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Se volete leggere tutto il Manifesto di Ventotene, è scaricabile dal sito del Senato. Così capirete se questa Europa è la vostra oppure no, come ha detto Giorgia Meloni alla Camera.
Il governo francese invierà un manuale di sopravvivenza alla guerra in tutte le case del Paese. L'obiettivo è fare in modo che tutti sappiano affrontare «minacce imminenti», hanno riferito fonti vicine al Primo ministro Bayrou.
Quella volta che Nadia Cassini rischiò di andare in carcere per aver mostrato il perizoma in tv. L'attrice, protagonista della commedia sexy all'italiana, è morta oggi a 76 anni.

The Legend of Zelda, tra videogioco e arte

Breve storia di una delle amate e influenti saghe videoludiche di tutti i tempi, di cui è appena uscito un nuovo capitolo, Tears of the Kingdom.

16 Maggio 2023

La prima e unica volta che mi sono perso dentro un videogioco è successo con The Legend of Zelda. Perso in più sensi, in quasi tutti i sensi, in realtà. È un fenomeno difficile sia da descrivere che da spiegare, quasi incomprensibile per chi non sia ammalato di gaming cronico. Arriva un momento in un’esperienza videoludica che sia davvero immersiva in cui i confini tra le parti di questa esperienza (videogioco e giocatore) diventano estremamente porosi. Dopo ore passate a giocare a un videogioco, si perde la consapevolezza di essere “contenuti” nel proprio corpo e di esistere nel nostro mondo. La visione del giocatore diventa tubularissima. Le pareti del mondo arrivano a coincidere perfettamente con i bordi dello schermo. L’udito diventa selettivo: anche senza l’aiuto di cuffie pensate per l’isolamento acustico, si arriva a sentire solo i suoni che escono dalle casse (è la ragione per la quale un vero gamer non risponderà mai al telefono mentre sta giocando: non si tratta di ignorare apposta ma di non sentire proprio). A me capita di non rendermi più conto dei movimenti delle mie mani, ma di avvertire le braccia del personaggio che sto muovendo tramite controller come prolungamenti delle mie, vibrazioni, riverberi e spostamenti dell’aria, una sorta di sindrome dell’arto fantasma al contrario. Non succede con tutti i videogiochi, ovviamente. Succede con The Legend of Zelda, di sicuro. Mi è successo con Breath of the Wild, personalmente.

A questa saga vecchia ormai quasi quarant’anni – il primo capitolo è del 1986, lo si giocava su Nintendo Famicom e poi su Nes, negli anni ha vissuto tutte le incarnazioni possibili di un videogioco, dalla cartuccia al download – il 12 maggio si è aggiunto Tears of the Kingdom. Ovviamente, si tratta di uno dei giochi più attesi dell’anno. Per capirci: quando esce un nuovo capitolo di Zelda, i giornalisti di settore scrivono pezzi come quello scritto da Keza McDonald sul Guardian lo scorso 26 aprile: “Due ore con The Legend of Zelda”, resoconto di una visita presso il quartier generale di Nintendo Europa, gentile concessione per pochissimi privilegiati. Ovviamente, Tears of the Kingdom è già il gioco meglio recensito dell’anno, diverrà uno dei meglio recensiti di sempre. Il consenso è tale che su Kotaku hanno pubblicato un pezzo dedicato alla per il momento unica opinione “negativa” scritta a riguardo. Titolo: “È una buona cosa che qualcuno abbia dato 6/10 a Zelda”.

