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“Vamos a la playa”, biografia di un tormentone

Intervista a Fabio De Luca, di cui è appena uscito Oh, oh, oh, oh, oh, racconto dell'estate e dell'Italia in cui tutti cantavano i Righeira.

di Federico Sardo

Il giornalismo musicale, almeno quello più interessante, è spesso una questione di saper contestualizzare anche socioculturalmente qualcosa. Gli esempi potrebbero essere infiniti, a partire da quello di Simon Reynolds, probabilmente il più noto giornalista musicale del mondo, e dei suoi libri in cui appunto il racconto di alcune scene o di alcuni cambiamenti va di pari passo con quello dei luoghi e dell’aria che si respirava quando questi fatti avvenivano. Fabio De Luca è, tra i giornalisti musicali italiani, oltre che una penna sopraffina, uno dei migliori esempi di questa sorta di superpotere nascosto del giornalismo musicale; ma per quanto si tenga molto impegnato come dj, autore e speaker, da quando si chiuse la sua esperienza come vicedirettore di Rolling Stone (2014), la sua non è più una firma che compare spesso in calce ad articoli veri e propri, e anche il suo ultimo libro risale ormai a una ventina di anni fa. Non sarà un’assenza che il grande pubblico ha sentito come quelle di Mina o di Battisti, ma nella bolla di quelli che amano leggere di musica in Italia si è fatta sentire. Finalmente questo silenzio viene rotto da Oh, oh, oh, oh, oh – I Righeira, la playa e lestate 1983 (nottetempo, 2023), trecento pagine che raccontano “Vamos a la playa” e tutto quello che le stava e le sta intorno, la storia di uno dei tormentoni più strani e ubiqui della storia della musica italiana, e molto di più. Ne abbiamo parlato con lui.

ⓢ Ma tu doveri nelle fatidiche vacanze dell’83? Ti ricordi il tuo primo impatto con “Vamos a la playa”?
Ah! Il 1983 è stato letteralmente l’anno in cui mi sono “svegliato”, come gli automi di Westworld quando ricevono il comando “Bring yourself back online”. A svegliarmi credo fu “Blue Monday” dei New Order a marzo, e poi Mister Fantasy alla tv, Rai Stereonotte alla radio, e i dischi degli Heaven 17, di The The, degli Style Council… Quell’estate fu la prima in cui non andai in vacanza con i miei genitori, ma mica per far follie con gli amici: perché per tutto giugno, luglio, agosto e settembre, ogni pomeriggio dalle 16 alle 17 andavo a trasmettere in una piccola radio locale: Radio Nervi. Il nome arrivava dal quartiere di Genova in cui era la radio, anche se l’accezione neurologica avrebbe forse pure lei il suo perché. “Vamos a la playa” era letteralmente dappertutto, come racconto nel libro, e comunicava uno strano senso di euforia non stucchevole, era veramente di un altro pianeta. Però in tutta l’estate non l’ho mai trasmessa alla radio, era troppo commerciale. Non dirlo a Johnson, per favore…

ⓢ Quando ha cominciato a girarti per la testa lidea di dedicarle un libro intero, a distanza di quindici anni dal precedente? Insomma vorrei sapere anche come ti sei deciso, finalmente, a scrivere un altro libro.
Una decina abbondante di anni fa Carlo Antonelli, con cui nel 1995 avevamo scritto Discoinferno (di cui poi avevamo fatto una versione riveduta e aggiornata nel 2005) suggerì l’idea di curare una biografia di Elio Fiorucci, e io dissi che un’altra storia italiana pop che mi sembrava interessante raccontare era quella dei Righeira… Poi non se ne fece nulla – né di Fiorucci né dei Righeira – ma che loro fossero un soggetto interessante era qualcosa di cui ero seriamente convinto. Non mi ci sono mai messo perché l’amara verità è che imbarcarsi in un libro significa un grande sbattimento per un guadagno ridicolo e una potenziale attenzione da parte del mondo assolutamente irrilevante (c’è una celebre statistica secondo cui in Italia si pubblicano 70 mila libri l’anno, cioè otto libri ogni ora per 365 giorni). Poi un anno fa ho realizzato tipo epifania che nel 2023 cadevano i 40 anni di “Vamos a la playa”, e che l’anniversario tondo poteva forse dare una sorta di “cornice” sensata – proprio in termini di marketing – al progetto.

