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Tiziano Scarpa, il camaleonte

Intervista a uno dei più prolifici scrittori italiani (e drammaturgo, poeta, lettore scenico) in occasione dell'uscita del suo settimo romanzo, La penultima magia.

09 Luglio 2020

Il nuovo romanzo di Tiziano Scarpa, La penultima magia (Einaudi) è uscito il 23 giugno, il terzo giorno di un’estate rallentata da settimane di chiusura del mondo per la pandemia: « L’11 febbraio ho mandato le ultimissime correzioni al mio editor. Il libro doveva uscire a metà aprile e nel frattempo non avrei più potuto toccare una virgola. Ma ai primi di marzo è venuto fuori che l’Italia doveva fermarsi, e così adesso mi ritrovo con un romanzo che la pandemia l’ha proprio scavalcata», dice Scarpa al telefono da Venezia, la città dove è nato nel 1963 e dove vive con la moglie, artista contemporanea. Dopo l’esordio nel 1996 con Occhi sulla graticola, Scarpa ha pubblicato romanzi, saggi, raccolte di poesie, testi teatrali. Il suo talento ha molte forme, come scrive Niccolò Ammaniti a proposito di Stabat Mater, che ha per protagonista un’orfana sedicenne che diventa allieva di Antonio Vivaldi e ha vinto lo Strega nel 2009: «Tiziano Scarpa è un camaleonte. Come questo rettile arboricolo è capace naturalmente di mutare il colore della sua scrittura e i suoi umori in ogni cosa che scrive (…). Sono rimasto sopraffatto dalla capacità di sentire una solitudine così lontana e di avercela restituita con tanta forza e pietà».

Anche La penultima magia è una storia con al centro una grande solitudine. Nelle prime pagine sembra una favola per ragazzi, con un tocco di perturbante (forse anche per la bella copertina disegnata da Massimo Giacon). Ci sono lampioni che camminano, negozi che russano e caffettiere che preparano la colazione. Ma poco dopo questo mondo inizia a cedere…
Come narratore mi ha ispirato il crollo dell’incanto. Nel libro c’è un mondo di magia che crolla e chi aveva dei poteri si trova a dover affrontare la realtà a mani nude, senza bacchetta magica. La protagonista la conosciamo come Fata Renata, ma poco dopo diventa evidente che “fata” è un eufemismo per la sua malattia mentale. Il perno del titolo è il disincanto, o il disincantesimo. A un certo punto Renata rinuncia ai poteri di fata e viene fuori che la prima parte di fantasmagorie e di surrealismo era un sipario per non vedere l’orrore. Tra i riferimenti narrativi posso citare The Others, Matrix, The Truman Show: mondi posticci che nascondono abissi di angoscia.

Semplificando il tuo lavoro in un gioco di opposti o somiglianze si potrebbe dire che, tra i tuoi romanzi, quello più vicino a La penultima magia sia Stabat Mater.
Sono libri molto diversi. Stabat Mater è nero, basato su personaggi storici, ambientato di notte; questo è colorato e anche dopo la fine del mondo magico non si arrende a diventare un romanzo completamente realista. Ma i due libri si parlano, in un certo senso sono molto vicini. In tutti e due si parte da un’angoscia profonda che suscita energie reattive. E poi sono entrambi frutto di pura invenzione. Sono libri costruiti intorno a una delle potenze fondamentali della parola, che è quella di creare mondi, suscitare immagini, venire prima delle cose. La penultima magia è un sogno a occhi aperti, un grande cinema per l’alfabeto, un’avventura di immagini mentali. Questo fatto è importante all’interno della mia poetica attuale. Mi sento controcorrente rispetto al panorama contemporaneo in cui c’è una preponderanza di reportage letterari, resoconti, auto-finzioni. In questo periodo mi interessa di più la parola che comanda, che crea, la parola non al servizio di cose che sono accadute. Per questo non mi sono preoccupato troppo di essere fuori contesto o inattuale quando, durante o subito dopo il lockdown, ho visto uscire una serie di libri che parlano della pandemia, come quelli di Paolo Giordano, Donatella Di Cesare, Paolo Rumiz, Chiara Gamberale, Antonio Moresco. Si tratta di scritture che hanno avuto l’opportunità di lasciarsi attraversare dal virus. La penultima magia ne resta fuori. È un libro scritto nel mondo di prima che si sporge sul mondo di dopo: non puoi sapere dove atterrerà. Ma in un certo senso resta indifferente, perché è fatto di parole che non sono nate per inseguire ciò che accade.

