Attualità

La battaglia sui simboli del fascismo

Perché la polemica innescata dall'articolo del New Yorker, di cui molti hanno letto soltanto il titolo, si basa su un equivoco.

di Manuel Orazi

Su tutti i principali quotidiani e in molte riviste online da una settimana tiene banco una polemica arcitaliana, quella innescata dalla professoressa Ruth Ben-Ghiat e dal suo articolo sul New Yorker, “Perché sono ancora in piedi così tanti monumenti fascisti in Italia?”. La reazione è stata squisitamente ideologica: levata di scudi sui giornali, con accenti diversi, poche ma convinte adesioni su alcuni siti. In molti non hanno nemmeno letto il suo articolo, equivocandolo come fosse una proposta di demolizione massiva non solo di monumenti, ma anche di edifici del ventennio o addirittura di interi quartieri come l’Eur. In realtà la sua preoccupazione era rivolta più alle scritte e ai simboli espliciti ancora visibili in alcuni spazi pubblici della capitale, essenzialmente sul colosseo quadrato dell’Eur e al Foro italico. La signora Ben-Ghiat si è dunque lamentata in un’intervista con Paolo Mastrolilli sulla Stampa di essere stata travisata e di aver ricevuto accuse nazionaliste, misogine e persino antisemite. Tutto questo si somma al recente clamore dovuto alla presentazione del ddl Fiano contro la propaganda fascista.

Anzitutto va’ precisato che la signora è docente di Italian Studies alla New York University e anzi ha all’attivo un dottorato su Giuseppe Terragni e diversi libri sulla cultura italiani durante in fascismo e sul colonialismo, tradotti anche da noi, quindi di tutto si può accusarla tranne di essere una persona maldisposta verso il Belpaese e tantomeno di incompetenza, come qualche studioso nostrano si è azzardato a insinuare sui social. Al di là della signora Ben-Ghiat, a noi interessa sottolineare la consueta, estenuante, interminabile battaglia sui simboli che ogni volta si scatena in Italia. Siccome la battaglia sulla sostanza è sempre persa, ci si accapiglia sui simboli, e solo su quelli. La parità dei diritti sul lavoro delle donne è di là da venire, ergo giù botte da orbi infilandosi in una disputa lessicale fra chi sostiene la parola “sindaco” contro quelli che invece si battono per “sindaca”, “ministro” o “ministra”, (non  “segretaria” però che è ancillare). Analogamente la battaglia sui simboli del fascismo appassiona tutti: nostalgici, antifascisti, fasciocomunisti, tutti peraltro storici dell’architettura e dell’arte improvvisati così come tutti discettavano di 1714 o costituzione spagnola per i fatti di Catalogna.

Faceva già impressione sentire persone al bar disquisire, dopo ogni attentato terroristico, sulle differenze fra sciiti e sunniti, magari schierandosi per l’uno o per l’altro. Allo stesso modo oggi fa impressione a chi ne abbia una minima conoscenza la confusione sull’architettura italiana fra le due guerre, tutta al contempo razionalista, modernista, fascista. È evidente che il fascismo in Italia non è mai stato estirpato, con buona pace di Benedetto Croce che da illustre antifascista riteneva che il regime fosse stato un bubbone nella storia d’Italia divelto nel 1945. Il fascismo resta, ad esempio, nell’idea corporativa diffusa tra le professioni (sotto il fascismo anche i fotografi erano iscritti a un albo). Forza Nuova, Casa Pound, Fiamma Tricolore e altre sigle minori sono solo le ultime di una lunga serie di compagini folcloristiche e residuali che, odiandosi fra loro, al fascismo e ai suoi monumenti si richiamano, talvolta infiltrandosi in altri movimenti con fare trotzkista.

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Si sa ad esempio che lo scorso anno l’onorevole Buonanno, leghista noto per le sue intemperanze xenofobe e omofobe, prima di morire in un incidente stradale si era recato a rendere omaggio alla lapide dedicata al duce a Giulino di Mezzegra, dove era in vacanza. D’altro canto fior fiori di storici di sinistra, a partire da Renzo De Felice e fino a Vittorio Vidotto e a molti altri, ci hanno insegnato a distinguere il miglio dal grano, a notare il consenso che il regime si guadagnò in alcune fasi e anche ad ammettere che alcune opere e infrastrutture avevano e hanno una loro importanza funzionale e persino estetica. Fra gli architetti e gli storici possiamo ricordare Vittorio Gregotti che già alla fine degli anni ’60 rivalutò alcune opere, fino agli studi più organici e maturi di Cesare De Seta, Giorgio Ciucci o Carlo Melograni. Nessuno di loro può essere accusato di essere nostalgico. I loro studi ci hanno al contrario aiutato a capire come il fascismo non abbia mai scelto uno stile ufficiale né in arte né in architettura e furbescamente. Dava modo di esprimersi a tutte le correnti, dai conservatori cari a Ugo Ojetti, agli strapaesani sboccati alla Mino Maccari, ai raffinati figurativi del gruppo Novecento guidato da Margherita Sarfatti fino agli astrattisti di Carlo Belli o agli eruditi di gusto europeo alla Massimo Bontempelli per arruolare chiunque alla causa.

