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L’Onu ha definito Gaza «un abisso» e ha detto che ci vorranno almeno 70 miliardi per ricostruirla Quasi sicuramente questa cifra non sarà sufficiente e in ogni caso ci vorranno decenni per ricostruire la Striscia.
Anche quest’anno in Russia è uscito il calendario ufficiale di Vladimir Putin Anche nel 2026 i russi potranno lasciarsi ispirare dalle foto e dalle riflessioni del loro presidente, contenute nel suo calendario
Sarkozy è stato in carcere solo 20 giorni ma dall’esperienza è riuscito comunque a trarre un memoir di 216 pagine Il libro dell’ex presidente francese sulla sua carcerazione lampo a La Santé ha già trovato un editore e verrà presto pubblicato.
Nel primo teaser del nuovo Scrubs c’è la reunion di (quasi) tutto il cast originale J.D., Turk, Elliot e anche il dottor Cox al Sacro cuore dopo 15 anni, invecchiati e alle prese con una nuova generazione di medici. Ma c'è una grave assenza che i fan stanno già sottolineando.
Anche il Vaticano ha recensito entusiasticamente il nuovo album di Rosalía José Tolentino de Mendonça, prefetto per il Dicastero per la Cultura e l’educazione del Vaticano, ha definito Lux «una risposta a un bisogno profondo nella cultura contemporanea».
La nuova funzione di geolocalizzazione di X si sta rivelando un serio problema per i politici Non è facile spiegare come mai i più entusiasti sostenitori di Donald Trump postino dall'India o dalla Nigeria, per esempio.
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Il Grande Museo Egizio di Giza ha appena aperto ma ha già un grave problema di overtourism A nulla è servito il limite di 20 mila biglietti disponibili al giorno: i turisti sono già troppi e il Museo adesso deve trovare una soluzione.

Leggerissimo Allen

Il film più osteggiato del regista è l'opposto della pesantezza che ha avvolto la sua figura.

03 Dicembre 2019

Rinnegato dagli attori, che in seguito al riaccendersi delle polemiche sui presunti abusi nei confronti della figlia Dylan hanno devoluto il loro cachet per auto-punirsi di aver lavorato col “mostro” Woody Allen (che delusione, caro Timothée Chalamet: il Gatsby che interpreti nel film non l’avrebbe mai fatto), ripudiato da Amazon, A Rainy Day in New York è finalmente arrivato nei cinema italiani. Quante complicazioni, quanta inutile fatica e pesantezza, per un film che è come un cucchiaio della migliore qualità di panna montata: impalpabile, dolce, da assaporare con un sorriso sognante.

Woody Allen ha 84 anni. Se invecchiando i grandi maestri del cinema tendono a voler fare il punto sull’esistenza umana con film ambiziosissimi, cupi e pensosi (ad esempio The Irishman di Martin Scorsese), lui non rinuncia alla leggerezza che l’ha trasformato in un mito, e anzi sembra muoversi in direzione opposta, al limite dell’inconsistenza. Il film racconta il fallimento del weekend a New York di una coppia di fidanzatini di buona famiglia (lui figlio di intellettuali dell’Upper East Side, lei di banchieri di Tucson), guastato da una serie di incontri in cui Elle Fanning, aspirante giornalista, si ritrova coinvolta dal momento in cui coglie l’occasione di intervistare un regista di culto.

Il set è sempre più rarefatto, così come i costumi degli attori, ridotti al minimo, invariati per tutto il film, come maschere di carnevale: il maglioncino di Elle Fanning (“l’ingenua”), la capigliatura poetica di Timothé Chalamet (“il flâneur”), il trench di Selena Gomez (“la ragazza di città”) e i prevedibilissimi look dei personaggi del cinema con cui la protagonista si ritrova ad avere a che fare (il regista Liev Schrieber, lo sceneggiatore Jude Law, l’attore Diego Luna) uno più caricaturale (e quindi spassoso) dell’altro. Anche la città è una caricatura di se stessa: rarefatta, stereotipata e fasulla in tutta la sua ostentata newyorkesità («Una cosa è certa di New York», dice a un certo punto il protagonista: «o sei qui o da nessuna altra parte»). Gli affreschi di Bemelman al bar del Carlyle, le solite scene al solito museo (stavolta è il Met), trovarsi per caso a salire sullo stesso taxi (ma quando mai?), suonare e cantare “Everything Happens to Me” di Sinatra al pianoforte a coda nel lussuoso salotto di un appartamento a Tribeca (il Timothé Chalamet di questa scena saprebbe far innamorare anche un sasso), l’appuntamento sotto il Delacorte Clock a Central Park.

In A Rainy Day in New York la luce gioca un ruolo fondamentale (com’era per l’ultimo, forse sottovalutato, Wonder Wheel). Anche la pioggia, elemento tanto amato dal regista (pensiamo al bacio di Match Point) ha un ruolo importante nella creazione di scenari che l’atmosfera rende ancora più falsi e teatrali invece che più autentici. In questo bagno di luce, pioggia e splendida superficialità, risaltano due momenti perfetti: il delirio spumeggiante di Elle Fanning quando, per una serie di coincidenze fortuite (e grazie al suo charme di celestiale svampita), finisce a cena con l’attore più bono del mondo, e il monologo della mamma di Chalamet (Cherry Jones), un discorso che a contrasto con tanta ineffabilità risulta sorprendentemente serio e toccante.

Ma la vera protagonista del film è Elle Fanning, la sua irresistibile comicità fa impallidire perfino Chalamet, sbiadito e confuso dall’inconsistenza connaturata al personaggio del dandy nostalgico e inconcludente che si trova a interpretare. Eppure alla fine è proprio lui, Gatsby Welles, a trionfare. Vivere in una metropoli, ci rivela, è una specie di vocazione, e in quanto tale ha qualcosa di stupidamente eroico. Lo ricorda nel delizioso, appagante finale, quando esclama, in una commovente dichiarazione d’amore per tutto ciò che New York rappresenta: «Ho bisogno del monossido per vivere».

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