Attualità

You’re at Wimbledon

Prima puntata di un diario da Wimbledon. La fila per i biglietti, i campi d'allenamento, la conferenza stampa di Federer e quel profumo intenso d'erba.

di Fabio Severo

Bisogna cominciare dalla fine di questi primi due giorni a Wimbledon, perché  non era mai successo che Rafael Nadal perdesse all’esordio in un torneo del Grande Slam, e invece dopo 35 partecipazioni si è trovato sconfitto tre set a zero dal numero 135 del mondo, il belga Steve Darcis. Lui che qui ha vinto due volte, sfatando ormai da tempo il mito dell’essere solo un terraiolo, lui che quest’anno sinora quasi non aveva mai perso e invece, dopo aver strappato l’ottavo Roland Garros, calca un prato verde e si trova senza armi per affrontare la battaglia. Bisogna cominciare dalla fine anche perché era nell’aria sin da subito, da quando la mattina della vigilia del torneo ho percorso Wimbledon Park Road, e bandiere di colore verde e blu mi segnalavano che dopo dodici minuti di cammino sarei arrivato ai cancelli dell’All England Lawn and Tennis Club. Lungo la strada, persone con in mano sacchi a pelo, zaini e buste di vario tipo mi suggeriscono l’avvicinarsi della meta: i coraggiosi e gli entusiasti che si apprestano a fare la lunga fila per acquistare qualche biglietto. O meglio “La Fila”, come qui la chiamano, la pratica regolamentata di passare una notte accampati in ordine di arrivo nella speranza di poter acquistare gli ingressi che vengono messi in vendita il giorno stesso degli incontri. Passato il viale imbocco Church Road, dove i gate del Club si presentano come i bastioni di un segreto ben custodito, mentre mi vengono offerte salviette rinfrescanti e leggo le indicazioni per raggiungere un posto che si chiama Gatsby Club.

Quando esco dalla sala stampa, l’atmosfera solenne dell’incontro mi ha condizionato al punto di avere la netta sensazione di sentire profumo d’incenso

Che un Nadal potesse cadere all’esordio si poteva intuire anche solo vedendo lo staff del Club che spolvera e spruzza su lampade, maniglie, vasi e qualsiasi altro orpello, come se ogni viale e spiazzo di quel posto fosse da curare come l’interno di un’abitazione elegante. Ma soprattutto per l’atmosfera della sala stampa, illuminata da una luce soffusa e da eleganti elaborazioni grafiche dei trofei maschile e femminile, luogo che visito nel giorno in cui mette a disposizione i defending champions, ben separati dagli altri contendenti che sono stati offerti alla stampa il giorno prima. Pochi minuti dopo il mio ingresso arriva dunque Federer, che l’anno scorso vincendo Wimbledon ha generato un ingorgo di primati, conquistando il settimo titolo, tornando numero 1 e automaticamente ottenendo il record assoluto di settimane complessive al comando della classifica, il tutto in un solo momento, quando dopo un passante fuori di Andy Murray al secondo match point si è lasciato cadere a terra, mentre il manico della racchetta abbandonata per portarsi le mani al viso gli ha delicatamente lambito la punta di una scarpa, prima di adagiarsi al suolo. Federer entra in sala stampa e nel torneo come un condannato a morte, perché si presume dovrà incontrare Nadal nei quarti di finale e nessuno lo ritiene in grado di batterlo. Visto che ormai lo considerano un senatore a vita piuttosto che un giocatore, gli chiedono dell’evoluzione del gioco, e lui dichiara di provare «regret» perché «i tornei hanno rallentato le superfici», e «il serve & volley è troppo difficile contro i più forti». Mentre i giornalisti sembrano fare a gara a chi sussurra più piano le domande, Federer dichiara «preferisco sempre guardare il gesto di un rovescio a una mano piuttosto che uno a due mani»; quando esco dalla sala stampa, l’atmosfera solenne dell’incontro mi ha condizionato al punto di avere la netta sensazione di sentire profumo d’incenso, di cui non riesco a capire la provenienza.

