Attualità

Un libro per l’estate

Da città, da spiaggia, da villa in campagna; romanzi, racconti, epistolari, fiction. Redattori, collaboratori e amici di Studio consigliano un libro da leggere quest'estate. Con ricca motivazione.

di Aa.Vv.

L’estate è iniziata da un pezzo, c’è chi al mare ci è già andato, chi dal mare è già tornato, chi aspetta ancora di andarci e chi non ci andrà fino all’anno prossimo. Per tutti questi tipi di vacanzieri abbiamo pensato a una rubrica di consigli librari, ovvero, semplicemente: cosa leggere questo agosto, o questo settembre. Abbiamo chiesto a redattori, firme di Studio, amici di consigliarci un titolo: alcuni hanno pensato a un titolo adatto alla metropoli vuota e accaldata, altri al famoso e antonomastico ombrellone sotto cui leggere. Ecco qui la lista condita da motivazioni: buona lettura e, nel caso, buoni acquisti.

Giuseppe Rizzo – Rachel Kushner, I lanciafiamme, Ponte alle Grazie

L’estate è la più crudele delle stagioni: il trentenne single ha l’ansia di coricarsi con qualcuno, non può fare male figure; la trentenne uguale, con qualche progetto per settembre che il trentenne non ha. Perciò in vacanza bisogna tenere conto anche di quello che si legge. Il libro per millantare entrature tra i fichissimi è I lanciafiamme di Rachel Kushner (Ponte alle grazie). Tenetelo con la quarta di copertina in alto, così da far leggere i giudizi di Jonathan Franzen («Il libro più bello che ho letto quest’anno») e del New Yorker («Brace rovente»). Repubblica ci mette il carico, caricando il ridicolo: «Il grande libro sugli anni Settanta in Italia lo ha scritto un’americana». Bum. Più andrete avanti nella lettura, più scoprirete che l’americana ha scritto una bella storia di formazione e amore nella New York degli anni Settanta, con una protagonista femminile leziosa e affascinante, motociclista con velleità artistiche; e un pessimo romanzo sul terrorismo italiano. Se uno di noi avesse immaginato le Br rapire un personaggio dello spettacolo per poi liberarlo; o scritto che tutti in quei giorni avevano una pistola; ovvero pensare che San Lorenzo a Roma fosse la centrale dell’eversione; se uno di noi avesse scritto una cosa del genere, un altro gli avrebbe detto Ma cosa sei, un’americana tutta mossette e bella scrittura? Il trentenne e la trentenne nicchieranno e svolteranno l’estate. Il libro da leggere da soli è Salinger. La guerra privata di uno scrittore (Isbn) di David Shields e Shane Salerno. Ottocento pagine e decine di interviste e immagini e documenti inediti per ricostruire la vita storta e ossessiva e piena di lampi di grazia di uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Uno di quei libri, una di quelle vite, che ti tolgono la cialtronaggine di dosso a suon di frasi come questa: «Ho la testa piena di cravattini neri. Appena li trovo cerco subito di buttarli fuori».

Michele Masneri – Curzio Malaparte, Kaputt, Adelphi

Uscito esattamente settant’anni fa (1944). Il nostro unico Preghiere Esaudite, con pettegolezzi d’epoca con nomi e cognomi della Roma anni Quaranta: «È un libro crudele. La sua crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell’Europa in questi anni di guerra» secondo il suo autore. Ma le crudeltà migliori sono quelle al golf club dell’Acquasanta, tra principi e ambasciatori molto più spiritosi di quelli di oggi. Che leggono libri, addirittura. «Peccato che l’Italia non abbia uno scrittore come Cecil Beaton» dice a un certo punto la principessa Jane di San Faustino; «Gli scrittori italiani sono provinciali e noiosi». «Potreste immaginare un libro su Roma scritto da Cecil Beaton?» risponde l’autore-Malaparte. «Perché no» risponde Dorothy di Frasso – altra principessa appena importata dagli Usa – «in quanto a pettegolezzi, Roma non ha niente da invidiare a New York. Pensate a quelli sul Papa e sul Vaticano». Jane di San Faustino era la nonna di Gianni Agnelli, che Malaparte aveva conosciuto a Forte dei Marmi, spostato dal precedente esilio grazie a Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e primo genero d’Italia. In Kaputt, soprattutto ascesa e declino di Ciano, eterodiretto dalla principessa Isabel Colonna, nata libanese, dinastia di speculatori e trafficoni, “di furbizia orientale” si direbbe oggi con gergo da procura. I due sono protagonisti degli intrighi di una Roma tra Downton Abbey, con ereditiere americane a salvare pericolanti casati almeno millenari, e House of Cards, seppur senza fumare sigarette di coppia affacciati a una finestra di palazzo Colonna. E lord Perth, ambasciatore britannico nella capitale: «Che straordinaria città è Roma. Tutto diventa materia di leggenda. Anche il pettegolezzo mondano».

