Attualità

Cosa rimane del D-Day

Quattro diversi e originali modi di raccontare e ricordare lo sbarco in Normandia di 70 anni fa. Una nuova rubrica per affrontare i grandi temi dell'attualità e offrire nuovi spunti, e nuove domande.

di Aa.Vv.

“Tema caldo” è una nuova rubrica che, con cadenza più o meno quindicinale, si propone di affrontare grandi argomenti di attualità con un taglio originale. Un taglio possibile grazie alla pluralità di voci, che saranno sempre, in “Tema Caldo”, più di due, forse più di tre, speriamo più di quattro. Il nome è ironico e autoironico: i temi trattati spesso sono i grandi temi di cui ci si trova, periodicamente, a discutere tra amici, tra colleghi, al bar di sera davanti a una birra. Non saranno però del tutto “freddi”: “Tema caldo” cercherà di pescare dall’agenda politica, culturale, sportiva, internazionale del momento. Si inizia con il D-Day, a pochi giorni dal 70° anniversario dello sbarco. “Tema caldo” vuole darvi nuove domande a cui cercare nuove risposte, nuovi lati su cui leggere la realtà. Buona lettura.

Cesare Alemanni – La vista dalla parte sbagliata della Manica

Il 6 giugno 1944, Franz Gockel, Helmut Liebeskind, Helmut Roemer e migliaia di altri giovani tedeschi con loro, erano dalla parte sbagliata della Manica, dalla parte sbagliata della Storia. Non erano gli eroi saliti a bordo di aerei e navi con la missione di liberare un intero continente, erano i soldati semplici, di leva, che passavano le giornate rintanati dentro bunker di granito, enormi, freddi, scarni, accudivano mitragliatrici e cannoni, abitavano stanze riempite di attese e paure, perlustravano il cielo e il mare aguzzando vista e udito per sondarne i segnali.

«Nessuno – ricorda uno di loro – si aspettava un’invasione quella notte. C’era vento forte e nuvoloni. L’aviazione nemica non ci aveva disturbato più di tanto durante il giorno. Ma poi, improvvisamente, l’aria si è riempita di innumerevoli aerei, al che abbiamo pensato: “Quale città andranno a demolire oggi?”. Ed è allora che è iniziata. Ero addetto alle comunicazioni quando ha cominciato ad arrivare una pioggia di messaggi: “Paracadutisti atterrati qui, paracadutisti atterrati là” e poi, infine, “mezzi da sbarco in avvicinamento”».

E si può solo immaginare cosa sia stata la vista dalle spiagge della Normandia quella mattina di settanta anni fa. Cosa abbia significato osservare quella marea di acciaio e uomini avvicinarsi, e con lei la prima consapevolezza di essere un esercito, un mondo intero vicino alla frattura: i primi barlumi di una coscienza individuale e non più collettiva dell’errore, del disastro, dell’inganno.

Helmut Roemer non era in prima linea quel giorno. Aveva diciotto anni ed era di stanza nell’entroterra. È stato uno dei primi a essere fatto prigioniero dai paracadutisti alleati, nel suo caso inglesi. È ancora vivo e di recente ha raccontatoalla Bbc come ha vissuto quella notte. Di come abbia abbandonato la sua postazione appena dopo i primi lanci per consegnarsi al nemico e di come, in seguito, abbia passato due anni come prigioniero di guerra degli inglesi, venendo trattato in modo ineccepibile.

E la resa pressoché immediata ha risparmiato la vita a tutti quei soldati tedeschi che, più realisticamente dei loro generali, hanno immediatamente compreso la portata storica e militare dello sbarco, avvenuto a poche centinaia di chilometri proprio da quella Dunkerque da cui, quattro anni prima, gli inglesi erano fuggiti in una delle più colossali ritirate della storia. Soldati tedeschi come quello che nei suoi diari ha annotato: «Appena mi hanno fatto prigioniero ero piuttosto depresso. Mi sentivo un vecchio soldato inutile, arresosi poche ore dopo l’inizio dell’invasione ma non appena, a mattino inoltrato, ho iniziato a vedere la quantità di materiale umano e meccanico che stava sbarcando il nemico – nave dopo nave, reggimento dopo reggimento, carrarmato dopo carrarmato – ho pensato “Vecchio mio quanto sei stato fortunato”».

Non tutti però sono stati così fortunati o saggi e l’avanzata alleata ha dovuto farsi strada per mesi e sopravvivere a giornate meno celebrate del D-Day ma ugualmente decisive, come quelle trascorse nelle Ardenne quando, tra il dicembre ’44 e il gennaio ’45, i tedeschi lanciarono un’imponente controffensiva invernale e solo la strenua tenuta della fanteria americana evitò agli alleati enormi perdite di terreno.

