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Tre piani ma forse ne bastava uno

Dopo anni di assenza, Nanni Moretti è tornato con un nuovo film ora in sala: diversissimo dagli altri, tra alcuni aspetti interessanti e un problematico eccesso di trama.

di Antonio Pascale

Da Tre piani di Nanni Moretti, ora al cinema

Ai tempi – e oggi ancora non ho completamente smesso – combattevo contro le solite trame dei soliti film e mi lamentavo del fatto che la narrativa (un luogo di sperimentazione, in fondo) potesse sempre di più assomigliare a certi film con le solite trame. Il fastidio verso le solite trame, quelle genericamente chiamate in tre atti, con un percorso molto lineare che tendeva verso la redenzione del personaggio (c’era tanta pedagogia e voglia di puntare il dito: hai visto cosa succede se…), me l’aveva passato Nanni Moretti e fin dai suoi primi film che poi essendo classe ’66 ho visto per la prima volta su Rai Tre (ma erano già iniziati gli anni ’80).

Ai tempi, mentre alcuni vecchi critici si lamentavano di alcuni difetti di Moretti, e dagli contro la camera fissa, e dagli contro la recitazione e la scarnificazione e mi ricordo soprattutto di quel giudizio perentorio “non succede niente”, io e molti miei amici 18/20 enni pensavamo che al contrario in quei film accadeva tutto ciò che era importante e necessario nella vita: quei film raccontavano con consapevolezza critica (erano dei manifesti di critica) la fissità, la ritualità, le ossessioni. Elementi comici da una parte ma che servivano a nascondere l’insensatezza del vivere e il conseguente dolore di quei personaggi.

Come nelle strisce comiche che ai tempi leggevo su Linus, i personaggi sembravano non muoversi mai e invece nella fissità c’erano delle sfumare interessanti, molto belle, precise e poetiche. Con i loro movimenti accennati, con il rifiuto della drammatizzazione e del melodramma (o grazie alla critica della drammatizzazione o del melodramma), quei personaggi funzionavano da sismografi. E attenzione, mettevano in scena non tanto il solito terremoto, ma tutti i movimenti sotterranei e minimali che caratterizzano la vita umana in assenza di terremoto: non c’era bisogno dell’evento plateale, non moriva nessuno, non reagivi a un fatto plateale che giustificava la narrazione. Quei film ti lasciavano – sì certo divertito e critico – una strana aura poetica, per dirla alla Cechov (che Moretti ha citato solo una volta, in Habemus Papam): perché Iddio concede la bellezza e quegli occhi malinconici a uomini deboli, disperati, inutili e perché essi ci piacciono tanto?

Però poi Moretti, nel tempo, da artista inquieto qual è si è stancato di raccontare quello che gli girava attorno e ciò è giusto e segno di vitalità, e sempre di più ha cercato meccanismi narrativi che gli erano congeniali in quel momento. Un bisogno vitale per lui e comunque ha prodotto film molto belli e interessanti, sempre intelligenti (se leggete ancora oggi le vecchie interviste di Moretti, un po’ come quelle di De Gregori non sembrano invecchiate), film che solo lui poteva fare: erano, cioè, dei film sì con una trama ma sempre di Moretti.

E qui veniamo a Tre piani. Dopo anni di assenza – e immagino di ricerca della trama – Moretti firma un film che porta con sé un eccesso di trama. E con la trama arrivano anche alcune convenzioni psicologiche – i tre piani altro non sono che l’io tripartito di Freud – che trovo vetuste, anche alla luce di quello che abbiamo saputo sull’io e che proprio grazie a Moretti abbiamo imparato ad indagare. Ci sono tre storie e almeno due mi sono apparse meccaniche e mettici pure la recitazione di alcuni attori, molto semplice. Ma quella semplicità epurata da quegli aspetti di contestazione e di critica della recitazione tipica di Moretti, finiscono in alcuni momenti per far perdere forza all’intero impianto.

Anche se, ed è questo un punto importante, il film gira intorno alla dimensione del trauma che narrativamente parlando è di straordinario interesse, proprio per via dell’elaborazione complicata delle memorie traumatiche (chi ha subito un trauma non racconta mai l’evento in maniera lineare, non ci riesce). Tuttavia, questa elaborazione diventa lineare, meccanica e un po’ sfuggente, poco precisa anche per via della scelta di usare molto l’ellissi narrativa (il film va avanti in blocchi di 5 anni), scelta che appunto ti costringe a delle accelerazioni un po’ brutali e che ti impediscono di indagare come un sismografo sulle sfumature minime che il trauma produce.

Ma su tre storie, una mi ha invece molto colpito. Una coppia di giudici con un figlio scapestrato che all’inizio del film ubriaco investe una donna, uccidendola. Qui Moretti riesce, e ci sono momenti molto belli a raccontare il borghese. Borghese deriva dal tedesco burg che significa fortezza e all’inizio sottolineava una particolare forma di urbanizzazione, abitare in fortini. Qui sono due borghesi che abitano in un bel palazzo fortino, incapaci di ascoltare l’esterno e cioè, nella fattispecie, il sentimento del figlio. Convinti che l’interno vada difeso ad oltranza e mai messo in discussione.

Quei borghesi siamo noi, è il nostro io, che non ha molti piani, ma è capace di improvvisazioni che appunto solo i sismografi possono rilevare. In questa storia, il marito ordina di non vedere più il figlio colpevole e la moglie esegue e solo quando il marito sarà morto la fortezza potrà essere abbattuta (molti parlano rispetto a questo film della forza delle donne, ma non capisco cosa intendono). Una storia molto dura che si basa proprio sull’inamovibilità e fissità del borghese, e cioè il giudice (lo stesso Moretti). Senza redenzione, senza particolari colpi di scena e complicazioni, questa storia illumina il film. Insomma, forse ne bastava una, non i tre piani freudiana memoria ma uno solo, perché tanto, parliamoci chiaro, voi siete convinti di avere un io uno e trino? Di cui uno autentico nascosto da qualche parte? Che bisogna cercare e poi viene fuori? Se è così, allora vi meritate le storie con le solite trame.