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Riscoprire ancora Tommaso Labranca

Il libro di Claudio Giunta appena uscito è l'occasione per ricordare un intellettuale fondamentale ma sempre troppo dimenticato.

30 Giugno 2020

C’è molta ironia nel fatto che Tommaso Labranca sapesse che dopo la sua morte sarebbe stato riabilitato: «E magari faranno dei miei libri un Meridiano». Ci abbiamo macabramente scherzato su un mucchio di volte. Ma allora non sembrava così macabro. L’ultima volta che l’ho incontrato è stato poco più di anno prima dalla sua morte, avvenuta il 29 agosto 2016. Un’amica comune, la fotografa Marina Spironetti, stava portando a termine un progetto per l’Expo: 184 ritratti (uno per ogni giorno dell’evento) di “creativi” – qualunque cosa significhi – emigrati a Milano, dove tra l’altro era nato per essere subito trasferito a Pantigliate, periferia industriale, nebbia e diffuso benessere da parvenu, quindi molto trash. Provincia tosta. Ognuno di noi doveva indicare un luogo d’affezione della città e una parola che ne condensasse la peculiarità. Tutti scegliemmo scenari e termini al limite della banalità.  Tommaso no. Pretese di essere immortalato davanti all’ex Tempio Crematorio del Cimitero Monumentale, con un iPad in mano. Sullo schermo, s’illumina il vocabolo “modernità”. «Se ci ripenso oggi, ho i brividi: quella foto oggi sembra un congedo dalle false illusioni di un’esistenza a cui si era arreso», ricorda Marina. «Ricordo la sua decisione, ma di più il suo sguardo. Severo, drastico. E insieme dolcissimo, come se la fama di avere un pessimo carattere fosse un carapace protettivo».  Anch’io lo ricordo così: capace di farti del male sapendo colpire dove più avresti sofferto, ma in grado di esprimere gentilezze ottocentesche, desuete, deamicisiane.

Ai suoi funerali, scrive Claudio Giunta ne Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca (il Mulino) – un’indagine, più che un saggio, sul pensiero e sulla tormentata opera labranchiana condotta con puntiglio notarile – non c’era quasi nessuno. Un po’ perché morire d’agosto è una garanzia di fallimento se conti di andartene in una bara seguita da un corteo di inconsolabili; un po’ perché Tommaso aveva raggiunto il culmine della sua intrattabilità “licenziando” pochi mesi prima, con inspiegabile crudeltà, alcuni dei suoi più intimi seguaci; un po’ perché con quelli un po’ meno intimi era svanito non rispondendo più ai WhatsApp, lasciati orfani di spunta blu. E un po’ perché aveva perso smalto tra gli amati e odiati “vip” conosciuti durante la collaborazione con Fabio Fazio e Claudio Baglioni per Anima mia, programma tv del ’97 dov’era “l’ideologo del trash”: definizione che detestava, come ogni altra etichetta, così come non gli era esattamente simpatico il conduttore che poi lo chiamò invano per Che tempo che fa. Nacque però un’amicizia con Orietta Berti, di cui scrisse la biografia La vita secondo Orietta. Lei ai funerali c’era. C’era anche Andrea Pinketts, che se ne andò subito dicendo «era meglio se non lo vedevo».

