Attualità

Una guida alla Biennale

Ora che è passata l'inaugurazione e sono finite le feste, ecco cosa non perdersi della nuova Biennale di Venezia, ai Giardini e all'Arsenale.

di Sara Dolfi Agostini

Visitare Venezia durante la Biennale Arti Visive è come immergersi in uno spettacolare parco tematico temporaneo, non dissimile a quel conglomerato di paesi, storie e culture che Walt Disney concepì negli anni ’60 e chiamò Epcot, Experimental Prototype Community of Tomorrow. Un incubatore per celebrare le conquiste dell’uomo, tecnologiche e culturali, che quella mente geniale e visionaria descrisse come “una comunità del domani che non sarà mai completata, ma che perseguirà nell’introdurre e testare e dimostrare nuovi materiali e processi”. A Epcot, che dal 1982 è parte del Walt Disney World in Florida, ci sono undici paesi – Spagna, Italia, Messico tra gli altri – che si affacciano su un lago artificiale.

Nella laguna naturale di Venezia i paesi sono ottantotto quest’anno, e uniti agli oltre cinquanta eventi collaterali più o meno ufficiali costituiscono l’altra Biennale, quella in cui le voci si moltiplicano, i confini tra piani temporali e spaziali si sfumano e la città di Venezia scompare inghiottita in un portentoso horror vacui. Con un simile surplus di offerta, la parola d’ordine è scremare e concentrare l’attenzione su quelle proposte artistiche che non hanno una data di scadenza nella memoria, e in cui il clamore, quella sorta di nube di fumo tirata su dai media, non sia di gran lunga più interessante dell’iniziativa in se.

Zaatari, invece, con “Letter to a refusing pilot” ricostruisce la storia di un pilota israeliano che nel 1982 dissertò gli ordini di bombardare una scuola libanese, che si rivela essere quella diretta da suo padre

All’Arsenale, i padiglioni nazionali si insinuano nelle sale che seguono “Il Palazzo Enciclopedico” di Massimiliano Gioni, e sono due quelli che rispondono ai requisiti di questo viaggio veneziano. Vicini nello spazio fittizio dell’esposizione e in quello fisico del reale, Libano e Turchia si affidano rispettivamente ad Ali Kazma e Akram Zaatari. Il primo presenta “Resistence”, un progetto in cui attraverso il mezzo video declina gli usi e i vincoli cui sottoponiamo il nostro corpo, superficie di un io nascosto, talvolta compiaciuto, più spesso mercificato o costretto in un reticolo di codici culturali e sociali che ne determinano il rapporto con il mondo.

Zaatari, invece, con “Letter to a refusing pilot” ricostruisce la storia di un pilota israeliano che nel 1982 dissertò gli ordini di bombardare una scuola libanese, che si rivela essere quella diretta da suo padre. Una vicenda personale che si intreccia con la storia e permette all’artista di soffermarsi su come l’etica del singolo, le sue motivazioni, si integrino o si discostino da quella collettiva, generando spazi di libertà in un paese incastrato in una guerra perenne.

A pochi passi dall’Arsenale il padiglione congiunto di Lituania e Cipro trova ospitalità nel Palasport Giobatta Gianquinto, un pachidermico parallelepipedo in cemento e forma modernista. Le opere di dieci artisti – tra cui Gabriel Lester e Gintar Didziapetris – si dispiegano negli ambienti animati giornalmente da giovani atleti e ginnaste, derivando il proprio significato dall’interazione con uno spazio vivo e in continua trasformazione.

Ai Giardini, il percorso si intensifica. Mark Manders ha tappezzato l’ingresso del padiglione olandese con pagine di giornale fittizie che isolano “Room with Broken Sentence”, un ecosistema di sculture le cui sembianze antropomorfe collidono con un uso della materia ambiguo e fuorviante: il legno è in realtà bronzo, la creta è una resina. La sensazione è quella di attraversare un’enigmatica esegesi dei rapporti e delle tensioni proprie della realtà quotidiana, senza essere tuttavia sottoposti a quel nugolo di distrazioni sensoriali di colori, odori e rumori che ci trattengono dal raggiungere la profondità delle cose.