Lanno scorso minimum fax ha pubblicato una nuova edizione di Kamikaze doccidente, romanzo del 2003 in cui hai fatto un lavoro completamente diverso. Kamikaze doccidente è, tra le altre cose, il resoconto di alcuni mesi di vita di un tuo alter-ego che ha una serie di amanti a pagamento per sopperire ai magri compensi del mestiere di scrittore. Alle pagine di diario si alternano schede saggistiche sugli argomenti più disparati
In Kamikaze doccidente ho cercato di dare forma alla potenza referenziale della parola: è la parola dei reportage, degli autoritratti, in cui si rielabora e descrive qualcosa che c’è o c’è stato. Quella che si usa per la narrativa storica, o per la rielaborazione biografico-letteraria dei bei libri recenti di Emanuele Trevi, Melania Mazzucco, Helena Janeczek, Antonio Scurati. Ma ho lavorato a Kamikaze doccidente anche come a un’opera concettuale. Ho avuto lo stesso atteggiamento di Sophie Calle quando è andata a fare la cameriera ai piani di un albergo per fotografare e raccontare gli oggetti e le stanze abitate dagli ospiti di passaggio. Calle non ha semplicemente documentato dopo un’esperienza che ha vissuto, ma l’ha predisposta, l’ha progettata prima, e ci è entrata dentro per vedere che cosa succedeva. Nel 2001 ho vissuto per mesi con un movente artistico e letterario. Le esperienze erano intensificate dall’attenzione a qualcosa che andava stanato, scrutato, assaporato. Sarebbe un errore dire che ho vissuto e poi ho scritto il libro. Kamikaze doccidente lo scrivevo mentre lo vivevo, e non solo perché alla fine di ogni giornata mi sedevo a compilare un diario. Vivevo in quel modo anche in seguito alla decisione di avere avviato quel tipo di libro. È stato davvero straniante. In quel periodo, la vita era una conseguenza della scrittura, non viceversa. Il romanzo era già dentro le fibre dell’accadimento, c’era già uno sguardo profondamente intriso della scrittura. La scrittura moltiplicava l’intensità della vita.

I tuoi romanzi sono abitati da donne, esprimi una vicinanza particolare ai personaggi femminili di ogni età. Accade anche con la protagonista di La penultima magia, il narratore le resta sempre vicinissimo.
Fata/Nonna Renata è un personaggio che ho amato profondamente. Non capita sempre, donne o uomini che siano. Nel corso del tempo alcuni personaggi li ho maltrattati o li ho trattati in modo irriverente. Nel caso di Renata mi tocca molto la sua paura di perdere la nipote. Io non ho figli, non ho nipoti, quindi invento personaggi che sono anche oggettivazioni delle mie mancanze. Sento fortissima la mancanza di figli e di nipoti. E poi c’è un altro elemento che mi fa amare Renata; è l’inadeguatezza, il sentirsi inadatti davanti alle cose grandi della vita.

Dal punto di vista della tua evoluzione artistica è interessante essere qui a parlare di nonne con uno scrittore che nel 1996, con Occhi sulla graticola, ha contribuito a inaugurare la stagione della letteratura detta pulp o cannibale. Puoi raccontarmi qualcosa di quel periodo?
C’era una diversa temperie storica, erano gli anni novanta, la fase finale del post-moderno. Se presentassi Occhi sulla graticola a un editore oggi non sono sicuro che verrebbe accettato. Ma io non sono cambiato, come scrittore funziono allo stesso modo, ho bisogno di scrivere scene forti come quella della letterale figura di merda che apre il romanzo. Come autore devo tutto all’editor di Einaudi Mauro Bersani. Alla fine degli anni ottanta aveva letto e apprezzato i miei primi racconti inediti, così nel 1994 gli ho mandato il manoscritto. Bersani è uno studioso prestato all’editoria, tra le altre cose è uno studioso di Gadda, e credo di avere avuto fortuna a trovare un lettore attento alla prestazione lessicalista, metalinguistica e autoriflessiva della lingua.

