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Titane è una delusione

Palma d'oro per Julia Ducournau a Cannes 2021, è un film in cui la protagonista rimane incinta di una macchina: definito l'erede spirituale di Crash, in realtà, è solamente brutto.

di Corinne Corci

Una scena da Titane, ora in sala

Una delle autostrade più famose della storia del cinema si trova a Toronto. È la 401, e oltre a essere nota per il suo protagonismo nel film di David Cronenberg del 1996, è famosa per essere il tratto del Nord America più trafficato dello Stato, tanto famigerato per gli incidenti che una sua sezione è stata soprannominata “Carnage Valley”. Da uno scontro mortale proprio su quella strada prendeva avvio 25 anni fa la trama di Crash, con cui Titane, Palma d’oro a Cannes definitone l’erede spirituale, non ha invece nulla a che fare. Perché la pellicola con cui Julia Ducournau è diventata la seconda regista donna a vincere il premio più importante della croisette, nonostante quegli orrori fisici per i quali è stato catalogato come un body-horror (ma lo è solo per quanti non amano i body-horror) alla fine risulta un’accozzaglia di troppi elementi che non riesce a districare. Li lascia tutti sulla superficie, combina la celebrazione del corpo con quella dei legami familiari, la questione dell’identità di genere, la scomposizione della figura paterna in una strana versione rivisitata del complesso di Elettra, abbandonandoci alla sensazione deludente, una volta lasciata la sala, di essere scesi da una rollercoaster emotiva che non sapeva verso quale direzione guidarci.

Titane ormai lo conoscono anche quelli che non lo hanno ancora visto: è il film in cui come ha riassunto arrogantemente Nanni Moretti su Instagram per evidenziare l’indecenza della vittoria a fronte del suo Tre Piani (che è comunque più brutto di Titane) “la protagonista rimane incinta di una Cadillac”. E il problema è che Titane non è solo questo, se lo fosse stato davvero, forse sarebbe stato perfetto. Sgrovigliando la storia, incontriamo Alexia da bambina, quando subisce un trauma cranico in un incidente d’auto a seguito del quale si ritrova con una placca di titanio cucita nella testa. Da quel momento inizia a relazionarsi più con le automobili che con le persone, accettando un lavoro come ballerina per alcuni car show, contorcendosi e twerkando sulle auto e sviluppando per loro un’ossessione viscerale. Quello che segue è violento senza che ce ne si trovi un senso: dopo aver ucciso un uomo con il proprio fermacapelli e prima di regalarci 15 minuti di massacri banali e tragicomici assolutamente privi di schemi decisionali, Alexia fa sesso feroce e appassionato con un’auto, rimanendo incinta, nell’unica scena maestosa per cui si potrebbe mai consigliare la visione di Titane.

Poi altre complicazioni: nel tentativo di sfuggire alle autorità e rendersi irriconoscibile, si spacca il naso, si rade le sopracciglia e si finge la versione adulta di un ragazzino scomparso anni prima, Adrien. E nonostante Alexia sia una donna, aspetti vistosamente un bambino e non ricordi per niente il vero Adrien, Vincent, il padre/pompiere del ragazzo, la vede, le crede e l’accoglie nella sua vita autoconvincendosi si tratti del figlio. È a questo punto (non siamo neanche a metà) che il film si trasforma in un dramma familiare, in cui l’esasperazione del corpo si esprime nella negazione del corpo: con il progredire della storia e della gravidanza, Alexia si fascia completamente, si taglia, si squarcia, si copre quando perde benzina dal seno (è pur sempre incinta di un’auto) così da potersi nascondere e salvarsi.

Titane è il secondo lungometraggio di Julia Ducournau. Il primo, Raw, che includeva anche due personaggi di nome Alexia e Adrien, era un film horror raccapricciante ma con una metafora chiara e semplice: incentrato sulla formazione di una ragazza vegetariana cresciuta in un ambiente forzatamente vegetariano che a un certo punto si scopriva cannibale, mostrava come sia la famiglia in cui cresciamo a definire la nostra identità, spesso contrariamente alla nostra natura. E invece Titane pecca proprio di ambizione tematica, con le metafore che possono essere tantissime, oblique, e che per questo come in uno strano gioco algebrico si annullano. La bellezza di Crash, adattamento di JG Ballard, stava soprattutto in un assoluto impegno di Cronenberg nel mostrare, non nel raccontare, e nel suo rifiuto di addobbare il film con una qualsiasi struttura morale (il sesso era solo sesso, ed era così tanto e così bello che non aveva bisogno dei vincoli della narrazione). Titane ottiene l’effetto contrario.

Nel recensire Ducournau, il New York Times ha sintetizzato il parere di A.O. Scott nel titolo “Auto Erotic”, riferendosi non solo al momento migliore da guardare, ma esprimendo una certa lettura che intende il film come un’opera sulle suggestioni e sulle situazioni che per diverse ragioni (prima tra tutte, il dolore), ci autoconvinciamo siano reali. E a tratti Titane ci riesce anche, almeno fino a quando non inizia a naufragare in tutto questo, diventando un frustrante “body-horror for dummies” che invece di attivare quel meccanismo perverso per cui ci si sente allontanati dalla visione e contemporaneamente attratti (La mosca, Videodrome, Inseparabili, Santa Sangre, persino Raw) più che sconvolgere, annoia. Presentandosi quindi come un brutto film che ha il solo merito di aver sancito finalmente la vittoria di una seconda donna per la Palma d’oro, e speriamo che la prossima volta non sia necessario un altro incidente di percorso.