Ivan Carozzi – Giacomo Leopardi, Questa città che non finisce mai. Lettere da Roma, UTET

Non c’è mai davvero un viaggio, la conoscenza di un luogo, se l’esperienza non si lega alla lettura di un libro. Parlo per me, naturalmente. Sono stato spesso a Roma, negli ultimi mesi. O meglio in un dolce quartiere alla fine di Roma, con i marciapiedi pieni di mozziconi, santini di Antonio Tajani, cacche gialle di gabbiano sulle selle degli scooter: insomma, pagine di Walter Siti esattamente riprodotte. Ma non è di Siti che voglio parlare. Una notte, l’autobus su cui stavo viaggiando si è fermato, rantolando. Come spento, morto. L’autista si è acceso una sigaretta e ha disteso una gamba sotto il volante, con una faccia che era una battuta di Flaiano. Avevo con me le Lettere da Roma di Giacomo Leopardi, scritte tra il 1822 e il 1832, appena ripubblicate per UTET con un saggio di Emanuele Trevi. A Roma Leopardi soffre. Non ama la città. Troppo grande – «Questa città che non finisce mai» – e faticosa. Ardendo, Leopardi si strugge anche per le romane, per il fatto che non si combina «niente nientissimo più che a Recanati». E poi «non la danno (credetemi)». Ma il rapporto di Leopardi con Roma è anche altro. Se dentro Leopardi brucia il cosmo, Roma è invece cartapesta, chiacchiere, grande bellezza. Così come lo sono i letterati romani del tempo. Come non vedere in questa scansione, pure un po’ di 2014? Facebook, Twitter. Polemica barocca e continua messa in scena. Almeno, per quanto mi riguarda, non ho potuto non pensarci.

Cristiano de Majo – Martin Amis, La vedova incinta, Einaudi

Mi sono convinto che un libro per le vacanze da consigliare debba a tutti i costi essere un libro che ha che fare con l’estate o le vacanze quindi non dirò: I fratelli Karazamov o l’Ulisse. Dei romanzi letti negli ultimi anni, me ne ricordo soltanto due ambientati durante l’estate. Uno è Il Terzo Reich di Bolaño. L’altro è La vedova incinta di Martin Amis. (Ci sarebbero anche i racconti de Le piccole vacanze di Arbasino in realtà). Devo dire che il romanzo di Amis vince il confronto col passare del tempo. È un libro a cui ripenso spesso e di cui ho più volte riletto pezzi. Addirittura mi sento di dire a chi non l’ha letto che è uno dei migliori e più riusciti romanzi di questi anni. La scrittura di Amis è sempre straordinariamente ricca e potente, ma qui sembra finalmente al servizio di una storia sensata e universale. Siamo nel 1970, Keith e la sua fidanzata Lily, ventenni, trascorrono un’intera estate ospiti di un castello in Campania di proprietà della famiglia di una loro amica, l’aristocratica Scheherazade. Il romanzo è ambientato quasi tutto dentro il castello, tra la piscina, dove Scheherazade si esibisce in indimenticabili topless e le grandi stanze da letto. Al centro: il desiderio. Il desiderio come metafora della giovinezza. Oppure: la giovinezza e il desiderio come metafore della nostalgia. Sullo sfondo: l’incidenza dei cambiamenti sociali – la liberazione sessuale degli anni Sessanta-Settanta – sul piano personale. E ancora più sullo sfondo: la geografia mediterranea come latitudine erotica.