ⓢ Insomma un bieco progetto commerciale! Peraltro sta funzionando: ho visto che già Johnson Righeira è andato al Primo Maggio, sull’onda del successo del libro… Quali modelli te ne hanno ispirato? Pensavo al fatto che il primo capitolo è allo stesso tempo uno scritto di musica, un saggio di storia contemporanea, un racconto del costume di quegli anni e unautobiografia romanzesca. Ho notato anche che il primo testo citato in nota è di Tommaso Labranca, e che spesso torna Tondelli (e a un certo punto sbuca anche Arbasino).
L’idea era di tenere insieme cose molto diverse fra loro: la storia di “Vamos a la playa”, l’Italia in cui era esplosa, il 1983 – cioè gli anni Ottanta colti in una fase in cui non erano ancora quel brutto cliché cafone con cui li si è poi storicizzati – ma anche riflessioni sull’oggi, sul senso della nostalgia (o della retromania estrema degli ultimi vent’anni), sul paradosso che canzoni di quarant’anni fa siano ancora percepite come contemporanee, e fino a quando questo stato di cose potrà ancora funzionare… La cosa che mi era chiara fin da subito è che “Vamos a la playa” dovesse essere un pretesto per parlare d’altro; ciò che invece non mi era del tutto chiaro era “come” tenere insieme il tutto. La prima cosa che ho fatto quando ho iniziato a raccogliere le idee è stata mettermi a rileggere tutto il Tondelli classico, che non rileggevo da veramente tanti anni: Rimini, Pao Pao, ovviamente Un weekend postmoderno… Con questo non voglio insinuare nessunissima parentela, eh, nemmeno da lontano: è più una roba da curato di campagna che, di fronte a una prova difficile, si raccomanda al suo santo protettore. Un’altra cosa che sentivo potesse avere un senso per dare tridimensionalità al tutto era di metterci un minimo del me stesso teenager del 1983, e in quello sono stati d’aiuto (d’aiuto più che di modello, perché lì l’elemento biografico era decisamente preponderante) due libri inglesi usciti lo scorso anno: Broken Greek di Peter Paphides e The Sound of Being Human di Jude Rogers. Poi ovviamente c’era il gioco paradossale – quasi più una gag – di far ruotare tutto un libro attorno a un singolo ritornello pop, e lì il pensiero va ovviamente al più folle e affascinante tra i saggi musicologici di sempre, cioè Metapop di Paul Morley, che è riuscito davvero a scrivere quattrocento pagine solo sul “La-la-la-la-la-la-la-la” di Kylie Minogue in “Can’t Get You Out of My Head”…

ⓢ Che capolavoro Metapop! Comunque abbiamo fatto i grandi nomi ma forse la riflessione sociopolitica più azzeccata è quella riportata da un libro di Max Pezzali.
Con Max Pezzali ho parlato solo due volte – una è la chiacchierata che è finita qui sul libro – ma lui è davvero un conversatore strepitoso, oltre che persona di una cultura profonda e straordinariamente eclettica, fra l’altro vissuta con la stessa naturalezza con cui sintetizza scenari complessi in versi di due parole, come “tappetini nuovi, arbre magique”. E sì: da una sua assai atipica autobiografia curata nel 2013 da Alberto Piccinini e Giovanni Robertini (I cowboy non mollano mai) ho citato due passaggi molto lucidamente critici nei confronti della religione dell’apparire negli anni Ottanta, e sul collasso della lotta di classe.

ⓢ Dietro a Oh oh oh oh oh c’è un grosso lavoro di indagine”: molti incontri, anche molti viaggi. Qualche aneddoto che è rimasto fuori? Qualche episodio divertente? Mi piace questo metodo alla vecchia”, invece di fare una telefonata. Viaggi in treno anche solo per riportare poi una manciata di frasi.
Che dovesse essere un libro “di viaggio” è una cosa – assolutamente anti-economica, ovviamente – che ho capito quasi subito. Da un lato perché, è persino banale rimarcarlo, le interviste di persona vengono meglio di quelle al telefono o su Zoom: se fai quattrocento chilometri per parlare con una persona, avrai TUTTA la sua attenzione, e probabilmente coglierai dei piccoli particolari che altrimenti andrebbero perduti, mezze frasi che spesso sono più interessanti delle dichiarazioni ufficiali. A tutti dicevo: “È un libro, ma fa conto che sia un documentario fatto senza telecamere”. Poi, visto che le interviste le ho praticamente tutte realizzate tra luglio e settembre 2022, mi divertiva l’idea di sbattermi nella stessa caldazza estiva in cui il pubblico avrebbe poi letto (si spera) il libro l’estate dopo…

