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Il problema Venezia

Tra eccessi turistici e crisi climatica, la città, che potrebbe finire nella lista dei patrimoni dell'Unesco in pericolo, vista da chi la vive quotidianamente.

di Gianni Montieri

Stavo facendo una passeggiata con i miei cani, andando da campo Santo Stefano alle Zattere, e poi fino a Punta della Dogana – camminata che faccio quasi ogni giorno, parliamo delle centinaia di metri che amo di più al mondo – quando mi telefona un amico che non sento da un po’. Dopo i convenevoli, mi dice: «Hai letto? Diventate patrimonio dell’Unesco». Stupito, rispondo con una battuta: «Ma come, non lo siamo già?». La battuta è servita a chiudere lì la questione e a farci salutare ridendo, ma nella mia testa si formavano una serie di suggestioni, ragionamenti. Mi sono domandato come mai Venezia, il luogo fragile per eccellenza, non fosse già stato dichiarato patrimonio dell’umanità in pericolo da tempo, da sempre. E, tornato a casa, dopo aver letto i primi articoli che riportavano la notizia, mi sono domandato se come cittadino di Venezia volessi davvero essere protetto in nome dell’umanità e, in fondo, a dispetto dell’umanità e contro un certo tipo invasivo di umanità.

Veneziano residente da cinque anni, insieme agli altri 49.000 circa del centro storico, non sono in grado di proteggere la mia città? Non sono in grado di progettare qui, adesso, con gli altri, un futuro? L’Unesco si occuperà di Venezia perché è ridotta allo stremo, alle ultime forze? Si occuperà del luogo o della città? E noi residenti davvero non ne possiamo più? Quando si parla di Venezia occorre fare una distinzione tra luogo e città. Naturalmente, questa separazione vale per qualunque posto abitato si intenda esaminare, ma per Venezia vale un po’ di più, e non credo si possano prendere in esame difficoltà, ipotesi di sopravvivenza, schemi per il futuro, progetti, speranze se non si scorporano le due definizioni.

La prima volta che ho pensato a Venezia come a un luogo, un paesaggio è stata durante il primo lockdown dovuto alla pandemia. In quelle giornate di un azzurro luminoso, pressoché ininterrotto, da marzo a fine maggio del 2020, Venezia splendeva, specchiandosi nei suoi riflessi, sembrando l’unica cosa davvero viva di quel periodo. Venezia era reale e noi no, il paesaggio era autorizzato e noi no. Lo scenario sopravviveva, noi chissà. Ho maturato, allora, due convinzioni. La prima, quasi ovvia, è che Venezia non morirà, è destinata a durare dopo di noi e dopo tutti quelli che verranno dopo di noi. Si modificherà perché è nella sua natura mobile, liquida, il mutarsi. Il secondo aspetto riguarda la bellezza. A cosa serve tutta questa bellezza se non posso condividerla con nessuno? Mi domandavo e ancora me lo domando. Per quanti giorni è possibile guardare verso la Salute, dal Ponte dell’Accademia, senza poter mai dire a qualcuno: «Guarda che meraviglia, guarda laggiù»? Avrebbe ancora senso il lampione di Punta della Dogana senza gli innamorati che a ogni ora del giorno e della notte vanno a baciarsi ai suoi piedi? Sarebbero decine le domande declinate più o meno in questo modo, variando il luogo. Venezia rimane nonostante noi. Venezia vuota è, però, soltanto panorama. La città, invece, è fatta di attraversamenti, di persone che ci abitano, bambini che giocano, gente che va a fare la spesa, che trascina i carretti sui ponti, che si ferma a fare due chiacchiere, che maledice l’umidità e benedice quella luce improvvisa che piomba su una riva. Luce vista mille volte ma che è sempre diversa. Durante quei mesi ho fatto mie le parole di Brodskij – poeta che ha amato Venezia in modo viscerale, al punto di desiderare di morirci (fallendo), è morto più banalmente a New York – quando in fondo a una poesia disperata scriveva che Venezia sarebbe stata in grado di fare a meno di lui, e quindi di tutti.

