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09:43 domenica 13 luglio 2025
I Talebani hanno fatto un assurdo video promozionale per invitare i turisti americani a fare le vacanze in Afghanistan Il video con la sua surreale ironia su ostaggi rapiti e kalashnikov, mira a proporre il paese come meta di un “turismo avventuroso”.
Justin Bieber ha pubblicato un nuovo album senza dire niente a nessuno Si intitola Swag e arriva, a sorpresa, quattro anni dopo il suo ultimo disco, anni segnati da scandali e momenti difficili.
Damon Albarn ha ammesso che la guerra del Britpop alla fine l’hanno vinta gli Oasis Il frontman dei Blur concede la vittoria agli storici rivali ai fratelli Gallagher nell’estate della loro reunion.
La nuova stagione di Scrubs si farà e ci sarà anche la reunion del cast originale Se ne parlava da tempo ma ora è ufficiale: nuova stagione in produzione, con il ritorno del trio di protagonisti.
La danzatrice del ventre è diventato un mestiere molto pericoloso da fare in Egitto Spesso finiscono agli arresti per incitazione al vizio: è successo già cinque volte negli ultimi due anni, l'ultima all'italiana Linda Martino.
Ferrero (e la Nutella) va così bene che starebbe per comprare la Kellog’s Per una cifra che si aggira attorno ai tre miliardi di dollari. Se l'affare dovesse andare in porto, Ferrero diventerebbe leader del settore negli Usa.
Il cofanetto dei migliori film di Ornella Muti curato da Sean Baker esiste davvero Il regista premio Oscar negli ultimi mesi ha lavorato all’edizione restaurata di quattro film con protagonista l’attrice italiana, di cui è grandissimo fan.
Nell’internet del futuro forse non dovremo neanche più cliccare perché farà tutto l’AI Le aziende tech specializzate in AI stanno lanciando nuovi browser che cambieranno il modo di navigare: al posto di cliccare, chatteremo.

Trovare la pace in una chat privata

Slack è un'app concettualmente agli antipodi rispetto all'Internet della condivisione di Facebook e Twitter, e sta avendo un successo enorme. Perché?

28 Agosto 2015

Negli ultimi anni abbiamo iniziato a porci seriamente il problema degli effetti che quell’ecosistema che chiamiamo “Web” ha su noi stessi come società e come individui, a ogni livello. E così c’è stato chi si è chiesto se la Rete ci rende stupidi, chi ha indagato se ci rende o meno liberi. Ma un aspetto su cui forse non si è ancora riflettuto abbastanza è come l’architettura costitutiva dei social network ci ha reso dei personaggi pubblici. Scrivere un tweet su Twitter o un post su Facebook espone a un numero di interazioni teoricamente esponenziale, una risorsa intuitivamente positiva (non si contano le giuste lodi al ruolo dei social network nel catalizzare e facilitare le rivolte delle Primavere arabe del 2011, per fare un esempio ampiamente discusso), ma anche una potenziale fonte di rischi.

La viralità non è “buona” o “cattiva”, ma le conseguenze dell’avere un’identità pubblica esposta sono tangibili

La viralità non è necessariamente “buona” o “cattiva”, ma le conseguenze dell’avere un’identità pubblica costantemente esposta sono tangibili, e ormai parte integrante della nostra vita quotidiana: quanto spesso rispondiamo a quella peculiare urgenza di postare qualcosa sui nostri profili personali con l’autocensura, temendo che il pubblico che ci legge possa fraintendere il nostro post o usarlo per prendersela con noi, oppure che ciò che abbiamo in mente non sia abbastanza interessante? Quante volte quel pubblico ha frainteso per davvero? Trovarsi in apprensione per la propria identità online è una situazione comune a molti – basta un messaggio controverso, un troll particolarmente ostinato o un malinteso prolungato – e la reputazione sul web, una versione giocoforza deformata di quella offline, è di frequente un problema di cui tenere conto. Come lo scrittore Navneet Alang ha sostenuto in un recente pezzo uscito su New Republic, «ci stiamo lentamente abituando a questa nuova versione di identità pubblica, un sé che può essere replicato istantaneamente e globalmente con tutti i suoi difetti — ed è estenuante».

Alang, come altri, si dice stanco delle dinamiche che tramutano l’idillio del social network in una terra ansiogena di gogne mediatiche, timori di abusi declinati su scale di migliaia di utenti e onnipresenti malintesi. Per far fronte al problema senza abbandonare l’uso quotidiano del web (esiste ancora un web discorsivo e fatto di scambi reciproci e condivisione al di là di Facebook e Twitter?), l’autore scrive di aver iniziato a usare Slack, una piattaforma che offre un servizio professionale di chat per i team che lavorano insieme nelle aziende. La particolarità di Slack, che sembra una versione modernizzata del vecchio protocollo IRC, va ontologicamente in senso opposto rispetto ai servizi che hanno conquistato Internet: i gruppi di conversazione sono privati, e i messaggi inviati rimangono consultabili soltanto dagli utenti approvati dall’amministratore. Alang, che si è iscritto a una chat di scrittori e accademici, arriva a estremizzare il dilemma che gli sovviene ogniqualvolta vuole condividere qualcosa in due domande: “Voglio rischiare di subire l’ira di sconosciuti su Internet?” e “Voglio parlare con persone fighe e intelligenti che conosco?”.

