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Noi, ragazze rovinate da Titanic

Torna al cinema dopo 25 anni il polpettone epico-romantico che con la sua rappresentazione stereotipata delle differenze di classe e il personaggio di Leonardo DiCaprio ha rovinato la vita a più di qualche ragazzina.

di Clara Mazzoleni

La parola Titanic proietta nella mia mente questa immagine: due bambine di dieci anni, io e la mia migliore amica Silvia, in coda fuori dal cinema di Galbiate. Entriamo bambine, usciamo adolescenti. È il 1997, la sala del paese non ha abbastanza posti per contenere tutte le persone accorse per vedere il colossal di James Cameron. Io e Silvia guardiamo il film condividendo una poltroncina in due, facendoci male a vicenda coi nostri corpi ossuti e spigolosi. Tre ore sfiancanti, fisicamente, psicologicamente, emotivamente. Sudiamo. Durante la famosa scena della mano di Rose che sbatte sul vetro appannato della Renault ridiamo istericamente, imbarazzate dall’eccitazione sessuale che ci ritroviamo a provare, così come nella scena in cui Rose posa davanti a Jack vestita soltanto del Cuore dell’oceano. Alla fine del film vado avanti a piangere un po’ troppo, ben oltre la fine dei titoli di coda. Quella notte vado a dormire con un mal di testa perforante e gli occhi gonfi. Nei mesi successivi la porta della mia stanza viene completamente ricoperta di figurine di Leonardo DiCaprio. Le guardo sospirando, e piango. Il mio primo amore non corrisposto.

Titanic mi ha fottuto il cervello. Quelle tre ore hanno instillato dentro di me una serie di associazioni perverse di cui non mi libererò mai. È come se la mia mente avesse preso una serie di appunti, poi erroneamente trasformati in comandamenti. Fidanzato ricco uguale noioso, antipatico, arrogante, ottuso, babbeo, furbo, calcolatore, per niente sexy. Ragazzo senza mezzo soldo che gioca a poker e gira con un blocco di disegni pieno di donne nude e che si sente il “re del mondo” anche se non è un cazzo di nessuno uguale coraggioso, bellissimo, artista, genio, autentico, stupendo, spensierato, avventuroso, sesso indimenticabile, amore infinito. Come attirarlo a sé? Rinnegare la propria condizione privilegiata d’appartenenza e ostentare depressione, noia e desiderio di suicidarsi. La vita in prima classe è noiosa, soffocante, falsa, quella in terza classe divertentissima, ci si ubriaca e si balla senza scarpe, evviva, gira gira giraaaaa, chiudi gli occhi mentre voli nella luce infuocata del tramonto, sulla prua, nel cielo rosa, nell’aria di mare, finalmente inspira la vita.

Per una ragazzina benestante e priva di gravi traumi, nata e cresciuta in un brutto paesino della Lombardia, Titanic è stata la prima esperienza del sublime così come inteso da Edmund Burke, che nel 1754 lo definì come quel mix di terrore e piacere provocato dalla vista di qualcosa di spaventoso e spettacolare, capace di colpire e “innalzare” l’animo dello spettatore, sconvolto dall’orrore che suscita il pensiero dell’infinito. Certo, diceva Burke, l’armonia del bello classico suscita indubbiamente un piacere positivo, ma vuoi mette quel piacere ambiguo che si mischia con il dolore? In quel caso l’esperienza della bellezza scaturisce dalle emozioni che provocano turbamento. Quale migliore scenario, allora, di un’immensa nave piena di lucine che si spacca e affonda nella notte?  Associazioni perverse si autogenerano nel cuore di un’ingenua ragazzina che guarda lo schermo con gli occhi spalancati: amore uguale relazione ostacolata dalle circostanze uguale emozioni forti uguale dolore uguale pericolo uguale rischio. La canzone di Céline Dion, che imparo a suonare e cantare a memoria al pianoforte (ancora oggi è l’unica canzone che mi è rimasta nelle dita, con buona pace di Schubert & company), ammorbando la mia famiglia con esibizioni infinite in cui piango da sola, sigilla le associazioni dentro di me. «My Heart Will Go On», cantava lei, e invece il mio cuore è rimasto lì. Il rewatch ossessivo delle videocassette di due film con Leonardo Di Caprio degli anni precedenti (ancora oggi due dei miei film preferiti) perfeziona il disastro. Romeo + Giulietta di William Shakespeare, regia di Baz Luhrmann, 1996: amore uguale relazione ostacolata dalle circostanze uguale tragedia. Poeti dall’inferno, regia di Agnieszka Holland, 1995: amore uguale sregolatezza uguale rapporto morboso e masochistico.

Sono passati 25 anni da allora, un quarto di secolo: Titanic torna al cinema in una versione restaurata. Vorrei avere a disposizione una bambina di 10 anni che non l’ha mai visto e andare a vederlo con lei. Le spiegherei che è soltanto una ridicola favola, che in realtà essere ricchi è bellissimo e tra i ricchi esistono uomini gentili e meravigliosi, che non bisogna mai mettersi con quelli che giocano d’azzardo, che si può ballare sul tavolo e ubriacarsi anche in prima classe e anzi è sicuramente meglio perché almeno l’alcol è di qualità e se il giorno dopo sei in hangover puoi evitare di lavorare. Le farei notare che infatti, guarda caso, la favola raccontata da Cameron non è a lieto fine, e per inculcargli questo concetto andrei sul personale, collegando la scena di Jack che non sale sulla zattera e crepa nell’acqua gelida al mio primo vero amore (corrisposto, credevo: che ingenua) lui finito in galera, io a disintossicarmi in una clinica privata. Pensavo che il significato di quella scena fosse che se hai soldi in qualche modo ti salvi sempre, se non ne hai no. A differenza del mio ex, però, Jack era innamorato davvero. L’ha spiegato Cameron 25 anni dopo (qui): lui ci sarebbe anche stato sulla zattera, ma ha preferito evitare di aggiungere peso e imbarcare acqua per essere sicuro che Rose sarebbe rimasta perfettamente all’asciutto e quindi sopravvissuta.

Di fronte a queste mie confidenze non richieste e queste considerazioni banali, la ragazzina di 10 anni che avrei a disposizione, una specie di mostro cinefilo iperprecoce, mi suggerirebbe di confrontare Titanic con Triangle of Sadness (l’anti-Titanic, direbbe) e mi manderebbe via Whatsapp il link a questo articolo di Vulture, sottolineando l’esigenza di sviluppare un concetto di differenza di classe decisamente più articolato e complesso di quello proposto dal polpettone epico-romantico di Cameron, e magari di smetterla di menarla con una storia d’amore inventata e pensare invece alla tragedia che ha ispirato il film e il 15 aprile 1912 ha provocato la morte di oltre 1500 persone reali. Nel 2007 l’American Film Institute ha inserito Titanic nella classifica dei cento migliori film americani di tutti i tempi. Ora, vent’anni dopo, possiamo andare al cinema a valutare com’è invecchiato. Sadicamente, il trailer suggerisce di andare a vederlo a San Valentino, magari per confrontare il proprio fidanzato (o la sua assenza) al maledetto artistoide spiantato che ci ha rovinato l’infanzia, l’adolescenza e tutto il resto. Se vi ritrovate con uno molto più noioso di lui (e con un po’ di soldi, magari) vuol dire che vi è andata bene. In caso contrario, forse Titanic ha fottuto il cervello anche a voi.