Come se avesse avuto in mano una bambola da riempire di spilli, Federer si è poi trovato un Nadal crocifisso dal modesto rovescio a una mano del peón Darcis, un paio di ore dopo che lo svizzero aveva calcato per primo il nuovo manto erboso del centrale, dove con un piglio più sicuro e gioioso di quello mostrato nei giorni del Roland Garros aveva demolito il rumeno Victor Hanescu in un’ora e otto minuti, esattamente il tempo in cui Nadal ha ingloriosamente perso il primo set al tie-break contro Darcis. Quando gioca male Nadal manifesta tutta la farraginosità della sua tecnica: il movimento a lazo del dritto che gira attorno alla testa e la rotazione folle che dà al colpo diventano inutile dispendio di energia, con la palla che muore a rete o carambola fuori, ricordando la sensazione che si prova lanciando con tutta la forza un pezzo di carta appallottolato. Infine la spasmodica ricerca del dritto e gli ampi spostamenti laterali fatti per girare attorno alla palla, che somigliano alle manovre di un granchio impazzito.

Poi vedo ovunque briefing all’aperto degli addetti alla sicurezza del torneo, capannelli di persone tutte vestite come dei simpatici capotreni in completi blu scuro, il cappello con la visiera larga ben calcato, e mi sembra di scorgere i segni di una cospirazione contro chi, come lo spagnolo, osa anteporre la vittoria allo stile. Me ne rendo conto appieno quando chiedo di visitare l’area dedicata agli allenamenti: poiché i campi in erba si usurano, va da sé che le practice session debbano svolgersi su altri court, per non danneggiare quelli in uso per il torneo. Il luogo in questione si chiama Aorangi Park, e si trova dietro il Court n. 1. L’Aorangi è il non plus ultra dell’esclusività, pochi eletti che circolano attorno a campi dove a un metro da te si allenano tutti i più grandi. Li ascolti mentre chiacchierano nelle lingue native con i loro entourage, ne vedi alcuni con occhi cisposi forse dovuti a stanchezza, guardi il loro fare dinoccolato, quella noncuranza particolare che hanno gli sportivi mentre si allenano. Soprattutto quelli che passano il loro tempo su un manto erboso, cosa che ho imparato a riconoscere quando ho visto per la prima volta dei calciatori fare ginnastica e dare qualche calcio al pallone: ho scoperto che sono solo ragazzi immersi in un ambiente pieno di vibrazioni positive, ingiustamente tutte indirizzate verso di loro. La prossimità con l’erba è la chiave di quest’aria sublime, e nel tennis si traduce in una serie di visioni commoventi: il rimbalzo morbido ma teso della palla, i fili verdi cortissimi e fittissimi che sembrano piegarsi sotto l’impatto, lasciando come un immagine latente della piccola sfera, e poi l’odore del prato, un odore di pace, di armonia, la natura addomesticata al servizio di un leisure profondamente gentilizio.

Guardare una distesa di campi in erba è un’esperienza che smuove ricordi d’infanzia, emozioni private che vengono da lontano, pomeriggi al parco in compagnia di qualcuno a cui si tiene

Intossicato da un benessere che in realtà non mi appartiene all’improvviso mi trovo a sorridermi con Flavia Pennetta, dopo che il suo allenatore passandomi accanto fa una battuta in spagnolo su Nicolas Almagro, che palleggia poco più giù; io la battuta non l’ho neanche sentita, ma quando lei mi ha guardato leggermente imbarazzata è stato bello fare finta di capirci. Guardare una distesa di campi in erba è un’esperienza che smuove ricordi d’infanzia, emozioni private che vengono da lontano, pomeriggi al parco in compagnia di qualcuno a cui si tiene, con il vociare distante, il vento leggero, e tutti come assorti in un costante stato di piacere fisico. Se distogli lo sguardo dalle uniformi e gli auricolari degli agenti a controllo dei varchi puoi anche dimenticare di essere stato ammesso per soli 40 minuti in un luogo di eccellenza sportiva, perché neanche i tennisti tutti attorno sembrano dei professionisti, li vedi che ridono e sudano come faresti tu, e ti chiedi se come te anche loro pensano “ma guarda dove sono”, mentre ciondolano assorti sul campo, dando la sensazione di soppesare l’erba che si abbassa sotto i loro passi, come quando si schiaccia la neve sotto le scarpe.

