Attualità

Perché Valentine è l’oggetto di design assoluto

In attesa dell'inizio del Salone del Mobile, omaggio alla macchina da scrivere per eccellenza, nata dalla matita di Sottsass 50 anni fa.

di Serena Scarpello

«La portatile, oggi, diventa un oggetto che uno si porta dietro come si porta dietro la giacca, le scarpe, il cappello; voglio dire quelle cose alle quali si bada e non si bada, cose che vanno e vengono, cose che tendiamo a smitizzare sempre di più». Basterebbe sostituire la parola “portatile” con smartphone e la descrizione di Ettore Sottsass diventerebbe subito attuale. La citazione risale invece al 1968, anno di nascita della macchina da scrivere Valentine, e momento storico in cui il design inizia a essere vissuto come una cosa pop, non più alla portata di pochi eletti.

Un’ambizione che ritroviamo nei designer contemporanei che al Salone Internazionale del Mobile ogni anno espongono le loro idee più creative raccontandole con linguaggi sempre più diretti e coinvolgenti, e attraverso la commistione con altre discipline, il cibo, la moda, i media. Come ogni anno, la prossima settimana Milano si trasformerà in un gigantesco e diffuso concept store di design e cultura post-industriale in cui tutti si sentono coinvolti, in un modo o nell’altro.

Sottsass decise di rendere più semplice l’immagine di quell’oggetto in quanto già alla fine degli anni ‘60 l’elettronica stava dando i primi segni di una nuova applicazione e le macchine da scrivere portatili avevano una richiesta e un utilizzo molto minore  rispetto al passato (l’epoca della Lettera 22 o della Lettera 32). Così cambiò il materiale – che divenne plastica al posto di alluminio per la macchina e al posto del legno o del cuoio per la valigetta che la doveva contenere – e aggiunse una maniglia per renderne la presa ancora più agevole. Proprio grazie a questa intuizione, al suo design anticonformista (a cui contribuirono anche Albert Leclerc e Perry King) e ad una serie di campagne pubblicitarie capaci di costruire un’immagine nuova di un oggetto vecchio, che la Valentine divenne un prodotto di straordinario successo.

«La Valentine ha rappresentato il design assoluto, anche rispetto a tutti i modelli di macchina da scrivere che l’hanno preceduta», mi racconta Ferruccio De Bortoli con una certa nostalgia. «Per i giornali rappresentava una certa leggerezza, dopo tutti quegli anni di piombo e di inchiostro, in cui le redazioni erano romanticamente disordinate e inaccettabilmente attraenti, e in cui le vite stesse dei giornalisti erano inchiostrate: si fumava di continuo e al chiuso e lo stile di un articolo era direttamente correlato ai decibel prodotti dal battere a macchina. Oggi direi che è stato quello che la Brionvega è stata per le radio e le tv».

«Una macchina dal design libero che vuole generare qualcosa di bello e si stacca dalla solita ansia per la tecnica e dal mondo della meccanica», conferma Luciano Iorio, Presidente di Tecnologicamente, il Museo-Laboratorio nato dalla Fondazione Natale Capellaro per raccontare la storia industriale della Olivetti con l’obiettivo di promuovere la conoscenza dei valori dell’azienda e più in generale della cultura tecnico scientifica.

La stessa libertà di design che abbiamo ritrovato anni dopo nei primi dispositivi Apple ideati da Steve Jobs e disegnati con Jonathan Ive: prodotti dal design, che diventano un marchio di riconoscibilità al punto da non rendere più necessario il nome del brand (al massimo compare la mela morsicata ad indicarlo). «Ho imparato che le grandi aziende hanno a cuore l’estetica perché trasmette un messaggio su come l’azienda percepisce se stessa», sono parole di Jobs. Ma potrebbero essere anche di Olivetti.

La Valentine ha 50 anni ed è oggi più icona che mai: esposta al MoMa di New York,  nelle stanze della Galleria nazionale d’Arte moderna a Roma (con la mostra “Looking forward. Olivetti 110 anni di immagine”),  nelle librerie e nelle Biblioteche più belle del mondo, sotto i letti e dentro gli armadi dei collezionisti, ricercatissima dalle star (avete visto la puntata di Che tempo che fa in cui Fabio Fazio ne regala una a Tom Hanks che lo ringrazia quasi inginocchiandosi?). La macchina da scrivere è simbolo di un’epoca raccontata sui libri di Charles Bukowski – «Doveva scrivere a macchina. con la penna o la matita non ci riusciva. Gli piaceva il rumore a mitraglia dei tasti. L’aiutava a scrivere» – sui manifesti di Milton Glaser o sulle cover – opere d’arte di magazine da collezione.

Una sera ero a cena a Ivrea presso le Officine H – in origine il cortile interno delle Officine Olivetti, oggi sede di incontri culturali, spettacoli teatrali della grande tradizione e di innovazione multimediale – e mi sono imbattuta in un’opera di Folon, che oggi molti ricordano come l’ultimo cartellonista (o affichiste, come dicono i francesi) del Novecento. Per lui come per tanti altri artisti l’incontro con la Olivetti segnò una svolta della carriera.

In una sua memoria l’artista ricorda un incontro con Giorgio Soavi, Art director nell’ambito della Direzione Pubblicità e Stampa diretta da Renzo Zorzi: «Quando ero povero e sconosciuto [Soavi] ha visto i miei disegni e mi ha affidato un primo lavoro. “Fai qualche cosa con una macchina per scrivere”, ha chiesto. “Non so disegnare una macchina per scrivere”, gli ho risposto. “Puoi inventarla, se preferisci”. Ho incominciato il mio disegno. Su ogni tasto di un’immensa macchina per scrivere, qualcuno batteva a macchina. Come se il mondo non fosse stato che una macchina per scrivere. Come se delle persone non avessero altro da fare che battere su una macchina per scrivere. Giorgio ha detto che “era semplicemente geniale”».

La commistione delle arti nel caso della Valentine arriva fino alla musica. «Il nome Valentine è inglese, anche se non esiste documentazione scritta al riguardo» mi spiega Enrico Capellaro, per 40 anni dipendente della Olivetti di Ivrea «Alcuni mesi fa Giorgio Colombo, un fotografo che lavorava nello studio di Ettore Sottsass, mi disse che il nome fu dato dallo stesso designer prendendo spunto dall’opera musicale “My funny Valentine” composta nel 1937 per un musical e poi diventato uno dei pezzi del jazz più eseguiti nella storia». La canzone – eseguita negli anni da Miles Davis, Chet Baker, Ella Fitzgerald e Frank Sinatra – recita ad un certo punto: «Yet you’re my favorite work of art».