Le ragioni per cui la Wehrmacht e la Germania intera si sono consegnate all’annientamento su due fronti piuttosto che a una resa sono ovviamente troppo complesse per accennarle qui. Se siete interessati vi rimando alla lettura di The Enddi Ian Kershaw e di Berlino: La Caduta di Anthony Beevor. Il resto, riguardo al D-Day vissuto dalla parte sbagliata di un tratto di mare, è tutto in una dichiarazione rilasciata dieci anni fa all’Independent da Franz Gockel – all’epoca un diciottenne fante tedesco – mentre si trovava in visita al cimitero militare di Omaha Beach per il sessantesimo anniversario dello sbarco: «Ogni volta che torno qui sono soverchiato dalle emozioni. So bene che i tedeschi erano dalla parte sbagliata ma ugualmente sento che venire qui è qualcosa che devo ai miei compagni caduti, per ricordare che anche noi abbiamo sofferto terribilmente quel giorno». E a chi si domanda che senso abbia commemorare il 6 giugno 1944 ancora oggi, vorrei dedicare una frase dell’ex-ufficiale Helmut Liebeskind: «I governanti di tutto il mondo dovrebbero visitare questi cimiteri (quelli in Normandia, ndr) ogni anno per constatare quali responsabilità abbiano, e riflettere su dove possono portare le loro scelte».

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Ivan Carozzi – Il suono di Omaha Beach

Nel noir, nel western, nel film di guerra, nel cinema in generale, si ricorreva, spesso, a un numero molto limitato di sound effects per riprodurre il boato di un colpo d’arma da fuoco. A volte era sempre lo stesso. Come accade qui nel caso dell’urlo detto Wilhelm scream:

Poi sarà successo qualcosa nel mezzo, immagino: perfezionamenti nel processo di cattura del suono e library sempre più specializzate. Non sono né un esperto né uno storico del sound design, del resto. Però so che una notte del 1998, insieme alle persone che mi sedevano accanto, partecipai a un’esperienza particolare. L’impressione fu quella di ritrovarsi sulla spiaggia ribattezzata in codice Omaha Beach: iper-realmente in mezzo al fischio dei proiettili; alle onde rotte dagli scafi; alle grida dei feriti con un buco in pancia; ai mucchi di sabbia spazzati in aria dalle granate.

Gary Ryndstrom, il sound supervisor di Salvate il soldato Ryan, scelse di rinunciare a trucchi e cliché. Di non servirsi di un solo effetto proveniente da una library. Tantomeno di un commento musicale. Si documentò sulle armi utilizzate durante lo sbarco e intervistò alcuni superstiti. I tedeschi, per esempio, ricordavano una specie di “ping” metallico prodotto dai fucili in dotazione ai nemici. Per impastare il rumore di un proiettile che colpisce un corpo, invece, Ryndstrom ha immerso nel premix il suono ottenuto da un bastone che colpisce con violenza uno strato di lenzuola piegate. Lo strato doveva essere alto come un elenco telefonico. C’era una scena che mi aveva colpito, all’epoca. Quella in cui la cinepresa scende sott’acqua. All’improvviso i soldati sembrano scampare al «caos e alla cacofonia». Parole di Ryndstrom. Quindi affondano in una specie di «bambagia». Ancora parole di Ryndstrom. A quel punto la battaglia, e il suono della battaglia, sono quasi scomparsi. Mentre cercano di liberarsi del peso di uno zaino, i soldati sembrano cullati dai flutti sottomarini. Come Jean ne L’Atalante di Vigo, mentre rivede l’amante nel fiume. Poi, all’improvviso, ascoltiamo il sibilo di due proiettili bucare il pelo dell’acqua. Che si tinge di rosso. La metafora del liquido amniotico è troppo facile, ma calzante. Più avanti, in spiaggia, un giovane soldato grida «Mama!», due volte, mentre con una mano raccoglie le budella che gli escono dallo stomaco.

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Fabio Severo – Le fotografie sopravvissute

Lo scorso maggio il Financial Times ha pubblicato un’intervista a John Morris, picture editor di Life all’epoca dello sbarco in Normandia, colui che pubblicò le fotografie di Robert Capa durante il D-Day. L’intervista è l’ennesima occasione per celebrare i Magnifici Undici, i soli fotogrammi sopravvissuti tra i quattro rullini fatti arrivare da Capa in redazione, per un totale di 106 scatti. Successe che nella fretta di stampare i negativi l’assistente di laboratorio quindicenne Dennis Banks alzò troppo la temperatura dell’armadietto asciugatore, facendo sciogliere l’emulsione di quasi tutte le fotografie. Soltanto undici su un singolo rullino rimasero visibili, e dieci furono pubblicate. Lo slittamento dell’emulsione sul supporto gelatinoso e il tremore delle mani di Capa in mezzo ai soldati americani produssero le più celebri fotografie di guerra di tutti i tempi: l’urgenza trasmessa da quelle foto, ridotte alle informazioni minime dal danneggiamento e dalle condizioni di scatto, permettono un’immedesimazione che è tuttora la massima espressione dell’eroe fotografo.

