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Anche stavolta il premio di Designer of the Year l’ha vinto Jonathan Anderson È la terza volta consecutiva, stavolta ha battuto Glenn Martens, Miuccia Prada, Rick Owens, Martin Rose e Willy Chavarria.
L’Oms ha detto che i farmaci come Ozempic dovrebbero essere disponibili per tutti e non solo per chi può permetterseli Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, in futuro bisognerà garantire l'accesso a questi farmaci a chiunque ne abbia bisogno.
Aphex Twin ha caricato a sorpresa su SoundCloud due nuovi brani ispirati a una vacanza in Sicilia Le tracce sono comparse a sorpresa e sarebbero state ispirate da una vacanza italiana del musicista, intristito dalla pioggia autunnale.
Il sindaco di Pesaro si è dovuto scusare perché ha coperto di ghiaccio la statua di Pavarotti per far spazio a una pista di pattinaggio Ma ha pure detto che Pavarotti resterà "congelato" fino a dopo l'Epifania: spostare la statua o rimuovere la pista sarebbe troppo costoso.
Siccome erano alleati nella Seconda guerra mondiale, la Cina vuole che Francia e Regno Unito la sostengano anche adesso nello scontro con il Giappone Indispettita dalle dichiarazioni giapponesi su Taiwan, la diplomazia cinese chiede adesso si appella anche alle vecchie alleanze.
È morto Tom Stoppard, sceneggiatore premio Oscar che ha reso Shakespeare pop Si è spento a ottantotto anni uno dei drammaturghi inglesi più amati del Novecento, che ha modernizzato Shakespeare al cinema e a teatro.
La tv argentina ha scambiato Gasperini per il truffatore che si era travestito da sua madre per riscuoterne la pensione Un meme molto condiviso sui social italiani è stato trasmesso dal tg argentino, che ha scambiato Gasperini per il Mrs. Doubtfire della truffa.
La parola dell’anno per l’Oxford English Dictionary è rage bait Si traduce come "esca per la rabbia" e descrive quei contenuti online il cui scopo è quello di farci incazzare e quindi interagire.

I giganti della tecnologia stanno comprando i giornali, ma possono salvarli?

Il Washington Post, l'Atlantic, e ora anche Time. Analisi di una tendenza che ha le sue luci ma anche qualche ombra.

25 Settembre 2018

Ormai si può parlare di un trend. L’ultimo capitolo è quello di Marc Benioff, fondatore e amministratore delegato di Salesforce, il gigante del cloud, che la scorsa settimana ha acquistato la rivista Time: 190 milioni di dollari pagati sull’unghia. L’anno scorso era stata la volta di Lauren Powell Jobs, la vedova di Steve Jobs, che attraverso la sua organizzazione Emerson Collective aveva comperato le quote di maggioranza dell’Atlantic. Il caso più emblematico, probabilmente, è quello di Jeff Bezos, il proprietario e fondatore di Amazon, nonché uomo più ricco del mondo, che ha acquistato il Washington Post nel 2013. Più recentemente Patrick Soon-Shiong, il tycoon delle biotecnologie, ha acquisito le quote di maggioranza del Los Angeles Times, di cui era già socio di minoranza. Abbondano i magnati del tech, un settore che in questi anni sta andando particolarmente bene, che si comprano giornali, un settore che invece se la passa piuttosto male.

Manca solo Mark Zuckerberg, verrebbe da dire, anche se lo strapotere di Facebook sull’informazione è tale che, per dire, un New York Times in mano a Zuckerberg sarebbe estremamente inquietante, e questo lui lo sa. C’è stato però il caso di un altro co-fondatore dl Facebook, Chris Hughes, che una testata se l’era comprata: nel 2012 Hughes aveva rilevato The New Republic, rivista prestigiosa ma in difficoltà. L’esperimento durò poco e infatti finì – male – nel 2016. L’implosione di TNR è stato uno dei casi editoriali di questi anni e infatti nessuno s’è sorpreso quando lo storico, seppure relativamente giovane, direttore della testata, Franklin Foer, ha pubblicato un libro contro la Silicon Valley. Il titolo è tutto un programma: World Without Mind: The Existential Threat of Big Tech, uscito proprio in questi giorni in italiano come I nuovi poteri forti. Come Google, Apple, Facebook e Amazon pensano per noi (Longanesi).