ⓢ Dopo esserci stato così a stretto contatto come definiresti Johnson Righeira? Da come lo racconti sembra un uomo abbastanza in pace con se stesso, nonostante gli alti e bassi della sua vita.
Come tutte le persone che hanno attraversato un grande successo e poi un lungo periodo di oblio – al quale comunque è elegantemente sopravvissuto – è estremamente concreto, pratico, e pure un po’ fatalista. Nel suo caso ricordiamoci che durante la stagione dell’oblio ci sono stati anche l’arresto e cinque mesi di galera per fatti di droga cui poi verrà dichiarato estraneo: il genere di esperienza dopo la quale forse diventi fatalista per forza. Non sono sicurissimo che sia completamente in pace con se stesso: per certi versi credo si rimproveri ancora che avrebbe potuto giocarsi meglio i primi anni di grande successo – gestire meglio la popolarità, i soldi, e soprattutto fare dei Righeira una band “seria”, come potevano esserlo i Krisma. Poi, certo, sull’altro piatto della bilancia c’è il fatto che almeno tre canzoni che ha scritto sono diventate modi di dire letteralmente immortali, e quello sicuramente lo rende felice ogni volta che ci pensa. Comunque vedere il mondo dal punto di vista di una popstar è un’esperienza molto buffa, perché sono veramente persone di un altro pianeta. È come guardare una puntata di Succession: riconosci che i personaggi hanno una forma umanoide come la tua, ma non sembrano muoversi secondo le tue stesse leggi fisiche. Immagino cosa debba essere frequentare Sting.

ⓢ Ribaltando la prospettiva verso lautore, mi sono fatto lidea che il lavoro sia stato in qualche modo anche un lavoro su te stesso: oltre a scoprire e imparare tutto su quella canzone hai imparato anche delle cose su di te? Hai sistemato dei tasselli?
Non era previsto, ma in effetti sì: diciamo che è stato un chiudere il cerchio con la mia adolescenza – che era pure ora, visto che ormai sono più vicino ai 60 che ai 50. Non è un libro nostalgico – c’è molto amore per quel momento storico, ma nessun rimpianto e nessun “era meglio” – e non è un libro malinconico o meditabondo, tutt’altro, ma diciamo che a un certo punto mi son reso conto che gli stavano girando intorno un po’ di fantasmi, e così… beh, li ho lasciati entrare. “The Ghosts of My Life”, ma forse più nel senso di David Sylvian che in quello di Mark Fisher. Anche se credo che di questo – cioè dei fantasmi che abitano nel libro – se ne accorgeranno solo i lettori più âgé, quelli che hanno avuto a che fare con più fantasmi nella vita.

ⓢ Come sintetizzeresti la formula del successo di “Vamos a la playa?
Era una collisione sulla carta impossibile tra una coppia di electro-punk futuristi di appena vent’anni appassionati dei D.A.F., e una coppia di super-produttori disco trentenni che venivano da milioni di copie vendute [i fratelli La Bionda, nda]. Due storie personali diversissime, due attitudini rispetto al mondo che non potevano essere più differenti: eppure i La Bionda erano affascinati dalla stranezza dei Righeira, e – cosa ancora più incredibile, se valutata coi parametri dell’industria dell’intrattenimento di oggi (ma pure degli anni Ottanta) – furono sempre molto rispettosi dei loro input. Cioè, non fu una semplice usucapione di due idee buone da parte della coppia di produttori galattici, alla Trevor Horn con i Frankie Goes to Hollywood: i La Bionda lavorarono davvero per “ottimizzare” le intuizioni di Johnson. Poi, certo, avevano un gusto per il pop che fece mille volte la differenza.

ⓢ Era la canzone giusta al momento giusto?
Ah, quello sicuramente. Ma fu anche frutto di una serie di coincidenze che potremmo quasi chiamare “magiche”: i fratelli La Bionda che, nati nella Sicilia rurale, si trasferiscono bambini a Milano perché al loro padre viene offerto un lavoro in fabbrica, e lì scoprono la musica; un’amica di Johnson e Michael che trova lavoro a Milano, e per caso conosce i La Bionda; i La Bionda che pensano ai Righeira come a delle possibile star televisive, al punto che “Vamos a la playa” fu letteralmente un ripiego dopo che il programma tv che doveva partire in realtà non partì; quello che doveva essere il primo produttore di “Vamos a la playa” (Oderso Rubini) che nella stessa settimana riceve anche il demo di “Self Control” di Raf… È una storia a incastri meravigliosa. Se le vedessimo in un film di Netflix diremmo che gli sceneggiatori hanno esagerato con le coincidenze.