Nell’articolo del Financial Times c’è una foto che ritrae Capa subito prima dello sbarco, sorride con gli occhi socchiusi, indossa un giubbotto di salvataggio sopra un completo di tweed con camicia bianca e l’orologio al polso, in testa un elmetto di traverso, in mano un binocolo. Va alla guerra come un Charlie Chaplin, con il coraggio dell’incoscienza. Il suo modo di essere fotografo e le pochissime foto sopravvissute hanno fatto sì che qualsiasi storia sul D-Day, qualsiasi contingente militare che vi abbia partecipato venga ricordato con le sue immagini di Omaha Beach.

Tutto quello che non si vede nei suoi scatti sporchi di grana e di scie mosse può essere osservato nelle fotografie fatte dai vari cameramen militari che accompagnarono lo sbarco, come l’americano Robert F. Sargent, autore dell’immagine chiamata Into the Jaws of Death, dove vediamo l’inizio dello sbarco dalla rampa abbassata di una nave, oppure Jim Mapham, uno dei sette fotografi della Army Film & Photographic Unit dell’esercito britannico che parteciparono allo sbarco, famoso soprattutto per un’immagine che mostra un gruppo di soldati esausti appena sbarcati a Queen Red Beach. In basso a sinistra si vede il volto di un soldato che guarda in macchina con il capo chino, ricorda quello di Capa che si fa largo nell’acqua con il fucile in mano. Ma il soldato di Mapham ha un nome, Jimmy Leask, e sappiamo che è sopravvissuto, mentre il volto del militare di Capa è irriconoscibile nel bianco e nero logorato dei suoi scatti. Mapham non mandò indietro i suoi rullini appena sbarcato, proseguì la marcia insieme alle truppe, entrando a Parigi, fotografando la Resistenza, viaggiando sul vagone di treno che fino a poco prima apparteneva a Göring. Oggi tutta la sua documentazione del D-Day è consultabile recandosi all’Imperial War Musem; Mapham è morto nel 1968 a 59 anni, dopo essere tornato in patria a lavorare per il quotidiano Leicester Mercury; Capa invece è morto nel 1954 a quarantuno anni in Vietnam, per aver posato il piede su una mina durante un escursione, mentre era al seguito dell’esercito francese.

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Captain Alastair Batterman – If I don’t come home

Dal diario di un Capitano all’epoca trentenne alla moglie. Batterman sopravviverà allo sbarco. (via)

6th June. D-Day
It is now 03.00 hours in the morning and I have just been up to the bridge. It is rather light because the moon is shining, though heavy clouds cover her. One can see the row of small ships and of darker balloons silhouetted in front and behind us against the grey sea. We are still rolling a little but the wind has subsided somewhat, thank Heaven. The captain and his first officer are on the bridge. They make sure where we are and look for the coloured lights which should guide us through one of our own minefields.

You, my angel, sleep gently in the nursery, I hope. Your thoughts have helped me so much. They have given me real strength. I can imagine how you listen to the news at 9 o’clock and think of me with love. I hope that Andrew’s golden head rests gently and quietly upon his small pillow and that Richard is nice and comfortable lying in his narrow little carry-cot… With me sleep three officers: James, Raf and a special navy officer who is really only a travelling observer. How childlike and natural we all look when we are asleep. I slept almost from 10–2 o’clock and must now go back to the bridge if I am not going to fall asleep again in this stifling and sticky atmosphere… James relieves me at 4 o’clock and then I have a few hours to myself before dawn breaks. I have wakened James.

A long line of flares hangs over Cherbourg, or I suppose it is Cherbourg, and a few anti-aircraft tracer shots go up in the air above the immediate front line. Funny to imagine that there Germans run around their guns. I would like to know what they are thinking. The whole Channel between us and Cherbourg is filled with little ships which all quietly and efficiently sail towards France. The British, Canadian and American fighting forces on the war-path...

I heard that our C.O. has also landed, therefore our infantry must be there by now. God bless them and good luck to them. I do not believe that I can now write for very long. We can now see the French coast and very soon we will have to play our part. I must go now and look for the landing markings with my binoculars to ascertain our landing points. So, my darling, on we go! I know that you are with me. Come on the Bannermans! Let us be gay. Au revoir, God bless, I love you!


Immagini: sovrapposizioni tra vecchie foto del D-Day e l’attuale paesaggio della Normandia, di Peter Macdiarmid, Getty Images