Screenshot di una chat di Slack.
Screenshot di una chat di Slack.

Nel suo articolo, lo scrittore ammette che un certo grado di bilanciamento tra pubblico e privato nel cosiddetto social web esiste: possiamo limitare la privacy dei nostri post, scegliere chi bloccare, decidere chi leggerà cosa. Eppure, in maniera interessante, Alang individua nella «scala e popolarità dei nostri social network» un fattore che sta influenzando questo equilibrio, portandoci a limare di continuo il confine tra pubblicabile e impubblicabile. Le sue tesi sono facilmente attaccabili e, in parte, aperte a una serie di smentite – per parlare con amici più stretti, parenti e conoscenti intimi esistono già dozzine di altri mezzi, come e più privati di Slack, e l’intrinseco valore di Internet non è proprio permetterci di trovare qualcosa di meritevole in quel mare di «sconosciuti»? – ma è difficile non vederci anche il segnale di un trend in atto: Slack, lanciato nel febbraio 2014, a giugno di quest’anno aveva già superato il milione di utenti attivi giornalmente, quattro mesi dopo aver sfiorato i tre miliardi di dollari di valore commerciale. «Siccome il web è diventato così pubblico, enorme e travolgente, è ormai necessario ritirarsi e cercare i legami fondamentali nella quiete del privato», conclude Alang.

La particolarità di Slack va ontologicamente in senso opposto rispetto ai servizi che hanno conquistato Internet

Com’è possibile che un’applicazione usata in ambito lavorativo abbia avuto un successo così marcato e rapido? Semplice: gli utenti di Slack non lo usano per lavoro, o non soltanto. Il magazine Fast Company qualche mese fa chiedeva a Todd Kennedy, trentasettenne manager di una startup di software, perché avesse deciso di spostare le conversazioni tra lui e sua moglie Julie su un’interfaccia che usa quotidianamente al lavoro. La risposta è stata la più immediata che possa venire in mente: «Ce l’ho sul telefono, ce l’ho sull’iPad, ed è sempre aperto». Questa facilità d’uso, al pari di un recente aggiornamento di Slack che permette ai suoi utenti di partecipare a chat diverse durante la stessa sessione e della capillarità della diffusione aziendale del software hanno reso semplice il suo sconfinamento osmotico nella vita privata.

Oggi la comunità – o, per meglio dire, le community, al plurale – di Slack sono composte in parti uguali da professionisti di ogni settore, persone comuni intente a scambiare messaggi coi propri cari e appassionati riuniti da un interesse comune. Passando in rassegna i gruppi inseriti su Chit Chats, un sito che li raccoglie e mette in vetrina, si notano Slack dedicati agli amanti del campeggio, alla condivisione di case e appartamenti, alle «Women in Technology». Si tratta di insiemi chiusi, permeati da un’aura di esclusività e sollevati dall’ansia di postare il contenuto giusto al momento giusto. Curtis Herbert, admin di un gruppo di sviluppatori di iOs di base a Filadelfia, ha sottolineato a Fast Company come, dove su Twitter e Facebook «senti che ciò che stai postando deve avere un significato […], con Slack butterai giù qualcosa come se stessi parlando a qualcuno al bar».

Contrariamente alle prerogative del mezzo, esiste addirittura un gruppo di incontri che chiede soltanto di inserire tramite un form la propria età e provenienza e attendere la conferma della propria iscrizione. Slack ha un’interfaccia pulita e user-friendly: ci sono le menzioni e le stelline con funzione di segnalibro che mi sembra di aver già visto altrove, un archivio di messaggi con funzione di ricerca e il pratico tasto per passare da un canale all’altro. Sul mio neonato gruppo creato per l’occasione tuttavia, ahimè, non c’è ancora nessuno online, e per ora l’anti-social network pare soltanto una brughiera mesta e desolata. L’unica chat a cui riesco ad accedere in questo web fatto di enclosures, per ora, è una di amanti delle chitarre, ma non ho mai suonato uno strumento in vita mia.

Nell’immagine in evidenza: Due persone fanno yoga all’interno di un’installazione del festival della scultura Sculptures By the Sea. Sydney, 23 ottobre 2014 (Cameron Spencer/Getty Images)
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