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Voglia di anni Novanta

Intervista a Giorgio Valletta, autore del podcast Forgotten Tapes, racconto di un decennio d'oro dal punto di vista musicale, che nasce da un ritrovamento di vecchie cassette.

di Cristiano de Majo

Lasciando da parte Tangentopoli, che pure in qualche modo c’entra, è un momento in cui degli anni Novanta si parla parecchio. Per chi in quel decennio era ragazzo, trent’anni sono la distanza giusta per sentire le vertigini della vecchiaia, per chi si occupa di analisi serie, sono probabilmente il tempo necessario per storicizzare l’epoca. È un caso, o forse non lo è, che proprio nelle ultime settimane si parla negli Stati Uniti di un libro, The Nineties di Chuck Klosterman, che è un’ampia indagine su quel periodo dal punto di vista musicale, ma anche sociale e generazionale, mentre in Italia è appena uscito Exmachina di Valerio Mattioli (minimum fax), che prende le mosse dal ’92 per raccontare come la Warp Records (la mitologica etichetta di Sheffield) e in particolare Aphex Twin, Autechre e Boards of Canada, abbiano saputo immaginare il futuro che ci sarebbe toccato. Proprio Aphex Twin è il protagonista della prima puntata di un bellissimo podcast appena uscito. Si chiama Forgotten Tapes del dj e giornalista Giorgio Valletta in collaborazione con Teo Segale, e ideato e prodotto da Radio Raheem. Il podcast nasce dal ritrovamento  di molte cassette contenenti vecchie interviste. All’epoca Valletta, poi diventato uno degli animatori di C2C, lavorava per la torinese Radio Flash e per la rivista Rumore. Il podcast si divide in 5 puntate, concentrate in un periodo che va dal ’92 al ’95, con interviste ad Aphex Twin, appunto, Guru dei Gang Starr, PJ Harvey, Portishead e Blur.

Iniziamo da questo ritrovamento: è vero o è una storia di finzione?
Io sono un disordinato, sono soprattutto un accumulatore di tutto ciò che riguarda il mondo in cui lavoro, quindi dischi, giornali, appunto cassette e in quegli anni Novanta, il periodo a cui risale questa serie di interviste, avevo l’abitudine di registrare su cassetta i cd che mi prestavano gli amici, visto che non avevo i soldi per comprarmeli tutti. Ne avevo centinaia e me ne stavo sbarazzando poco a poco, però a un certo punto mi sono detto “aspetta un attimo in mezzo a tutte queste cassette ci sono anche tutte le vecchie interviste” che avevo fatto in quegli anni un po’ per Radio Flash, radio alternativa più importante storicamente di Torino, che purtroppo ha chiuso i battenti un paio d’anni fa, un po’ per Rumore, mensile con cui tuttora collaboro e che nacque nel ’92. Quest’intervista ad Aphex Twin, che è la prima puntata di Forgotten Tapes, fu fatta nell’estate del ’93 e uscì su Rumore in taglio basso, come una specie di trafiletto perché Aphex Twin era ancora un artista emergente. Alla fine ho pensato che queste interviste potessero risultare interessanti, anche perché si tratta di artisti che non avevano ancora raggiunto l’apice del loro successo.

Ma a parte questo perché secondo te sono interessanti (e ascoltando la prima puntata confermo anch’io che lo sono)? C’è un discorso legato alla nostalgia? Di solito il giornalismo è una cosa che si consuma nel momento in cui si fa…
Allora, c’è una serie di fattori. Innanzitutto si tratta di artisti, come dicevamo prima, che erano agli inizi di un percorso e avevano molta voglia di raccontarsi. Poi penso anche che, ma non voglio fare il Gianni Minà della situazione, non fraintendermi, perché amo tantissima musica che si fa oggi, e non voglio rientrare nella categoria “e ma la musica che si faceva un tempo è un’altra cosa”, sono assolutamente sintonizzato sul presente, come dimostra la musica che metto in radio o la programmazione di C2C, però credo che musicalmente gli anni Novanta siano stati una piccola età dell’oro, c’erano tantissimi fermenti, stavano succedendo tante cose diverse contemporaneamente, si incrociavano una fase d’oro della musica elettronica, la fioritura del mondo hip-hop e dei suoni a esso collegato e se vuoi anche l’ultima fase davvero interessante di quello che può definirsi rock, che poi negli anni successivi è diventato soprattutto una questione di revival e rifritture.

Neanche a me piace idealizzare il passato ma, se possiamo permetterci una parentesi di passatismo, secondo te quel tipo di spinta e di innovazione formale dopo è un po’ sparita oppure no? Personalmente ci sono molte cose nuove che ascolto e mi piacciono ma nessuna mi stupisce o mi sembra elettrizzante come mi sono sembrate la drum’n’bass o appunto i dischi di Aphex Twin.
Da questo punto di vista credo che per noi giochi il fattore anagrafico. Negli anni Zero mi sono trovato ad avere un sentimento di delusione rispetto alle cose nuove che uscivano. Ma credo che da 8-9 anni a questa parte, nell’immensa mole di cose che escono, ci siano tantissime cose, complice Bandcamp e la possibilità di accedere in maniera illimitata alla musica, mi fa spesso sentire in imbarazzo nello scegliere 20-25 cose da mettere in scaletta. Ci sono molti artisti che trovo elettrizzanti nella musica di oggi, da Frank Ocean ai BadBadNotGood. Forse negli anni Novanta era più facile che un certo tipo di musica arrivasse a un grande pubblico. Forse perché esistevano ancora le case discografiche. Oggi, dopo la crisi di Napster, siamo in uno scenario in cui sono rimaste tre major e un grande sottobosco indipendente e questo ha tagliato i canali di distribuzione di massa per tante cose.