I miliardari della tecnologia, si diceva, si stanno comprando i giornali. E la cosa solleva due domande. Primo: perché? E, secondo: è una buona cosa? Insomma, davvero la Silicon Valley può salvare l’editoria in crisi, visto che la rivoluzione tecnologica ha contribuito a mettere in crisi l’editoria? A queste due domande, e a qualche altra, ha dedicato un editoriale interessante Kara Swisher sul New York Times. Più che offrire risposte aiuta a inquadrare meglio la questione (un’ammissione personale: scrivo, retribuita, su due dei sopracitati giornali americani comprati da tech-magnati, dunque non ho la pretesa di essere un osservatore imparziale).  Come per il libro di Foer, anche qui titolo la dice lunga: «Can people who almost brought down the news business save it?».

Perché i signori della Silicon Valley si stanno comprando i giornali? Su questo Swisher in principio è brutale: «Questa abbuffata di acquisti editoriali può essere spiegata con due parole: perché possono. E, volendo, con altre cinque parole: perché i media costano poco». Poi però la commentatrice avanza altre ipotesi: «Perché una rivista e non una squadra di calcio, visto che l’editoria è un campo più caotico e incerto? Forse perché offre una miscela inebriante di altruismo, potere ed ego». Sul «potere» forse ci sarebbe da ridire: se sei l’uomo più ricco del mondo, se sei entrato nelle case di tutti i consumatori del globo e hai database sterminati, non hai bisogno di una testata per avere potere. Sull’«ego» e sull’«altruismo» (e solo gli ingenui possono credere che siano principi antitetici), l’editorialista però coglie il segno.

Il punto non è che avere un giornale fa figo, il punto è che possedere un giornale permette di presentarti, e pensare a te stesso, come un salvatore dell’informazione libera, in una fase storica in cui l’informazione libera è in crisi, per questioni di modelli economici ma anche socio-culturali (l’effetto bolla, le fake news, la polarizzazione, l’overdose di contenuti, eccetera). Anche se è ancora presto per giudicare il loro operato, scrive Swisher, sia Benioff che la signora Jobs sostengono che il loro interesse è semplicemente sostenere il quarto potere. Quanto a Bezos, «Trump lo accusa spesso di avere comprato il Washington Post per avere una maggiore influenza, ma per il momento sembra che semplicemente gli piaccia possedere un giornale che sta andando a gonfie vele». Del Washington Post, Bezos non ha parlato molto nell’intervista a Forbes, che lo ha messo nella sua ultima copertina. Però ne aveva parlato all’Economic Club di Washington: ha deciso di immischiarsi nelle sorti del giornale perché era convinto che il Post avesse «un ruolo incredibilmente importante da svolgere in questa democrazia».

Nell’era Trump, sia il Post sia l’Atlantic stanno facendo un gran lavoro, anche grazie ai soldi immessi dai loro nuovi proprietari. In tutto questo, c’è però «un’ironia terribile: coloro che ci hanno quasi uccisi ci stanno rendendo più forti», scrive Swisher. Che prosegue, parlando a nome della categoria dei giornalisti: «Ci dà la nausea trovarci a dipendere dalla generosità di persone la cui ricchezza è il risultato diretto della stessa era digitale che ha messo in difficoltà i media, un tempo potenti». Allora, chi ha quasi distrutto il business del giornalismo può davvero salvarlo? Questa domanda però ne solleva un’altra, forse un po’ meno ideologica ma più scomoda: se la salvezza dei giornali dipende dalla generosità della Silicon Valley, chi vigila sulla Silicon Valley? Non è una questione da poco, in un periodo in cui il rapporto tra tecnologia e democrazia è sempre più delicato. Tra le più grandi storie di quest’anno, segnaliamo il caso Cambridge Analytica e la mega-inchiesta su Facebook. Lo scoop su Cambridge Analytica l’hanno fatto il New York Times e il Guardian, mentre la mega-inchiesta su Facebook è di Wired. Nessuna di queste tre testate appartiene a un miliardario della Silicon Valley.

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