Ovviamente, di Tears of the Kingdom si stanno dicendo e scrivendo le cose inevitabili: il sense of wonder, la meraviglia dell’esplorazione, la gioia della scoperta. D’altronde, il gioco nasce dall’hobby d’infanzia del suo creatore, Shigeru Miyamoto (la persona che nel mondo videoludico più si avvicina a un padre fondatore: Super Mario e Donkey Kong sono pure creazioni sue). Sin da bambino gli è sempre piaciuto fare escursioni solitarie nella campagna attorno a Sonobe, paesino non troppo distante da Kyoto. Zelda è stato il suo modo di condividere quel piacere e quei ricordi. Quando il mondo era ancora una cosa che si poteva toccare e i videogiochi ancora oggetti da possedere, il primo capitolo della saga di Zelda veniva venduto assieme a una mappa e con una promessa: «Anche nei posti in cui non te lo aspetteresti mai ci sono tesori nascosti». Ecco, la migliore approssimazione dell’emozione che si prova ad avviare un nuovo videogioco della serie è questa: la sensazione ancestrale di aprire e stendere davanti a sé una mappa e di avere infiniti tesori da scoprire, siano essi luoghi, oggetti o storie con i quali provare a ricomporre una mitologia che resta oscura, frammentata e misteriosa ancora oggi.

Miyamoto ormai ha settant’anni e dello sviluppo dei videogiochi non deve più preoccuparsi, pur mantenendo un potere pressoché «assoluto» (così lo hanno definito tutti quelli che hanno lavorato sui “suoi” franchise) sugli stessi. È da questa autorità inviolabile che vengono le certezze della saga di Zelda: è sempre la storia di un misterioso bambino guerriero di nome Link – una rielaborazione nipponica di Peter Pan – di una principessa da salvare che si chiama Zelda e di un mondo che per una ragione o per un’altra rischia di sparire. La storia più vecchia del mondo, durata quarant’anni grazie alle interpretazioni individuali di chi con questo canovaccio obbligatorio si è trovato a lavorare. Dal 1986 a oggi Link è stato un cartone animato e un eroe tragico, un cavaliere senza macchia e senza paura e un bambino privato della sua infanzia, il suo mondo – Hyrule – minacciato da piaghe e guerre e stregoni malvagi. A tenere tutto e sempre assieme il desiderio di Miyamoto di comporre un’epopea sulla libertà, sfidando di volta in volta i canoni dell’industria e i limiti della tecnologia. In quasi quarant’anni, ogni volta Zelda ha dato ai suoi giocatori il massimo grado di libertà che i tempi e le circostanze concedevano. All’inizio era un dungeon in due dimensioni in cui la libertà consisteva nello scegliere una tra tre direzioni in cui proseguire. Ora è un mondo intero – da Breath of the Wild, Zelda è diventato l’open world che ha ridefinito il concetto stesso di open world – costruito con tecnologie inimmaginabili (ray tracing, rasterization, hybrid rendering, parole che fanno vibrare fortissimo le corde dell’animo di un vero nerd) quando questa storia è stata raccontata la prima volta.

E grazie all’avanzamento tecnologico Miyamoto, e/o chi per lui, ha potuto realizzare la sua intenzione iniziale: fare un videogioco così libero da superare i confini del mezzo, riscrivendo la natura stessa dell’esperienza videoludica, da sempre basata sul raggiungimento di un obiettivo (il premio) attraverso il completamento di una missione (la quest). I mondi di Breath of the Wild e, sono sicuro, anche Tears of the Kingdom, esistono in quanto tali, senza uno scopo né una ragione: proprio come un mondo vero e proprio, da esplorare e in cui perdersi. «Volevo creare un giardino in miniatura, da mettere in un cassetto e in cui tornare a proprio piacimento», così Miyamoto ha sempre spiegato l’immaginazione dietro Zelda. E la missione l’ha compiuta, alla fine: oggi Zelda è proprio come uno dei mondi lillipuziani prodotti dai classici della letteratura fantastica, è un diorama artistico che riproduce pianeti inesistenti eppure reali nell’universo personale di tantissimi (dal punto di vista dell’influenza che ha avuto nell’industria, Zelda vale The Velvet Underground & Nico nella musica, Nascita di una nazione nel cinema, The Spirit nel fumetto: c’è chi ha deciso cosa fare della propria vita dopo averlo scoperto e giocato). Se esiste una discussione sui videogiochi come arte, e addirittura come decima arte, è anche (e soprattutto) grazie ad autori come Miyamoto e a saghe come quella di Zelda.

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