ⓢ Te lo chiedo anche perché i Righeira come cosa enorme in fondo sono durati poco tempo. E prima dicevi una cosa cui non avevo mai pensato: che non sono riusciti a diventare una band “seria” come i Krisma. Secondo te come mai? Insomma quali furono i limiti del progetto?
Bisogna sempre ricordare che i Righeira, quando sono esplosi, erano due ragazzi di vent’anni che vengono catapultati dentro uno stardom di dimensioni planetarie. E com’è ovvio non sono pronti a gestire quella botta: non tanto la fama e il denaro (anche quelli, in realtà), ma soprattutto il fatto di dover scrivere delle hit, perché è quello che il mercato vuole da loro. Non hanno né il tempo né lo spazio di pensarsi diversi da una macchina da hit, né tantomeno di decidere “cosa” essere. Sarà questo a farli implodere dopo i primi due album: ma a onor del vero va loro riconosciuto che molti dei pezzi considerati “minori” – fondamentalmente perché non furono delle hit – contengono delle intuizioni molto solide. E al di là dello stress da prestazione che li ha consumati, va comunque detto che la loro situazione era sotto molti punti di vista ideale, da sogno: avevano letteralmente a loro disposizione tutta la tecnologia e la creatività dei La Bionda, che ottimizzavano e valorizzavano ogni loro spunto. E infatti si sente, in pezzi come “Disco volante” e “Gli parlerò di te”.

ⓢ Oggi non sarebbe più possibile un tormentone così pervasivo come “Vamos a la playa”. È per via della frammentazione del pubblico?
Sicuramente la frammentazione del pubblico – il fatto che ogni gruppo anagrafico, e forse ciascuno di noi individualmente, abbia la sua “canzone dell’estate” – è il primo elemento che rende impossibile, oggi, un caso di trasversalità altrettanto macroscopico. Il paradosso è che quello che era stato il vero superpotere di “Vamos a la playa” – cioè la sua onnipresenza sulle radio, in tv, nei jukebox – è oggi lo stato naturale di qualsiasi canzone. Eppure ci sembra che nessuna canzone “esista” veramente; eppure Geolier, in cima alle classifiche da sei mesi, durante il concertone del primo maggio sui social si prende botte di “Ma chi è questo?”. Siamo l’epoca in cui gente con un milione di follower è sconosciuta alla maggior parte delle persone: se non è un meraviglioso paradosso questo.

ⓢ Secondo te cosa resta di quel brano? Al di là di chi se lo ricorda, alle nuove generazioni è arrivato?
Ovviamente nei miei sei mesi di monomania righeriana ho chiesto a chiunque al di fuori della mia bolla abituale cosa ricordasse di “Vamos a la playa”, e direi che ha uno status tranquillamente paragonabile a “In ginocchio da te” o “I migliori anni della nostra vita”, cioè è in qualche modo familiare a tutti, anche se la maggior parte non la ricollega né al nome dei Righeira né al decennio Ottanta. Se inizi a canticchiarla, ci sono buone probabilità che almeno sette persone su dieci ti rispondano con “Oh, oh, oh, oh, oh”. Però lo spartiacque vero – come per il pop “classico” in generale – sarà di qui in avanti. Gli attuali genitori di treenni è possibile che ancora la cantino, per scherzare, ai loro bambini: quando gli attuali sedicenni – cioè gli autori del vero reset della cultura pop attualmente in corso – diventeranno genitori, probabilmente non se la ricorderanno più, o comunque per loro non avrà alcun senso. Forse qualche nonno la canterà ancora, tipo i tizi nei boschi di Fahrenheit 451.

ⓢ A questo proposito, come sintetizzeresti in poche frasi, come spiegheresti, senza che si debbano per forza leggere 300 pagine (che sappiamo che lattention span è quello che è) a un quindicenne di oggi, uno di quelli che a suon di streaming certificano il successo delle nuove popstar, completamente ignaro, perché Vamos a la playa” è stata un fenomeno così importante e significativo?
Ma non so mica se si debba per forza spiegare ai quindicenni “Vamos a la playa”… Fra l’altro credo che l’immagine di un mondo in cui “un’estate c’era una canzone che usciva da tutte le radio, da tutti i juke box, e tutti la conoscevano e tutti la cantavano”, a loro debba sembrare distopica più o meno quanto a noi lo sembra il loro scoprire “Running Up That Hill” di Kate Bush da quindici secondi di video di TikTok… E a questo proposito, i balletti dei Righeira nei promo tv europei di “Vamos a la playa” oggi farebbero ancora la loro porca figura. Sappiatelo, creator di TikTok: le figure allora longilinee di Johnson e Michael sembrano nate per il formato 9:16.