanta. In particolare, Mubarak vantava un buon rapporto con gli Stati Uniti, che non poco l’hanno sostenuto economicamente: l’Egitto è, dal 1979, il secondo beneficiario di aiuti americani, dopo Israele.

In un primissimo momento, quando la protesta era esplosa in piazza Tahrir all’inizio del 2011, Washington ha esitato prima di schierarsi dalla parte dei manifestanti: certo, quelli chiedevano democrazia, che è il più americano dei valori, ma gli Usa non potevano scaricare di punto in bianco e bollare come tiranno l’uomo che avevano sostenuto fino al minuto prima, senza perderci un po’ di credibilità (precisazione: lo stesso discorso varrebbe per l’Europa, solo che di quello che pensano e fanno i leader europei interessa molto meno agli egiziani).

Di quei giorni ricordo le parole, sempre rivolte ad Obama, di un altro attivista egiziano, Mahmoud Salem (blogger della prim’ora e probabilmente una delle tweet-star della rivoluzione egiziana): “Carissima America, metti i tuoi ideali davanti ai tuoi interessi.

Sempre in quei giorni, agli scettici delle Primavere Arabe che avvertivano “hey, se cade Mubarak poi arrivano i Fratelli Musulmani,” i rivoluzionari di piazza Tahrir ribattevano: “Un dittatore laico non è migliore di una dittatura islamica.” Adesso, a distanza di quasi due anni, l’Egitto si ritrova senza laicità e senza democrazia.

In un primo momento, dopo la caduta di Mubarak, il potere era passato temporaneamente sotto il potere dello Scaf, il Consiglio Supremo delle Forze Armate — una situazione sotto alcuni aspetti paradossale, dal momento che l’esercito aveva non solo sostenuto per anni Mubarak, ma era in origine la fonte del suo potere (come quello di Nasser e Sadat prima di lui), anche se ne gli ultimi anni il rapporto tra il presidente e i suoi generali si era incrinato. In molti temevano, e a ragione, che l’esercito avrebbe fatto di tutto per tenere il potere nelle proprie mani. Poi elezioni libere ci sono state, stravinte dai Fratelli Musulmani, seguiti a ruota da un’altra forza islamista, il partito salafita Nur. Morsi, il candidato dei Fratelli Musulmani, è stato eletto presidente: un risultato che può non piacere, specie a chi si preoccupa delle minoranze religiose in Egitto e della stabilità del trattato di pace con Israele, ma legittimato dal voto popolare: la democrazia, si è detto, non può essere democrazia solo quando vince chi piace agli occidentali. Infine, la trasformazione di Morsi, da presidente eletto dal popolo a leader con poteri di stampo para-autoritario.

Nel contempo, i Fratelli Musulmani hanno coltivato i loro rapporti con l’Occidente, hanno convinto gli americani, con tutte le cautele,  le resistenze e le limitazioni del caso, a proseguire il sostegno dell’era Mubarak. Nel frattempo Morsi, complice la situazione precipitata a Gaza, si è accreditato come un interlocutore credibile, un mediatore essenziale sul campo internazionale — qualcuno ha notato che i decreti in cui si attribuiva poteri speciali sono arrivati a poche ore dalla tregua tra Israele e Hamas, ottenuta proprio grazie alla mediazione egiziana. Dal canto loro, europei ed americani si sono fatti due conti in tasca: Morsi ci serve, i Fratelli Musulmani sono al potere in molti paesi mediorientali, dobbiamo farceli amici che ci piaccia o no…

Agli occhi di alcuni, Morsi è un nuovo Mubarak con la barba — un despota in versione light, che mantiene il potere anche grazie al sostegno degli Stati Uniti.

Qualche giorno fa Foreign Policy ha pubblicato un articolo in cui Michael Wahid Hanna rimproverava all’America l’acquiescenza davanti alla deriva autoritaria del presidente egiziano. Vale la pena di leggerlo. Questa, riassumendo, la tesi di Hanna: Washington non vuole una nuova rivoluzione, teme il caos, non può permettersi una regione ancora più destabilizzata di quanto già non lo sia, ma sostenendo Morsi (per quanto controvoglia) si sta alienando le simpatie del pubblico egiziano. Il problema di questa tesi, tuttavia, è che ad oggi è assai difficile interpretare i sentori del pubblico egiziano. Che Morsi sia stato eletto dal popolo è fuor di dubbio. Hanna, come molti altri del resto, sostiene che anche tra coloro che hanno votato Morsi è diffuso un risentimento nei confronti della sua deriva. Probabile. Ma se c’è una cosa che gli egiziani hanno dimostrato, con la rivoluzione di piazza Tahrir, è proprio di essere in grado di tenere il loro destino nelle proprie mani. La politica di Washington si può criticare, certo, ma tenendo sempre ben presente che il destino dell’Egitto non si fa a Washington.

 

(Photo by Daniel Berehulak/Getty Images)