Marco Rossari – Aimee Bender, La maestra dei colori, minimum fax

La scelta dei libri per le vacanze è così delicata che di norma si tende a portarne in quantità abnome, come se agosto potesse durare tre anni. (E al ritorno i libri scadono davvero: inacidiscono, mettono la muffa, non puoi nemmeno guardarli.) Non è un mese: è un contenitore favolistico, un vuoto senza horror, un’idea. Finalmente puoi rimetterti in pari con i classici: l’ultimo tassello di Balzac; I Viceré!; l’epistolario di Joyce; quel saggio su Spinoza che nel bailamme settimanale è scivolato dalle tue mani sonnolente un numero imprecisato di volte. Insomma, lo scibile umano che poi una volta in spiaggia verrà accantonato per un thrillerone di James Patterson, recuperato sullo scaffale del bookcrossing, da leggere offuscati di margarita. Ok, ma ancora più delicato è il libro da leggere prima di partire. Il tempo è agli sgoccioli: scadenze lavorative, commissioni da sbrigare, amici da vedere (“Sei partito senza salutarmi” peggio di “Quello è l’internocoscia di mia moglie”). E allora scegliere diventa un’impresa. Un romanzo lungo è improponibile. Uno corto? E se poi lo finisci in una sera e restano ancora due giorni liberi prima dell’aereo o del treno, dove aprirai una buona volta Horcynus Orca? Orrore. Lì si accoccola la tanto vilipesa raccolta di racconti: gestibile e centellinabile, fa le fusa. Avevo letto Aimee Bender anni fa e mi aveva lasciato perplesso. Ci sentivo del compiacimento e tanta scuola di scrittura creativa. Ma chissà chi era quell’io targato 2003. Ci ho riprovato con La maestra dei colori (traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, pp. 258, € 15) e questa volta, prima di partire, ci sono affondato con il meraviglioso spaesamento di una città semideserta. Sarte che devono ricucire le tigri; bambini che non riescono più a decifrare le facce degli altri; pomeriggi al mall (“Limonata”: un racconto dove non succede niente, eppure è il più bello di tutti); madri che, non riuscendo a dormire più di un’ora, vengono invase dai sogni durante la veglia, e tanto altro. Quindi scegliete il vostro Thomas Mann per le vacanze e abbandonatelo per la Settimana Enigmistica. Aimee Bender è lì che vi attende serafica. Nel vuoto prima o dopo la partenza. Racconti. Uno dopo l’altro. Si possono leggere anche con il margarita. Parlano di noi.

Vincenzo Latronico – Michele Mari, Roderick Duddle, Einaudi

Consiglierei assolutamente Roderick Duddle, di Michele Mari. L’ho risfogliato, per decidere cosa scrivere a motivare la mia scelta. Uno dei primi capitoli inizia così:
Uomo pratico e accorto, lord Pemberton (il terzo dei Pemberton a portare il nome di Edward) si trovò erede di un’immensa fortuna, ciò che lo aiutò a dimenticare presto i genitori. Anzi incominciò quasi subito a pensare a se stesso come genitore, di più: come capostipite di lunga e illustre prosapia, non più ramo nell’intricata genealogia dei rami, ma ceppo di un nuovo e glorioso albero. I suoi avi, al massimo, potevano essere considerati come oscure radici nascoste nel suolo. Così, al momento di prendere moglie, preparò un elaborato contratto matrimoniale, con il quale la futura consorte si impegnava formalmente a non risposarsi dopo l’eventuale e prematura di lui dipartita. In questo modo i suoi figli, che immaginava in numero variabile da due a quattro, e tutti maschi, non sarebbero stati adombrati dalla concorrenza di un bastardo, e il chiaro nome dei Pemberton non avrebbe dovuto temere che una cinica combinazione di onorevoli cadute sul campo e crudeli malattie provocassero un deplorevole slittamento dinastico. Così dunque si fece: lord Pemberton convolò a nozze con la signorina Louise Winnicott, nel giro di qualche anno ebbe una figlia femmina e un figlio maschio, dopodiché morì nel fiore dell’età per un insulto apopolettico, fine poco acconcia per chi amava pensarsi sotto la specie di un vigoroso ceppo di quercia.
Non mi viene da aggiungere altro.

