Cultura | Cinema
The Menu, un cheeseburger ci libererà
Il film di Mark Mylod è una satira anti-fine dining, una presa in giro a chef megalomani e clienti pretenziosi.
Nella sua serie No Seconds, il fotografo Henry Hargreaves esplora il tema della pena di morte, ricreando gli ultimi pasti dei detenuti del braccio della morte giustiziati in Texas. La tradizione del “Last Meal”, ispirata alla storia cristiana dell’Ultima Cena, offriva ai condannati a morte – fino al 2011 – la magra consolazione di richiedere un pasto finale a loro scelta prima dell’esecuzione. Tra le cene ricreate da Hargreaves per la sua serie, si possono trovare le espressioni più intime di cosa possa essere un ultimo pasto degno di questo nome. Dalla coda di aragosta di Ronnie Lee Gardner al vassoio vuoto di Angel Nieves Diaz, i pasti richiesti dicono qualcosa di chi sta per morire?
The Menu, il film del regista Mark Mylod e scritto da Seth Reiss e Will Tracy appena uscito nelle sale, ribalta la questione e tiene incollati gli spettatori a una “Ultima cena” dove il menù è già deciso in ogni dettaglio, fino a includere la sorte stessa degli astanti. Una cena che, pur non essendo caratterizzata dal libero arbitrio, dice moltissimo dei fruitori: il lungometraggio è meravigliosamente culinario ma anche denso di commenti pungenti sulla classe sociale, l’idolatria e il consumismo che si estendono ben oltre la sala da pranzo e la cucina.
Il ristorante (fittizio) altamente esclusivo al centro di questo nuovo thriller satirico, chiamato Hawthorn, è situato su un’isola privata e gestito dall’enigmatico chef Julian Slowik, interpretato da Ralph Fiennes. All’inizio del film vengono presentati gli altri protagonisti: un ristretto mix di persone che si imbarca su un traghetto per raggiungere la destinazione dove avrà luogo la loro cena esclusiva, al costo di 1250 dollari a persona. «Cos’è, stiamo mangiando un Rolex?», dice una delle ospiti, Margot (Anya Taylor-Joy), al suo accompagnatore, Tyler (Nicholas Hoult), mentre aspettano l’arrivo della barca. Lui si considera un intenditore di cucina, o peggio un “foodie”, come verrà definito più tardi, e sognava questa serata da tempo; lei è una cinica che sta al gioco. Sono belli e stanno benissimo insieme, ma c’è molto di più in questa relazione di quanto non sembri nelle prime battute.
A bordo troviamo anche un attore un tempo popolare (John Leguizamo) e la sua assistente (Aimee Carrero), tre tech bros fastidiosi (Rob Yang, Arturo Castro e Mark St. Cyr), un uomo anziano e ricco e sua moglie (Reed Birney e Judith Light), e una prestigiosa critica gastronomica (Janet McTeer) con il suo editor leccaculo (Paul Adelstein). Un assortimento di clienti super ricchi, dotati più di denaro che di gusto, accomunati dalla tracotanza del loro status e dall’illusione di essere competenti quanto il maestro chef. Tutti pendono dalle sue labbra, galvanizzati dal fatto di essere i prescelti.
Il trattamento personalizzato che ogni ospite riceve all’inizio sembra premuroso, le coccole che queste persone si aspettano quando pagano un prezzo così alto. Col proseguimento della cena, però, i piatti appositamente studiati assumono un tono invadente e sinistro, i commensali iniziano a sentirsi bersagli e in sala si manifesta una tensione che non sparisce più. Il servizio rimane rigido e preciso, anche se l’atmosfera si fa caotica, proprio come durante il servizio della portata “The Mess”, che segna una svolta a tinte horror del menù degustazione. Quella cui lo spettatore assiste è una pièce teatrale ritmata, dove gli atti sono scanditi dal fragoroso battito di mani dello chef — cui segue sempre il “Sì, chef!“ della fedele brigata — e dai nomi delle portate del menù scritti in sovrimpressione su video segmenti che mostrano gli spettacolari piatti appena serviti. Una citazione dichiarata di Chef’s Table, che viene anche nominato nel film.