Vedi gli orari delle sessioni di allenamento che si sovrappongono, e allora coppie di giocatori si dividono lo stesso campo, palleggiando lungo i corridoi a due a due, la palla che a volte schizza via dopo essere rimbalzata su un’altra a terra, come capita alle persone comuni. C’è anche l’americano Ryan Harrison ad allenarsi, quest’anno sta faticando molto, lui che vive con il fardello di dover essere la nuova promessa americana, un impegno che sta cominciando a non mantenere. In Australia dopo una batosta presa contro Djokovic aveva detto «So come dovrei giocare, il problema è riuscire a farlo».

Non è certo il problema di Serena Williams, per la quale oggi non sembra esserci ostacolo alla vittoria continua. Le chiedono della pressione di dover difendere il titolo, lei risponde «Non sono costretta a farlo, ma vorrei tanto riuscirci». A pochi è concesso di considerare la vittoria non una necessità, ma come un privilegio a portata di mano. Vincendo supererebbe la sorella Venus nel numero di vittorie a Londra, e Venus quest’anno non partecipa per problemi alla schiena. Serena racconta che la sorella le ha detto di non preoccuparsi, e di provare a superarla. «Snap out of it, it’s time for you to pass me», Serena ci ha riportato così le parole di Venus, e te le immagini mentre si dicono queste frasi da film con i loro sorrisi bianchissimi, inondate di endorsement e illuminate dal bagliore delle bacheche piene dei loro trofei.

«Please enjoy yourself and have a wonderful day, you’re at Wimbledon», viene detto dagli altoparlanti subito prima che entrino in campo i giocatori, il primo match dell’anno su qualsiasi court del Club. Molti ground qui hanno capienze a sedere di cinquanta-sessanta persone, giusto due file di panchine di legno ai due lati del campo. Gli arbitri e i giudici di linea sembrano i padroni del luogo, alteri ma ospitali nelle loro divise Ralph Lauren e la scoppola in testa. Poi vedi le palline agitate prima di essere usate per controllare che non abbiano difetti, i pali di legno chiaro agli estremi della rete, con le manopole per regolare l’altezza che brillano nel loro rivestimento ramato, la staffa di metallo verde scuro per verificare l’altezza della rete, ma non un metro qualsiasi, una specie di unità di misura senza tacche che sembra venire da un museo della civiltà. Anche il palleggio di riscaldamento che osservo all’inizio del primo turno tra Benoit Paire e Adrian Ungur comincia in modo molto delicato, come a far abituare l’erba alla loro presenza. Difficile non pensare al fondocampo che già comincia a guastarsi sotto agli occhi, ancora lussureggiante ma già segnato dai passi nervosi dei giocatori. Pochi punti e già Paire guarda il verde sotto di lui, come per chiedergli ragione dei suoi errori.

Il Centre Court che attende Federer in realtà è il primo campo che vedo davvero immacolato, tutti gli altri sembrano portare dei leggeri segni di usura sin da prima di essere inaugurati. Si applaude educatamente all’ingresso di raccattapalle e giudici, nella foto sul tabellone l’avversario Hanescu è ritratto con la classica fototessera usata nel suo profilo ufficiale, mentre di Federer usano un ritaglio di un’immagine di quando ha vinto l’anno scorso, sorridente e sudato, si intuisce il trofeo alzato dalla posizione delle braccia. Qui sono proprio affezionati all’idea dell’atleta dandy, non resistono.