Davide Coppo – Joan Didion, Diglielo da parte mia, e/o

Durante l’estate tendo a voler leggere libri estivi, e allora un libro che mi sento di consigliare per l’estate, immagino da leggere in spiaggia, al mare, al bar del mare, nella casa al mare, è un libro ambientato in estate, al mare, con case al mare e bar al mare. È Diglielo da parte mia di Joan Didion. Ho sempre trovato Didion una scrittrice molto estiva, anche se questo non significa che sia leggera, anzi. Molte cose mi piacciono di Diglielo da parte mia: il fatto che sia ambientato in una città di fantasia, Boca Grande, capitale di uno stato di fantasia dell’America Latina; il fatto che la protagonista sia una donna molto bella, molto fatale, naïf come molte donne create da Didion, un po’ distrutta, un po’ maledetta, inaspettata (è difficile creare un personaggio inaspettato, che fa cose inaspettate); le immagini e i colori di questi tropici decadenti come tutti i nostri tropici, certamente tristi, affascinanti e governati da un governo fantoccio in cui Charlotte Douglas, la nostra donna, è o era implicata nonostante sia nordamericana: «Per quattro mesi non aveva fatto che andare da un aeroporto all’altro, per capirlo bastava guardare i visti sul suo passaporto. Tutti quegli aeroporti dov’erano stati apposti timbri sul passaporto di Charlotte Douglas dovevano esserle parsi uguali. A volte l’insegna sulla torre di controllo diceva “Bienvenidos” e a volte l’insegna sulla torre di controllo diceva “Bienvenus”, c’erano posti caldi e umidi e altri caldi e secchi, ma in ciascuno di quegli aeroporti i muri di calcestruzzo color pastello erano scrostati e chiazzati e l’acquitrino ai lati della pista era costallato da rottami di fusoliere Fairchild F-227 e bisognava far bollire l’acqua». E di cosa parla? Di Charlotte e del suo passato, del perché è a Boca Grande e del perché sta sprofondando insieme a Boca Grande, un enorme umido mondo che sprofonda in silenzio tra decadenza e corruzione e atmosfere noir. Quello che dovete sapere in fatto di eventi della vita di Charlotte (matrimoni, nascite, divorzi, morti) ve lo spiega Didion nelle prime dieci righe. Il resto del libro spiega il perché, dalla solitudine agli uomini alla figlia al terrorismo alla pazzia a Boca Grande ai colpi di stato di Boca Grande agli Stati Uniti alla morte.

Marta Casadei – Peter Cameron, Andorra, Adelphi

Io, che di Cameron amo tutto – i non detti, i luoghi e le atmosfere sempre raffinate, i sottintesi spesso angoscianti, il vocabolario puntuale e le frasi pulite che non indugiano troppo sulla bella scrittura – ho letto Andorra (Adelphi, 2014) con un po’ di riserve: è il suo primo lavoro, mi dicevo, sarà acerbo, ancora un po’ indeciso. E invece no: è proprio Peter Cameron, lui con le suggestioni e gli stilemi che avete trovato nei suoi più grandi successi, in 236 pagine ambientate in una specie di Isola che non c’è. L’autore di Quella sera dorata (Adelphi, 2006), Un giorno questo dolore ti sarà utile (Adelphi, 2007) e Coral Glynn (Adelphi, 2012) crea un luogo nuovo, personale e impersonale allo stesso tempo perché crocevia di expat dal passato oscuro che lì ad Andorra, luogo dove tutti sono cittadini purché lì vivano, si incontrano senza svelarsi troppo. Dovendo però fare i conti con una serie di circostanze che porteranno a uno svelamento progressivo e impietoso, quasi crudele. Il primo della lista è Alex Fox, un protagonista che riserva non poche sorprese, cui ruotano attorno coppie enigmatiche, vecchie signore con la passione per la lettura, giovani ricche e omicidi. Romanzo perfetto per chi ama i luoghi fuori dal comune (anche se non sono veri), le nuotate e i diari rilegati.