Chi ha avuto occasione di provare almeno una volta nella vita un ristorante fine dining, troverà nella pellicola una rappresentazione esasperata ma tragicamente verosimile dell’esperienza, come i frequentatori assidui amano chiamarla. All’inizio della cena lo chef Slowik puntualizza: «Nelle prossime ore ingerirete sale, zucchero, proteine, batteri, funghi, varie piante e animali. E a volte interi ecosistemi. Ma devo pregarvi di una cosa, solo una. Non mangiate. Gustate. Assaporate. Apprezzate ogni boccone che mettete in bocca. Siate consapevoli. Ma non mangiate, il nostro menù è troppo prezioso per questo». Come nel mondo reale, più il livello di esperienza cui si ha accesso è alto, più questa acquisisce sacralità e ci si affida completamente alle mani dell’istrionico chef di turno, che si crede abbia la facoltà di sapere cos’è meglio per noi. In questo tipo di ristorazione, infatti, si tende a scoraggiare l’uso del menù alla carta a favore di percorsi di degustazione predeterminati che solo apparentemente sono pensati per soddisfare il palato dei clienti in un viaggio metaforico tra gelificazioni, sferificazioni e emulsificazioni. La realtà, diciamolo, è che sono studiati per nutrire l’ego dello chef. In The Menu ne abbiamo piena consapevolezza quando arriva la portata del «piatto di pane senza pane»: il pane è per i contadini, dice lo chef, quindi a questi ospiti privilegiati non viene servito alcun pane con i loro oli da intingere; una presa per i fondelli che però la maggior parte dei commensali spalleggia in nome dell’estro di Slowik. Non è forse quello che è successo negli anni della cucina molecolare?
E così come ai protagonisti del film è impedito di lasciare l’isola in quanto eventualità non prevista nella pianificazione dello chef, anche nei ristoranti reali siamo costretti a rimanere incollati al tavolo per serie estenuanti di portate, sempre e solo per amore dell’esperienza. Una sensazione claustrofobica, non puoi andartene, sei tenuto in ostaggio di una storia che ti raccontano per ore. E per non parlare dello stress delle continue interazioni con il personale di sala, il dover dare rimandi puntuali alla fine di ogni portata, che tra l’altro non possono mai essere banalità come “buono!” o “mi è piaciuto!”, è sempre necessario darsi un tono per ostentare gusto e conoscenza.
L’unico sollievo da tutto questo, la voce fuori dal coro che tutti vorremmo essere, è Margot, l’eroina del film, interpretata egregiamente da Anya Taylor-Joy, l’unica sana di mente in questa follia collettiva che è il circo della ristorazione fine dining e tutta la sua narrazione; lei che fuma sigarette noncurante degli effetti nocivi sul suo palato e lei coraggiosamente indifferente nei confronti di quel cibo e di quell’esperienza. In uno scenario in cui anche i critici gastronomici (come Lillian Bloom nel film) sono diventate semplici marchette in cambio di prestigio, la nostra eroina offre l’unica via d’uscita possibile: sovvertire il sistema nelle sue regole riportando al centro della ristorazione il cliente, l’amore e l’originale funzione nutritiva del servizio. Lei è la sola capace di far tornare il sorriso per qualche istante allo chef Slowik – inaridito dall’ossessione di soddisfare una clientela che non può mai essere soddisfatta veramente – che negli attimi finali del film mette in scena, su ordine di Margot, la scienza esatta del cheeseburger, simbolo per eccellenza del comfort food americano e unico piatto di un film tutto gastronomico a far venire finalmente l’acquolina in bocca allo spettatore.