Le ceneri di Pinketts ora sono al Monumentale. La salma di Tommaso è in un loculo del cimitero di Pantigliate. Dove, ricorda Giunta, la madre fece scrivere il suo nome per intero, Nunzio Tommaso Labranca. Aveva genitori meridionali, e credo che il motivo della sua benevolenza nei miei confronti fosse la comune discendenza pugliese. Se ne vergognava, come una macchia sulla reputazione di amante professionista del Nord Europa (traduttore dal tedesco e dall’inglese, stava imparando lo svedese) di odiatore professionista del mare, di mitizzatore professionista della Svizzera – dove in effetti, negli ultimi anni di vita, sulle rive del lago di Lugano trovò a Capolago dei mecenati in Milo e Julia Miler, proprietari della casa editrice Tipografia Helvetica. «Ma tuo padre era medico e tua madre maestra», mi cazziava, sottolineando quella differenza tra sé e quelli «arrivati, raccomandati, orribili, integrati». Ci siamo conosciuti nel 2002, quando io e un mio amico fondammo il primo blog a tematica gay: si chiamava Tom. Lui, di blog e siti, ne apriva e chiudeva di continuo, da labranca.co.uk a labran.ca, per cui aveva dovuto registrare il dominio in California. Avevo un timore reverenziale nei suoi confronti, ma mi innervosiva quell’osservazione. Lo rabbonivo citandogli Joseph Roth: «È più facile morire per la massa che viverci insieme». Ma ero irritato. Volete mettere un giornalista che sì, non è nato in ristrettezze, ma si occupa di pizzi e merletti con un pensatore che teorizza perfettamente il concetto di trash fino a ridurlo a una formula matematica, che scriveva come non fosse da studiare Pasolini, ma la gente di cui Pasolini parlava (il suo romanzo del 2010, Haiducii, prende spunto dalla famiglia Petrescu, suoi vicini di casa rumeni)? Ero reduce dalla lettura di Andy Warhol era un coatto, da Estasi del pecoreccio. Perché non possiamo sentirci brianzoli, da Chaltron Hescon, da quello che per me è il suo capolavoro Neoproletariato. La sconfitta del popolo e il trionfo dell’eleghanzia, da Il piccolo isolazionista. Labranca faceva il contrario di ciò che ci avevano insegnato: trattava sul serio le cose popolari (TV, cinema di serie B, canzonette, fumetti), e maneggiava la cultura “seria” con un’indipendenza che per noi, vittime del liceo classico, era una benedizione.

Per me era un maestro. E lo era anche per Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Niccolò Ammanniti, Isabella Santacroce. Con loro e con altri portava avanti tantissimi, troppi progetti: editoriali, multimediali, musicali, artistici, di cui si parlava nel mitico bar di Caiazzo, «svelti che sennò perdo la metro per casa». Aveva detto di no ai soldi («io i programmi trash li giudico e li esamino, mica li faccio») e la sua ultima trasmissione televisiva Galatea, su Rai 2, nel 2005, era sofisticatissima e andava in onda alle due di notte: un flop. Ogni volta che il successo si solidificava, diventava spendibile, svaniva o lo rifuggiva. Era incapace di gestire la sua enormità di intellettuale e di voce politica: detestava la politica, non ne parlava mai. Preferiva chiacchierare della biografia, uscita postuma, di Riccardo Fogli.

La differenza che ci univa e ci divideva, era ciò che contava. La distanza – incolmabile, e non solo a livello di conto corrente, ma di forma mentale – tra chi ha un TFR in cui riporre la fiducia nel futuro, e chi no, come ha scritto Guia Soncini in un bellissimo articolo su Linkiesta. Dovevo ricordarmi che uno dei suoi vagiti culturali era stato il collettivo dall’amarissimo nome La Misère Provoque Le Génie, negli anni Ottanta. Gli piacevo perché era sensibile al glamour del mondo della moda e ai miei complimenti. Catalizzava cenacoli di fan che approvavano come suprema operazione eversiva operazioni che a me sembravano autolesioniste: scrivere rubriche per Guida TV o Cronaca Vera, sparlare di chiunque ritenesse inferiore («Davvero Silvia Avallone scrive per il Corriere della Sera e io no?»). Di conseguenza, si è creato il deserto intorno. Ricordo come, nel 2004, ho dovuto faticare sette camicie per fargli scrivere un-articolo-uno su Donna, il giornale in cui lavoravo, diretto da Daria Bignardi, che avrebbe preferito di no. Tommaso è stato accantonato, messo da parte, percepito come rompicoglioni perché lo era, rifiutato per l’ostinazione a un’esibita libertà da povero («l’esilio di Pantigliate»). Il che apriva ulteriori discussioni nel suo circuito di amicizie: fino a che punto il non scendere a compromessi è un atteggiamento etico e non diventa posa? Esiste, e quando comincia, un manierismo della miseria? Era proprio obbligatorio bruciare i ponti con le case editrici che lo avevano pubblicato? Cosa non funzionava: lui, noi, quel sistema di conventicole, camarille e club pseudo culturali in cui però non sarebbe mai voluto entrare?