Che anni erano quelli per il giornalismo musicale?
Ti racconto un aneddoto, sull’intervista a PJ Harvey, che si potrà ascoltare nella terza puntata del podcast, fatta da me al telefono e pubblicata sul numero 1 di Rumore. Lei era un’artista emergente, aveva pubblicato due singoli e stava per uscire il suo album di debutto. In quel periodo iniziavo ad andare spesso a Londra per comprare dischi o vedere concerti. Nella seconda meta del ’91, ascoltai dei suoi pezzi che passavano nel programma di John Peel e mi sembrarono molto interessanti. Coincidenza, nel novembre del ’91, mi trovavo a Londra e andai ad ascoltarla in un pub, un locale da 200 persone di capienza, un concerto bellissimo nonostante un repertorio ancora molto piccolo, forse neanche di dieci brani. Alla fine del concerto mi avvicino, le chiedo un contatto per organizzare un’intervista, lei mi dà un numero di telefono fisso, che immagino fosse il numero di casa sua, una roba assurda, nel frattempo chiedo alla Too Pure una cassetta promo del suo album, ché all’epoca i promo non esistevano ancora in cd, soprattutto per le etichette indipendenti e a fine gennaio la chiamo dal telefono di casa a quel numero che mi aveva dato.

Giorgio Valletta

Come ti sei affacciato al mondo della musica?
Ho iniziato a fare il dj, a proporre la musica che mi piaceva nell’84, avevo 17 anni, ero ancora a scuola, facevo ragioneria, e infatti dopo quell’anno ho smesso di studiare, sono uscito con 40/60 e poi basta, da dj radiofonico comincio ad avere l’opportunità di mettere la musica nei locali e poi qualche anno dopo inizio a scrivere per una fanzine che si chiamava Neoclima, l’avevo rimossa ma me l’ha ricordato un supplemento dedicato alle fanzine che era in uno degli ultimi numeri di Rumore e mi è capitata la possibilità di scrivere su questa rivista, Rumore appunto, che nasceva da una costola di Rockerilla, conoscevo Alberto Campo, che mi diede l’opportunità di mettermi alla prova. E il mio primo pezzo fu proprio quello di PJ Harvey.

Una domanda secca: qual è il disco più bello degli anni ’90?
Non mi ero preparato. Per motivi miei personalissimi potrei dire Protection dei Massive Attack. Un altro disco di quegli anni che mi ha segnato per altri motivi è Dubnobasswithmyheadman degli Underworld. Entrambi usciti nel ’94. Quando Rossano Lo Mele mi ha chiesto di scrivere un pezzo per il trentennale di Rumore, in cui ognuno poteva scegliersi un tema, io ho scelto “1994”, perché per me è stato l’anno chiave in cui tutte le trasformazioni, le evoluzioni della scena musicale hanno trovato un apice, sono successe un sacco di cose. Hai 20 album da incorniciare.

È interessante, per me che l’ho vissuto, guardare il modo in cui si rapportano i ragazzi di oggi a quel periodo: mi fa pensare al modo in cui ci rapportavamo noi da ragazzini agli anni Settanta, con quest’aura un po’ di mito. Come succede sempre a viverli, in realtà non sembravano così culturalmente ricchi come ci sembrano oggi. Che epoca è stata in definitiva secondo te?
Difficile dirlo in due parole. Gli anni Novanta sono stati tantissime cose. Una cosa che forse non è stata ancora analizzata è che sono stati una via d’uscita dagli anni Ottanta e da tutto quello che rappresentavano. Non a caso, la cosiddetta musica alternativa, così come l’hanno catalogata negli Stati Uniti, dove hanno la mania di catalogare tutto per le radio, quella cultura lì insomma è esplosa negli anni Novanta, ha cominciato a ramificarsi e a mostrare tanti aspetti di sé, proprio perché era stata repressa nell’underground per lungo tempo nonostante avesse tante cose da dire. È stato un decennio in cui c’è stata la possibilità di esprimersi in maniera creativa come non era più possibile forse addirittura dai primi anni Settanta. Parlo dal punto di vista musicale, non so se sono in grado di fare discorsi più ampi. È interessante perché dal punto di vista tecnologico è stato un decennio di transizione: Internet doveva ancora diventare la cosa che sarebbe diventata, non c’erano ancora i telefoni cellulari, si viveva un po’ ancora alla vecchia maniera, ma per altri versi si pensava in maniera molto innovativa, molto differente rispetto a prima.