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Virgil Abloh, il mago di Oz

L’unico evento di una stagione di sfilate soporifere è stato il suo debutto da Louis Vuitton. Che, almeno sui social, già funziona.

di Silvia Schirinzi

Le levate di scudi “contro” la nomina di Virgil Abloh da Louis Vuitton sono state tante (alcune eccellenti, certamente fondate) ed è lecito chiedersi, tanto più in un periodo in cui esprimere un’opinione competente regala minacce di morte sui social media, quanto in fretta arriverà il momento in cui critici e insider potranno dire «eh, noi ve l’avevamo detto». Forse quel momento è già arrivato, sebbene queste cose si misurino in trimestrali e quindi ci tocca aspettare: ieri a Parigi Abloh ha presentato la sua collezione per la Primavera Estate 2019 di Louis Vuitton, la prima da direttore creativo. Era il debutto più atteso dell’intera stagione dell’uomo, iniziata in sordina a Londra, passata per Firenze e Milano e approdata quindi a Parigi, dove di sfilate e collezioni belle, mediamente, se ne vedono più che altrove (vedi Yohji Yamamoto, Rick Owens o Christophe Lemaire: cosa gli vuoi dire a quelli là se non grazie di tutto, continuate così, ci si vede alla prossima).

Nel giardino del Palais Royal, intanto, una lunghissima bandiera arcobaleno ha fatto da passerella ai cinquantasei look presentati da Abloh: il primo blocco è in bianco Off-White™, il cast è particolarmente azzeccato tra modelli di differenti etnie e alcuni volti conosciuti, da Kid Cudi agli skater Blondey McCoy e Lucien Clarke. Gli abiti virano al cammello, di nuovo bianco in vari mélange che ricordano il primo Giorgio Armani, quindi rosso, piumini-armatura, zaini minimal-fluo che fungono da porta telefono (alternativa luxury per i runner che non passano da Decathlon) e mani guantate, bauletti, borse, valigie e, per gradire, tanto tie-dye, tra riferimenti più o meno espliciti a predecessori illustri e i soliti noti. We are the world di Michael Jackson e Lionel Richie fa da colonna sonora-manifesto mentre la favola ambigua del mago di Oz è il filo conduttore della collezione. La storia di Abloh, almeno così come si dispiega sui social, è una di quelle belle da leggere e raccontare, bisogna ammettere che funziona, lo sanno anche i detrattori/fautori del taglio e delle linee sartoriali. In prima fila, oltre a Rihanna, Kanye West e Kim Kardashian, ci sono quasi mille studenti provenienti dalle scuole di moda parigine, ai quali il nuovo direttore creativo ha regalato un invito/T-Shirt che è un promemoria, per lui ma anche per gli altri, del punto di partenza e di quello d’arrivo.

È un bel gesto, sarà anche gigione come si diceva nei primi talent-show, ma includere gli studenti (che a Parigi è comunque prassi, meno da noi) ha un valore simbolico e non tutti i simboli, e non tutti i valori, vanno disdegnati, soprattutto in un periodo come quello che viviamo. Così i colori del Pride, così l’abbraccio e le lacrime finali con West, talent scout di un Abloh ventiduenne e suo primo fan: ogni tanto la moda è storia personale, anche, un abbecedario come quello riportato sull’invito che riscrive le regole del gioco secondo nuove prospettive, ci piacciano o meno. Ogni tanto la moda è anche il successo di un singolo e il riconoscimento di una visione integrata: saranno solo T-Shirt, per molti, ed è difficile stabilire chi è si appropriato di cosa e quando (hanno iniziato Riccardo Tisci e Nicolas Ghesquière questa cosa dello streetwear di lusso, d’altronde), ma Abloh da Louis Vuitton è un segno dei tempi. Non uno di quelli funesti, se ne prenda atto. I giudizi sulle prime collezioni sono generalmente piuttosto morbidi, perché è giusto dare tempo, e la costruzione dell’elemento emotivo qui prende, com’era prevedibile, il sopravvento. Saranno i trimestrali e le future collezioni a dirci di più del nuovo establishment, annunciato dal «We are culture» di Kanye West a Zane Lowe nel 2013 e oggi avveratosi nella sua completezza (vedi l’evoluzione di Childish Gambino e Beyoncé/Jay Z al Louvre, per dire).

Intanto Dries Van Noten, uno degli ultimi indipendenti e bravissimi, vende (quasi) tutto agli spagnoli di Puig, e chi lo critica ripensi a quello che Van Noten ha fatto finora, mentre Cristopher Kane, che ha qualche anno di meno del designer belga, pare voglia riprendersi la maggioranza del suo marchio da Kering. Le storie personali sono indissolubilmente legate a quelle dell’industria, abbiamo detto, cambiano i profili e le provenienze, i tracciati e i percorsi da seguire, cambia il contesto culturale e il sostrato in cui quelle storie nascono e si sviluppano. Cambiano i gusti, sempre più velocemente, e i consumatori, soprattutto questi uomini che non sappiamo più come definire: a proposito delle sfilate milanesi, Antonio Mancinelli su Marie Claire scrive che è l’epoca dello “sclassico” e si chiede cosa verrà dopo lo streetwear, e cioè dopo Abloh. Per ora, manco a dirlo, le cose più interessanti si vedono dalle parti dove i generi si confondono, ma restiamo in attesa della prossima storia da raccontare, rigorosamente su Instagram.

In apertura: Virgil Abloh e Kanye West a fine sfilata, nel testo: un modello sulla passerella di Louis Vuitton, Kid Cudi (Pascal Le Segretain/Getty Images)