Stili di vita | Moda

Se la moda è cultura (e politica)

Dispacci dalla fiera di moda maschile più importante al mondo.

di Silvia Schirinzi

FLORENCE, ITALY - JUNE 13: A model walks the runway at the Roberto Cavalli show during the 94th Pitti Immagine Uomo on June 13, 2018 in Florence, Italy. (Photo by Pietro D'Aprano/Getty Images)

A voler interpretare in maniera creativa i dati della nota economica rilasciata da Sistema Moda Italia, come di consueto, all’inaugurazione di Pitti, ci sarebbero un po’ di spunti per definire l’attuale situazione politica italiana, o quantomeno per constatare quanto drammaticamente lontana possa sembrare la bolla della moda da quella del sentire comune. Trattasi di bolle, si noti, luoghi deputati al formarsi di idee e opinioni: entrambe, attraverso meccanismi per certi versi difficili da tracciare, contribuiscono ad amplificare, diffondere, rendere permeabile un determinato messaggio. Dicono i dati sugli sbocchi commerciali che il nostro primo acquirente, quelli che più ci comprano e quindi (forse?) più ci amano, sono i tedeschi: nel 2017, il primo mercato del menswear made in Italy è risultata la Germania, che ha superato anche la Francia.

L’export verso il mercato tedesco è cresciuto del +10,1%, raggiungendo quota 662 milioni di euro: era l’anno scorso, direte voi, c’era ancora Gentiloni e Salvini sbraitava solo dai suoi profili social e non dal Viminale. I primi due mesi del 2018, però, per quanto poco significativi dal punto di vista statistico, confermano quei dati, che gli operatori del settore in realtà conoscono bene perché la Germania è un mercato fondamentale. I tedeschi ci hanno sempre comprato/amato: nei loro supermercati la selezione di prodotti italiani (e turchi) è la più completa e raffinata che potrete trovare in un Paese straniero, nei negozi i marchi italiani sono tanti e per tutti i gusti. Al secondo posto c’è il Regno Unito (+8,3%) seguito da Francia (+3,8%) e Spagna (+3,9%). Vanno bene la maglieria e la confezione (nel 2017 rispettivamente a +7,6% e +3,4%), mentre vanno malino le confezioni in pelle (-2,0%) e malissimo le cravatte (-9,5%), probabilmente per quella cosa lì che te le metti solo in tribunale quando ti accusano di qualcosa (vedi Zuckerberg al Congresso o di fronte al Parlamento europeo).

Fuor di metafora, Pitti 94 si è aperto con una presenza importante: quella del nuovo ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo Alberto Bonisoli, nomina in quota Cinque Stelle che, per ora, sembra distaccarsi nelle cronache dai colleghi del governo giallo-verde i quali, beh, lo sapete. Bonisoli, classe 1961, viene dal management della moda: è direttore ad iterim della Naba di Milano, è presidente della Piattaforma Sistema Formativo Moda ed è stato, fra le altre cose, docente di Innovation Management all’università Bocconi di Milano e consulente di istituzioni pubbliche, sia in Italia che in Europa. Quello che di questi tempi si chiama un tecnico, insomma. I suoi profili social, poco aggiornato Facebook, inesistente Twitter, ripostano piuttosto stancamente le missive del blog Cinque Stelle e in generale sembrano innocui, languiscono senza colpo ferire. Il suo primo atto da Ministro è stato scegliere il curatore del Padiglione Italia della prossima Biennale di Venezia: e ha scelto Milovan Farronato, già direttore del Fiorucci Art Trust. È stata un’ottima scelta, interessante: buon lavoro a Farronato, mentre le sterili polemiche di certi assessori non meritano di essere riportate. La prima uscita pubblica del nuovo ministro, che succede a Dario Franceschini (il cui lavoro è stato generalmente molto apprezzato), è stata a Pompei, quindi Pitti. «La moda è cultura» ha detto Bonisoli alla conferenza stampa di inaugurazione, aggiungendo di voler dare al settore da cui lui stesso proviene un ruolo primario all’interno del suo mandato.

Almeno una buona notizia dal fronte, insomma: sembrerà poca roba a confronto delle vicende di cui abbiamo discusso in questi giorni, Aquarius in testa, ma che esista una visione per uno dei nostri Ministeri più importanti è consolatorio, ché accontentarsi di questi tempi sembra lo standard. La macchina di Pitti, intanto, si è svolta come sempre fa: poche le cose davvero degne di nota, ha scritto Angelo Flaccavento sul Business of Fashion, citando il bravo Federico Curradi e la sezione I Go Out, dedicata all’outdoor, fra i progetti più meritevoli. Rimandato a settembre Paul Surridge con la linea maschile di Roberto Cavalli, comunque pregevole, mentre gli show degli ospiti (MCM, Fumito Ganryu, Craig Green) si sono rivelati meno interessanti di quelli visti nelle stagioni passate. Bellissima Bonaveri A Fan of Pucci, la mostra-evento frutto della collaborazione tra lo storico marchio di manichini e la casa di moda, ricco di spunti e testimone di una ricerca instancabile il Gucci Garden curato da Maria Luisa Frisa. Ben strutturato, almeno sulla carta, il concept di Scandinavian Man, che ha organizzato una serie di panel nell’area P.O.P. su temi come la ridefinizione della mascolinità, la sostenibilità e il futuro delle sfilate maschili, peccato per una collocazione infelice esposta alle intemperie. Ma forse, alla fine, avevamo in testa altro.

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