Al ramo opposto del parco, nel padiglione tedesco che quest’anno ospita la Francia, Anri Sala realizza “Ravel Ravel Unravel”, un’installazione video in tre capitoli in cui il celebre “Concerto per la mano sinistra in Re Maggiore”, concepito da Maurice Ravel per il fratello del filosofo Ludwig Wittgenstein che aveva perso l’arto destro durante la prima guerra mondiale, diventa l’occasione per indagare il ruolo decisivo dell’interpretazione nell’arte e le potenzialità del linguaggio di un medium in dialogo con il corpo dell’artista e con lo spazio dello spettatore. Accanto, c’è “English Magic”, il padiglione della Gran Bretagna di Jeremy Deller. Un ritratto della società inglese che trasforma il padiglione in una macchina del tempo dove folklore, arte e politica dialogano sullo stesso piano senza risparmiare attacchi a protagonisti eccellenti come Tony Blair o il principe Harry.

An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale” è una reinterpretazione di opere presentate nelle precedenti edizioni della kermesse mediata dal corpo di un gruppo di performer

Attraversato il canale lagunare si incontra la Romania, rappresentata da Alexandra Pirici e Manuel Pelmuş, che accolgono gli spettatori in un ambiente scarno e all’apparenza vuoto. Geniale nella sua semplicità ed efficacia, il progetto “An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale” è, infatti, una reinterpretazione di opere presentate nelle precedenti edizioni della kermesse mediata dal corpo di un gruppo di performer. Magnetiche, tra le altre, sono le ironiche traduzioni delle fotografie murali di Cindy Sherman e delle composizioni di Robert Rauschenberg. Al lato, il padiglione greco accoglie “History Zero”, un’opera in tre episodi di Stefanos Tsivopoulos che interroga il valore del denaro nella formazione delle relazioni umane intrecciando le storie di un immigrato, una collezionista e un artista in cerca di idee.

Il viaggio prosegue nei dintorni dell’Accademia, dove la Fondazione Cini ospita l’Angola, che ha celebrato il suo esordio veneziano con il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale. Il padiglione si articola su due piani in un percorso espositivo arricchito da una preziosa collezione di dipinti di Dosso Dossi, Ercole de Roberti e Sandro Botticelli. Al cuore del progetto la volontà di riflettere sui dettami della rappresentazione di un paese attraverso due visioni diverse e per certi versi antitetiche: quella del Ministero della Cultura, che si è affidato ad artisti angolani che imitano pedissequamente le ricerche delle neoavanguardie occidentali; e quella dell’organizzazione no profit londinese Beyond Entropy, che ha affidato al fotografo di origini angolane Edson Chagas il compito di concepire un’enciclopedia per immagini del paese attraverso scarti e detriti urbani.

A completare questa rassegna nel circuito off dei padiglioni è la Bosnia Erzegovina, che torna dopo dieci anni a Venezia con Mladen Miljanovic al primo piano di Palazzo Malipiero, fronte a Palazzo Grassi. Ispirato da “Il Giardino delle Delizie”, dipinto rinascimentale di Hieronymus Bosch conservato oggi al Museo del Prado, l’artista mette in campo una riflessione in più atti sul tema del desiderio, declinato in un’esperienza sensoriale – visiva, tattile e acustica – che trova la sua sintesi in un diagramma murale all’inizio del percorso.

L’ultima tappa non rientra nella programmazione della Biennale: trattasi, infatti, della Fondazione Prada, che a Venezia ha la sua sede a Cà Corner della Regina, uno straordinario palazzo settecentesco affacciato su Canal Grande e non distante dall’università Iuav e dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro. Il progetto espositivo è un remake di Live in Your Head. When Attitudes Become Form, la seminale mostra curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969 che per la prima volta mappava le più sperimentali ricerche artistiche di quegli anni, sancendo la preminenza del processo sull’oggetto d’arte. Germano Celant, direttore artistico della Fondazione Prada, coadiuvato nell’impresa dell’architetto Rem Koolhaas e dall’artista Thomas Demand, ha ricostruito filologicamente la pianta degli spazi della Kunsthalle, recuperato le opere e ricercato negli archivi, dando vita a un magistrale ready made espositivo. Un’occasione irripetibile per rivivere un pezzo di storia, che continua nelle calli veneziane con i manifesti a strisce con cui Daniel Buren tappezzò Berna in un impeto di protesta per essere stato escluso da quella mostra che, come aveva prontamente intuito, cambiò per sempre il corso dell’arte.

 

Immagini: Mladen Miljanovic, “The Sweet Simphony of Absurdity” (scatto di Drago Vejnovic); Mark Manders, “Room With Broken Science”; Jeremy Deller, “English Magic”