È meglio o peggio dissipare (a me sembrava così) il proprio talento in rivoli di iniziative editorialmente irrilevanti, come Osso Book, dove ho scritto anch’io, e non concentrarsi su altre che magari – magari, eh – lo avrebbero portato a essere riconosciuto per quello che era, una delle menti più raffinate prodotte dall’Italia alla fine del XX secolo? «Ha preferito vivere al limite dell’indigenza per mantenersi puro. Non ce lo siamo mai meritati», scrisse Gianni Biondillo, il primo a dare notizia della morte di Tommaso sul sito di Nazione Indiana. Non ho ancora risposte, se non: «Ci siamo voluti bene». Ma non è una risposta.

Giganteggiava nell’autodisagio. Tommaso non era bello né alto, ma si sottoponeva a diete massacranti e a chilometri di corsa. Della sua sessualità non ha mai hai parlato (ma era molto curioso della mia), benché sapessimo che Luca Rossi, presentato a tutti come «un mio collaboratore», fosse il suo compagno di vita e di lavoro. Organizzava feste a tema a casa, dove si doveva arrivare con puntualità estrema, vestirsi secondo dress code perentori, comportarsi secondo le sue prescrizioni di quella che si trasformava in Maison Labranca.

Dove però Tommaso organizzava letture di suoi racconti memorabili. O di poesie, come la mirabile Hjärta, “ovvero il cuore come un comò in un pacco piatto che non ho mai montato”, stampato in formato istruzioni montaggio di un mobile che venne lasciato come volantino pubblicitario sui parabrezza delle macchine in un parcheggio dell’Ikea, dedicato alla sua amica e sodale Marta Cagnola, giornalista e scrittrice. Nel rapporto con le donne, Tommaso sembrava più disteso e sereno: Dea Verna, Gaja Cenciarelli, come lui traduttrice e docente di letteratura inglese in una scuola della periferia romana. La chiamo: «Nessun posto era giusto per lui. Forse il nostro mondo era troppo sciocco per rivolgergli la parola. Aveva litigato con i tre quarti delle terre emerse e io mi sentivo una privilegiata. Ma quando dopo aver fondato con Luca Rossi la casa editrice 20090, dal cap. di Pantigliate, mi inviò una copia del suo Progetto Elvira. Destrutturando “Il vedovo” e vidi che era dedicato a Gaja C. Ero la sua Elvira. Mi prendeva in giro continuamente: “Cenciarelli, la smetta di pensare all’amore, gli uomini non sono così disperati da mettersi con lei (ci siamo sempre dati del lei, un po’ per celia, un po’ per non morire)”. Cominciai a preoccuparmi quando non si fece più sentire. Il suo ultimo messaggio su WhatsApp mi confermò che voleva scontrarsi anche con l’ultimo quarto delle terre emerse scampato alle sue furie: me. Stavolta mi sono stufata di far finta di niente, mi dissi. E lo lasciai andare, senza rincorrerlo. Ho sempre creduto che, prima o poi, sarebbe saltato fuori come Franca Valeri alle spalle di Alberto Sordi che la credeva morta urlandomi: “Cretinetti!”. Del resto, conoscendo Labranca, potrebbe anche star litigando con i quattro quarti dell’altro mondo. Che storia, che coerenza testuale, che chiusa trash».

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