Cosa è successo dopo?
Occhi sulla graticola è uscito nel febbraio del 1996. A marzo e aprile dello stesso anno sono usciti Fango di Niccolò Ammaniti, Woobinda di Aldo Nove e Fonderie Italghisa di Giuseppe Caliceti. Qualche tempo dopo Bruno Ventavoli ha scritto un articolo in cui ci definiva i nipotini di Tarantino (anche se Tarantino ha forse un paio di anni piú di noi). Per la primavera/estate siamo stati pulp. Poi Daniele Brolli ha proposto a Paolo Repetti e Severino Cesari di Stile Libero la raccolta Gioventù cannibale, che è uscita a novembre (tra l’altro non ne faccio parte). L’etichetta “cannibali” ha avuto fortuna, e dato che anche io ero nel gruppo dei pulp, quando si è iniziato a parlare di cannibali ci si riferiva sempre anche a me. Questo ha avuto un effetto mediatico forte. Nei successivi due anni, ogni volta che uno di noi pubblicava un libro venivano citati anche tutti gli altri. Eravamo sempre menzionati, anche quando non facevamo niente.

Che conseguenze ha avuto questo fenomeno sulla tua vita?
È stata una cosa davvero notevole. Mi sono trovato a far parte di un giro, di un gruppo, di una quasi poetica. È successo tutto per caso. Non avevamo scritto un manifesto, non avevamo fondato una post neo-avanguardia; ci siamo conosciuti e ci siamo piaciuti, anche come persone, solo dopo aver letto i nostri libri. Abbiamo scritto le nostre cose ciascuno nella propria stanzetta. Chi l’ha definita un’operazione commerciale non sa o non ricorda come sono andate le cose.

A che età hai avuto la certezza che avresti seguito la strada della scrittura?
L’ho capito dopo l’uscita di Occhi sulla graticola. Con le vendite del romanzo non avrei potuto mantenermi ma ha innescato una serie di guadagni collaterali. Tra il 1996 e il 1998 ho cominciato a ricevere inviti, proposte di scrittura di vario genere. Racconti, articoli per giornali, cataloghi d’arte, presentazioni, letture sceniche. Quando mi sono reso conto che la somma di queste cose mi dava da vivere ho fatto il grande salto. Avevo un contratto a tempo indeterminato in una casa editrice come redattore. Mi sono dimesso, e dal 1998 vivo della mia scrittura. Se per questo intendiamo tutto quello che c’è intorno.

In che tipo di famiglia sei cresciuto?
Non vengo da una famiglia di intellettuali. I miei genitori avevano la quinta elementare. Però mia nonna, una sarta di campagna nata a Roncade, leggeva Dostoevskij. Mia madre era una donna molto curiosa, lettrice di quotidiani e riviste. Un fratello di mia madre, Renato, era il vero poeta e pittore della famiglia. È morto giovanissimo, in un incidente che è una beffa del destino, è annegato in una macchina caduta in un fiume. Aveva appena ceduto il posto su un’altra auto a un amico che aveva protestato perché il conducente della prima andava troppo forte. Quando è successo avevo tre anni. Invece mio padre leggeva i libri simbolo di una cultura un po’ democristiana. Da ragazzino mi ha passato Ignazio Silone, gli piaceva perché era il comunista che aveva abiurato. Da noi circolavano anche i romanzi di Calvino, ma c’erano soprattutto i libri che appartenevano a una concezione conformistica dell’editoria, che rappresentavano un’idea politica maggioritaria. Era la tipica casa di modesta levatura culturale degli anni sessanta e settanta in Italia. A casa mia Porci con le ali non è arrivato, neanche per sogno. Quando mi sono iscritto a lettere i miei sono rimasti perplessi, se non delusi. Ma come, tanta fatica per farti studiare e tu scegli lettere? E devo ammettere che fino a trent’anni non si capiva cosa volessi fare, da fuori sembravo un fallimento totale, uno che non avrebbe combinato niente.

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