Cesare Alemanni – John Williams, Butcher’s crossing, Fazi

Quella del libro da portare in vacanza è una scelta molto delicata quindi non mi dilungherò in elogi soggettivi di questo romanzo e mi limiterò ad alcune ragioni per cui dovreste prenderlo in considerazione: 1) Se avete letto e amato Stoner dello stesso autore, 2) Se avete letto e amato Train Dreams di Denis Johnson, 3) Se Cormac Mc Carthy è uno dei vostri 10 scrittori preferiti, 4) Insomma, se il western è il vostro genere, 5) Se la letteratura (americana) urbana contemporanea vi ha stufato, 6) Se la vostra meta è uno stato rurale degli Usa, 7) Se la vostra meta ha una densità abitativa molto, molto, molto bassa ed è molto, molto, molto verde (vi aiuterà a immedesimarvi), 8) Se la vostra meta ha una densità abitativa troppo, troppo, troppo alta ed troppo, troppo, troppo costruita (vi aiuterà a isolarvi ogni tanto), 9) Se ricercate la sensazione di essere “riempiti” da una storia, e scusate ma non so dirlo meglio di così. In alternativa: Karoo di Steve Tesich (Adelphi), cinico e spassoso, si porta bene quest’estate come La Versione di Barney anni fa. Storm Kings di Lee Sandlin (Random House), se la visione adolescenziale di Twister ha alimentato in voi un’interesse per i tornado abbastanza robusto da reggere per 300 pagine, scritte da un saggista dotato ma non notissimo che pare il fratello smilzo di George R.R. Martin.

Mattia Carzaniga – Steve Tesich, Karoo, Adelphi

Adelphi non solo fa libri che stanno bene in libreria (l’ospite col bicchiere di bianco in mano apprezza sempre): spesso tira fuori capolavori passati che qualcuno ha creduto noi italiani non ci meritassimo, e non c’aveva manco tutti i torti. Il 2014 è l’anno di Karoo di Steve Tesich, sceneggiatore vincitore di un Oscar (per All American Boys, in originale Breaking Away: recuperatelo nei vostri cineforum casalinghi estivi), scritto nel ’96, pubblicato postumo nel ’98, da noi arrivato solo adesso. È la storia, guarda un po’, di uno sceneggiatore (no: un riscrittore di copioni altrui) che vorrebbe dichiararsi alcolista ma non riesce più a ubriacarsi, che vorrebbe credere nell’amore ma è fregato dal materialismo, che vorrebbe scrivere il Grande Romanzo Della Vita ma trova sempre qualcosa a bloccarlo: fondamentalmente, il lucido senso della sua stessa mortalità. Che poi è la nostra. Un libro immenso e immensamente esilarante, infallibile, nichilista, spietato verso chi scrive e chi legge. In tempi di happysmo a tutti i costi, un balsamo. (Ora che ci penso, è bellissima pure la copertina: quasi quasi lo uso come table book in salotto.)

Davide Piacenza – Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi

Sarò il meno originale del gruppo, ma il libro di Piccolo – oltre al premio Strega, oltre agli editoriali, ai commenti, alle repliche, alle sedute di autocoscienza e a no, il dibattito no – è qualcosa che vale la pena leggere. Perché nel bambino che salta la recinzione della reggia di Caserta, nel ragazzino che diventa comunista al goal di Jürgen Sparwasser e si allontana inesorabilmente dal padre, nel ragazzo impietrito a un livello quasi mistico davanti alle immagini del funerale di Berlinguer e nell’uomo che si oppone ciecamente e poi accetta il berlusconismo c’è buona parte della storia italiana, e quindi giocoforza anche un po’ di noi lettori. Perché Piccolo ha il merito di scelte stilistiche efficaci, che trasmettono senza troppi filtri crismi, fisime e contraddizioni degli anni di cui è stato testimone. Perché il capitolo dedicato al trattamento da lui riservato ai partecipanti di un’iniziativa della fu Alleanza nazionale trasuda rimorso sincero e, per me, encomiabile. Perché a fare bilanci sono capaci tutti, ma farli onesti è un’altra cosa. Perché al di là di tutto, Il desiderio di essere come tutti è un resoconto franco, critico, intelligente. E ha il merito impareggiabile di provare empiricamente che stare «sempre dalla stessa parte» è un pregio solo nelle canzoni di De Gregori.

 

Nelle immagini, librerie Billy Ikea sulla spiaggia di Sydney. Lisa Maree Williams / Getty Images