L’Unesco, considerando i cambiamenti climatici, l’innalzamento delle acque, la fragilità dei palazzi, la conservazione dei beni culturali, la gestione dei flussi sempre più massicci di turisti, si occuperà del luogo, ovvero di un gioiellino che potrebbe restare presto senza cittadini. Tutta museo, tutta locazione turistica. La casa dove ha vissuto per molti anni Ezra Pound, giusto per fare un esempio, conserva sul muro la targa dedicata al poeta, ma sul campanello c’è scritto locazione turistica. La casa che la sera accoglieva scrittori, artisti, musicisti, ora non è nient’altro che un paio di camere con lenzuola dozzinali, pronta ad accogliere chi non sa nemmeno chi sia Pound, ma non gliene facciamo una colpa, è solo qualcuno che ha trovato un prezzo decente nel sestiere di Dorsoduro, a pochi passi da Punta della Dogana e dal museo di Peggy Guggenheim, anche se magari non entrerà in nessuno dei due.

Quando è finita la pandemia, Venezia è ritornata a essere oggetto di visita e poi – sempre di più – preda dei turisti, ma i turisti di qualunque tipo siano (quelli che vengono per le Biennali o quelli che vengono per la gita di giornata) non hanno colpa, se Venezia in alcuni periodi (ormai quasi tutto l’anno) ci pare soffocante la colpa è soprattutto di chi la amministra e – in seconda battuta – di chi la abita. Ritorno per un attimo al numero 49.000, che è quello degli attuali residenti del centro storico, ecco un numero simile è quello dei posti letto riservati ai turisti nel medesimo spazio. Il rapporto è ormai 1/1. Un residente e un turista, se la si immagina come una lotta, chi risiede è destinato a perderla, l’unico modo per salvare la città – prima dell’Unesco – è quello di ribaltare la prospettiva, ricominciare a pensare alle possibilità.

Venezia era sotto pressione turistica ben prima della pandemia, ed era poi rimasta provata dall’acqua alta eccezionale del novembre 2019. Fatto sta che il silenzio e il vuoto di calli, campi e canali generato dal lockdown aveva fatto breccia nel cuore dei veneziani – in quelli che non campano di turismo, soprattutto – aveva mostrato una possibilità. Un po’ come quando alla fine di un gruppo di frasi molto complesse il grande scrittore mette il punto, chiude un ragionamento e apre al respiro. L’emergenza globale aveva messo un punto, e quella fase avrebbe dovuto far sì che si ragionasse in termini di opportunità. Non è andata così.

Ci sono giornate, intere settimane, che passiamo a dribblare i turisti fermi sul ponte dell’Accademia, intenti a catturare un tramonto o chissà che. Bloccati al centro del ponte, non sapendo come girarsi, voltarsi, spostarsi, e quel ponte è una strada e tu stai andando al lavoro, a far la spesa, stai portando un pacco, hai due cani al guinzaglio, o magari vuoi semplicemente passeggiarci. Ti innervosisci e non vorresti, sei gentile e ti piacerebbe esserlo sempre, ma a volte è difficile. Vedi questi grossi gruppi che girano accompagnati da guide (non ufficiali) che si guardano intorno come se affrontassero l’ignoto e in fondo è così. La maggior parte della gente che viene non sa cosa ha davanti, vedrà poco o nulla, correrà in piazza San Marco, di certo non entrerà nemmeno nella Basilica o a Palazzo Ducale, scatterà qualche foto sul ponte dei Sospiri, mangerà un tramezzino, un pezzo di pizza seduto su qualche gradino e poi se ne andrà. Non importa cosa avrà capito, almeno una foto su Instagram l’avrà postata, l’oggetto in finto vetro di Murano l’avrà comprato o, peggio ancora, un cappello da gondoliere, o una t-shirt con su scritta una frase in dialetto. Avrà acquistato queste cose a un passo da alcuni dei musei più belli del mondo nei quali non entrerà. Distrattamente guarderà il bucato steso da finestra e finestra e si domanderà (ma forse non farà in tempo): ah, ma qui vivono delle persone. A molti Venezia sembra un negozio che apre al mattino, o un enorme scavo archeologico da visitare rapidamente e dal quale portarsi via uno scatto e un souvenir. Qualche tempo fa un conoscente mi ha detto che tutti hanno il diritto di vedere Venezia almeno una volta nella vita, non ne sono molto convinto, ci sono un sacco di posti in cui vorremmo andare e non andremo mai senza restarci troppo male.