Palmiro Togliatti in un celebre scritto sul fascismo vergato mentre era esule a Mosca notava in presa diretta come quella mussoliniana fosse un’ideologia eclettica, perciò in grado di adattarsi a ogni evenienza. Dapprima anticlericale e anti-germanica, poi firmatario dei patti lateranensi e alleato con la Germania hitleriana; ex socialista divenuto ferocemente anticomunista, il fascismo è il primo stato al mondo ad autorizzare l’apertura di un’ambasciata dell’Unione Sovietica; Mussolini che ha come amante la sua principale biografa in vita, la colta ebrea veneziana Sarfatti, è lo stesso che firma le leggi razziali, il contadino che trebbia il grano a petto nudo è lo stesso che suona il violino nella sua residenza di villa Torlonia e così via all’infinito. Ecco perché il fascismo è difficile da estirpare, si adatta come l’acqua a ogni contingenza.

Basta però con la faciloneria e la dabbenaggine. Non esiste l’architettura fascista, né il termine razionalista serve a contenere tutte le svariate correnti ideali ed estetiche che si batterono fieramente fra loro durante il Ventennio. Basta anche con l’idea che solo l’Italia abbia monumenti imbarazzanti e architettura di stato retorica e magniloquente: dopo la grande crisi del ’29, l’intervento di tutti gli Stati nell’economia e nella società aumentò a dismisura dappertutto, dai piani quinquennali staliniani, al New Deal americano e nelle democrazie europee, fascismo incluso; allora visto da Londra, Parigi e Washington come interessante alternativa al comunismo, sorta di terza via tra Est e Ovest. Tutti gli stati utilizzarono colonne con capitelli negli anni ’30 in un tripudio di classicismi contrapposti ad esaltare imprese coloniali, rivoluzioni presunte, supremazie varie: vedi le sette sorelle moscovite e il delirante progetto per il palazzo dei Soviet, il Federal Triangle a Washington o i monumenti dedicati a Lincoln e Washington decorati con i fasci littori (ebbene sì), il Trocadero a Parigi (la Francia ha inventato il moderno antisemitismo col caso Dreyfus), per non parlare del nazismo che fra le primissime disposizioni chiuse la Bauhaus fondata da Gropius e diretta da Mies van der Rohe.

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I massicci interventi promossi dal fascismo in architettura e urbanistica vanno dunque relativizzati e visti in questo contesto, fra pari, senza inutili levate di scudo patriottiche o idee di primato. Certo restano alcuni capolavori non classicisti, ma pochi e isolati, come la Casa del fascio di Como di Terragni, il dispensario antitubercolare di Ignazio Gardella ad Alessandria o l’accademia della scherma di Luigi Moretti a Roma e alcune ottime infrastrutture più rappresentative e quindi votate al compromesso come il palazzo dei congressi di Adalberto Libera all’Eur che ha sì grandi colonne, ma senza capitelli e che sostengono un peso formidabile, «sono colonne di un razionalista» come affermò l’autore nel dopoguerra. Si tratta di opere che prima abbiamo rimosso perché troppo legate all’epoca precedente, facendone caserme, fiere espositive o aule di tribunale quindi non valorizzandole, ma almeno riusandole, ed è così che sono entrate lentamente a far parte dell’immaginario anche dell’epoca repubblicana – vedi Le tentazioni del dottor Antonio di Federico Fellini girato all’Eur.

Sono stati proprio gli americani a svegliarci dal torpore, grazie ai brillanti studi ormai divenuti classici di Robert Venturi su Brasini e Moretti, di Peter Eisenman su Terragni, di Emily Braun su Mario Sironi senza contare l’opera di un italiano laureatosi ad Harvard per via delle leggi razziali come Bruno Zevi che nell’immediato dopoguerra si batté coraggiosamente contro la paventata demolizione della Casa del fascio: Zevi disse che l’architettura di Terragni era così moderna e antiretorica che andava considerata “intrinsecamente antifascista”, al contrario dell’odiato accademico classicista Marcello Piacentini. Ecco, noi siamo il Paese della Casa del fascio antifascista e abbiamo ancora tanta strada da fare.

 

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