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15:02 giovedì 18 settembre 2025
Israele vuole cancellare la versione israeliana degli Oscar perché ha vinto un film che parla di un ragazzino palestinese Anche perché, vincendo, The Sea è automaticamente candidato a rappresentare Israele agli Oscar per il miglior film internazionale.
Il candidato della Francia all’Oscar per il Miglior film internazionale è un film ambientato in Iran, che parla di Iran e diretto da un iraniano Dalla Palma d’Oro a Cannes alla candidatura francese agli Oscar, il viaggio di Jafar Panahi attraverso le crepe della politica e del cinema
Sulla tv del ministero della Difesa russo c’è uno show fatto con l’AI che trolla i politici stranieri Macron con i bigodini rosa, Trump che parla di gabinetti dorati, von der Leyen in versione soviet: questo il meglio che la "satira" russa offre.
Il late show di Jimmy Kimmel è stato sospeso per dei commenti di Kimmel su Charlie Kirk Commenti che però Jimmy Kimmel non ha mai fatto.
Nel nuovo film di Carlo Verdone ci sarà anche Karla Sofía Gascón, la protagonista caduta in disgrazia di Emilia Pérez La notizia ha permesso a Scuola di seduzione di finire addirittura tra le breaking news di Variety.
Enzo Iacchetti che urla «Cos’hai detto, stronzo? Vengo giù e ti prendo a pugni» è diventato l’idolo di internet Il suo sbrocco a È sempre Cartabianca sul genocidio a Gaza lo ha fatto diventare l'uomo più amato (e memato) sui social.
Ci sono anche Annie Ernaux e Sally Rooney tra coloro che hanno chiesto a Macron di ripristinare il programma per evacuare scrittori e artisti da Gaza E assieme a loro hanno firmato l'appello anche Abdulrazak Gurnah, Mathias Énard, Naomi Klein, Deborah Levy e molti altri.
Per Tyler Robinson, l’uomo accusato dell’omicidio di Charlie Kirk, verrà chiesta la pena di morte  La procura lo ha accusato di omicidio aggravato, reato per il quale il codice penale dello Utah prevede la pena capitale. 

J.R.R. Tolkien, prigioniero politico della destra italiana

La mostra alla Gnam di Roma dedicata all'autore del Signore degli Anelli è l'ennesima prova di una distorsione politica dei significati di questa opera che in Italia prosegue oramai da 60 anni.

17 Novembre 2023

Per parlare della mostra su Tolkien, inaugurata a Roma qualche giorno fa, bisogna parlare di Zeitgeist. L’opera del grande scrittore inglese ha infatti accompagnato la riscossa dell’underdog Giorgia Meloni, dal merchandising di Fratelli d’Italia all’ultimo comizio prima delle elezioni del 2022, quando l’allora candidata premier ingaggiò l’amico Pino Insegno, voce italiana di Aragorn nella trilogia di Peter Jackson, per arringare il suo esercito di fedelissimi e trascinarli nell’imminente battaglia alle urne.

Se per appropriazione culturale s’intende l’appropriamento di un certo fenomeno, spesso minoritario, da parte della cultura dominante, la passione per gli Hobbit dei neofascisti italiani degli anni ’70 può essere considerato in qualche modo il suo opposto: una destra extraparlamentare e marginalizzata, che si nutriva di letture esoteriste e poesie di Julius Evola, nonché di quella mitologia vagamente nordeuropea tanto cara al Terzo Reich, vide nell’opera di Tolkien una sorta di paese dei balocchi di simboli para-fascisti, o comunque di quei topoi che la destra tipicamente adora, come la guerra e gli eroi, una società organizzata per caste, una patria eternamente minacciata, certi valori militaristi quali lo spirito di sacrificio, il senso del dovere, il rispetto della propria stirpe.

Ma cosa fare di questo patrimonio di simboli una volta venuto meno il collante, anch’esso fortemente identitario, dello status di grandi esclusi dell’arco parlamentare? L’eccezionalità del posizionamento di questo governo nella storia del nostro Paese ha portato con sé l’istanza di un rinnovamento del paradigma culturale, attingendo proprio a quell’immaginario da cui l’attuale classe politica proviene e ricercando la sua legittimità intellettuale in quei simboli ritenuti così fortemente identitari. La strada per costruire la nuova cultura di destra è un compito arduo e inevitabilmente costellato di scivoloni interpretativi (come quando il ministro Sangiuliano disse che Dante era l’iniziatore del pensiero di destra), non sappiamo se col preciso fine della rilettura ideologica o con una sorta di candore interpretativo derivato da uno studio forse superficiale degli autori di culto di questo piccolo rinascimento postmoderno.