Venezia è una città e una città è fatta di tessuti anche invisibili con i quali gli abitanti si connettono e grazie ai quali – ciascuno alla propria maniera – vive. Quei fili forse li abbiamo un po’ smarriti, o forse si sono nascosti da qualche parte. Prima di pensare ai turisti dobbiamo pensare a noi stessi, preoccuparci di noi e di quello che vorremmo essere e di come vogliamo restare nel luogo, facendolo rimanere città. Tra residenti non ci capiamo. Ci sono quelli come me, come molti dei miei conoscenti o amici che dal flusso turistico non guadagnano un euro e nemmeno pensano di guadagnarci. Questa parte di cittadini che ostinatamente non pensa di andarsene perché ama questo posto, ama incrociare un amico per caso, mentre si va a piedi, ama questo ritmo, ha il dovere di provare a riannodare quei fili, quei tessuti che sono andati smarriti. Per farlo deve parlare all’altra parte di città quella che commercia e che via via sta sostituendo le vecchie botteghe, che non hanno più potuto sostenere i costi d’affitto, con negozi tristi, tutti uguali – per carità, comuni a tutti i centri storici delle città d’arte italiane – e a quell’altra, quella che possiede gli immobili e che sta decidendo il destino di questa città, in maniera caparbia e poco lungimirante.

Molti hanno scelto nel tempo di andare a vivere fuori da Venezia, i proprietari hanno smesso di affittare a residenti, studenti, persone che vengono qui a lavorare per un breve o medio periodo, preferendo la locazione turistica, con la quale (va da sé) si guadagna di più, e in maniera più agevole. Una delle conseguenze di questa scelta è il calo dei residenti: se non trovo una casa in affitto qui, devo andare a Mestre, a Marghera, a Mogliano, verso Treviso o Padova. Stessa, cosa per gli studenti, salvo un numero basso di eccezioni, trovare una stanza è un inferno. Per fare un esempio concreto, una coppia di amici veneziani con figli, che doveva cambiare casa, ha impiegato più di un anno per trovarla, nonostante la fitta rete di conoscenze. Una fatica immane. Le agenzie immobiliari propongono un numero esiguo (quasi nullo) di affitti ai residenti, ed ecco il 49.000 pari. Altro esempio, non abbiamo medici di base, è di queste settimane la notizia che l’Asl 3 (quella del centro storico) ha lanciato una sorta di offerta su scalo internazionale alla ricerca di dottori. L’offerta è quella di uno studio avviato e dell’affiancamento per trovare una casa a condizioni agevoli.

Tornando a noi: resistiamo perché amiamo, ma perché dovremmo resistere? A noi piacerebbe semplicemente vivere. Come si fa? Non si possono bloccare i turisti, non credo ai numeri limitati, ai ticket d’ingresso, non credo a ciò che possa fare l’amministrazione, anche perché negli ultimi anni mi è parso evidente che non voglia fare nulla. Allora sta a noi, che ci incontriamo alle mostre, alle presentazioni dei libri, alle inaugurazioni, al cinema, al bar, quando andiamo a fare gli esami del sangue, noi dobbiamo provare a trasformare questa resistenza in esistenza, parlando con chi non comprende che ciò che spremi prima o poi finisce. Spiegare, fino a che ci mancherà il fiato, che la fragilità di Venezia è fonte della sua stessa bellezza. Accogliere qua le persone, incentivarle a popolare questa città; se abbiamo imparato una cosa dalla pandemia è che molti possono lavorare da casa, da una biblioteca, allora facciamoli venire a lavorare qui, a vivere qui. Nella città senza macchine, senza motorini, senza bici. Se pensiamo al modello urbanistico della “città di 15 minuti”, beh, a Venezia ce lo abbiamo davanti agli occhi, dobbiamo solo applicarlo. Tentiamo, l’Unesco può provare a proteggere il luogo, ma non si occupa di politiche abitative. Della città dobbiamo occuparcene noi, perché la città è noi. Se ci riusciamo, non avremo bisogno di bestemmiare saltando il flusso dei turisti che attraversa lo spazio che va tra calle della Mandola e campo Santi Apostoli, ma potremo ricominciare a conversare con loro, raccontandogli una storia, facendogli vedere che esistiamo dentro e oltre i bei palazzi, che siamo la mano vera che trascina il carretto della spesa. A quel punto sarà di nuovo bello mostrare a un amico in visita, o a un estraneo che lo domanda, dal ponte dell’Accademia, la luce dell’alba o della sera, il bianco della Basilica della Salute che sale verso l’alto, il bacino di San Marco che a seconda dell’ora si fa veramente di mille colori come dice una vecchia canzone.