Nella storia occidentale l’interpretazione appare per la prima volta quando la cultura “scientifica” classica si pose il problema dell’utilizzo dei miti. Fu allora che si ricorse all’interpretazione, per conciliare i simboli religiosi, di per sé profondamente identitari, con la nuova temperie culturale scientifica: di fatto uno svuotamento del valore, per così dire, letterario, del mito per asservirlo all’utilizzo ideologico, o comunque circostanziato, della nuova temperie culturale. È presto quindi svelata la metafora del mito tolkeniano nell’interpretazione degli intellettuali tricolori: Giorgia Meloni novella Gandalf, forza maieutica della salvezza della Terra di Mezzo, la squadra di governo come i coraggiosi Re degli uomini che vanno incontro alla morte per affrontare le orde terrificanti degli invasori e i complotti orditi dalle lobby internazionaliste; la Contea non altro che la nostra bella verdeggiante Italia, Paese tradizionalmente rurale, di buon cibo e brava gente; un tocco di eroismo spicciolo (leggi: Salvini che difende le nostre coste) e un approssimativo senso di solennità (forse, l’abuso del termine patriota) completano il quadro di una sommaria rilettura post-ideologica dell’universo di Arda operata dalla nostra classe politica e intellettuale.

Non a caso Sangiuliano, invitato a visitare la mostra in anteprima insieme alle più alte cariche del governo, ha sottolineato che «si vuole sminuire [Tolkien] a una polemicuzza politica», proprio a rivendicare ancora una volta una cultura minoritaria rispetto a quella “imposta” (che il culto di Tolkien sia considerato minoritario è una peculiarità tutta italiana: ovunque nel mondo Tolkien è il geniale padre del fantasy, non il padrino dei nostalgici del Ventennio). La lettura di Tolkien in chiave così smaccatamente politica è segno, purtroppo, di una mistificazione della sua opera. Il Professore, anche ammesso che volesse muovere una critica sociale e politica al suo tempo, dall’atrocità della guerra all’avanzare minaccioso della sempre maggiore industrializzazione (Il signore degli anelli fu scritto a cavallo della Seconda guerra mondiale), la volse piuttosto alle mistificazioni del potere in generale e alla debolezza che genera negli uomini che lo possiedono.

In quasi tutti gli esempi moderni, l’interpretazione è un rifiuto di lasciare in pace l’opera d’arte, addomesticandola e cercando di ridurla unicamente al suo contenuto e lavorare su questo con mezzi che trascendono i legittimi strumenti della filologia. «L’interpretazione rende l’arte docile e accomodante», dice Susan Sotang in un saggio famoso intitolato appunto Contro l’interpretazione. In questo caso specifico, il tema dell’interpretazione, per così dire, peregrina, dell’opera di Tolkien è stato affrontato dettagliatamente da Lucio Del Corso e Paolo Pecere in un libro che racconta le traversie del Signore degli anelli in Italia tra mistificazione e strumentalizzazione politica (L’anello che non tiene: Tolkien fra letteratura e mistificazione, Minimun Fax 2003).

Se quindi è possibile attribuire qualche merito alle vicissitudini di Tolkien in Italia, di certo è una riflessione seria sull’anacronismo di qualsiasi lettura ideologica e, per contro, sul valore più alto che esiste nell’arte, cioè la sua scomodità. Una parola che insieme a resilienza e a complessità, rientra tra quelle di cui siamo abituati ad abusare, o ad usare con un sorriso di compiacimento intellettuale. Come dice Walter Siti in un breve e fondamentale saggio intitolato Contro l’impegno (Rizzoli, 2021), lo scopo dell’arte non è quella di essere terapeutica o consolatoria, ma di costringerci a indossare il punto di vista altrui, tanto meglio se inconciliabile con il nostro.

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Parliamo di It Was Just An Accident di Jafar Panahi, già vincitore della Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes.

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Dalla vita ha avuto tutto: fama, bellezza, successo, ricchezza, riconoscimento. Ma erano altre le cose che gli importavano: la democrazia, il cinema indipendente, le montagne dello Utah, e opporsi a un'industria che ormai disprezzava.

È morto Robert Redford, una leggenda del cinema americano

Aveva 89 anni, nessun attore americano ha saputo, come lui, fare film allo stesso tempo nazional popolari e politicamente impegnati.

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Tranne La grazia di Paolo Sorrentino, ma non per volontà: la sua assenza è solo una questione burocratica.