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17:01 martedì 18 novembre 2025
La cosa più discussa del prossimo Met Gala non è il tema scelto ma il fatto che lo finanzierà Jeff Bezos Il titolo e il tema del Met Gala di quest'anno è Costume Art, un'edizione realizzata anche grazie al generoso investimento di Bezos e consorte.
Per la prima volta è stata pubblicata la colonna sonora di Una mamma per amica In occasione del 25esimo anniversario della serie, su tutte le piattaforme è arrivata una playlist contenente i migliori 18 brani della serie.
Jeff Bezos ha appena lanciato Project Prometheus, la sua startup AI che vale già 6 miliardi di dollari Si occuperà di costruire una AI capace poi di costruire a sua volta, tutta da sola, computer, automobili e veicoli spaziali.
Le gemelle Kessler avevano detto di voler morire insieme ed è esattamente quello che hanno fatto Alice ed Ellen Kessler avevano 89 anni, sono state ritrovate nella loro casa di Grünwald, nei pressi di Monaco di Baviera. La polizia ha aperto un'indagine per accertare le circostanze della morte.
Vine sta per tornare e sarà il primo social apertamente anti AI Jack Dorsey, il fondatore di Twitter, ha deciso di resuscitarlo. A una condizione: sarà vietato qualsiasi contenuto generato con l'intelligenza artificiale.
C’è una app che permette di parlare con avatar AI dei propri amici e parenti morti, e ovviamente non piace a nessuno Se vi ricorda un episodio di Black Mirror è perché c'è un episodio di Black Mirror in cui si racconta una storia quasi identica. Non andava a finire bene.
In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.

Innamorarsi di The Eddy anche senza trama

Con molti difetti nella storia, la forza della serie di Damien Chazelle risiede nei dettagli, in Parigi e nel jazz.

27 Maggio 2020

A gennaio, leggendo un’intervista del New Yorker al leggendario sassofonista Pharoah Sanders, avevo appuntato la frase: «I musicisti jazz hanno da sempre il ruolo privilegiato di “saper dire qualcosa”», una frase che mi è tornata in mente in queste settimane, guardando la serie originale Netflix The Eddy, realizzata tra gli altri da Jack Thorne, Glen Ballard, Houda Benyamina e Damien Chazelle (premio Oscar con La La Land) che ha scritto e diretto i primi due episodi: il racconto di una Parigi multietnica, l’amore, il tempo, gli accordi di tensione e risoluzione tipici del jazz. Tutti i motivi per cui vedere la serie, trascurandone la trama principale.

Presentata in anteprima all’ultima Berlinale, The Eddy parte da Parigi, raccontando i suoi personaggi e il desiderio di rifugiarsi al riparo dal mondo esterno al The Eddy, un club fondato dal protagonista Elliot Udo – geniale pianista jazz americano che non suona più dalla scomparsa del figlio – e dal suo amico Farid. Sul palco ogni sera (anche se la linea temporale è abbastanza complessa, non riusciamo mai a comprendere quanti giorni siano passati tra un’esibizione e l’altra) suona la band jazz che dà il nome al locale, The Eddy appunto, composta da veri musicisti (l’unica attrice professionista del gruppo è Joanna Kuling, volto indimenticabile di Cold War). Elliot non parla molto, salvo arrabbiarsi praticamente con tutti, e si limita a comporre brani fino all’arrivo della figlia sedicenne fuggita da New York, proprio mentre il locale è alle strette, tra debiti, pochi incassi, affari poco chiari e un omicidio che dalla prima puntata si prefigura come l’evento cardine di tutto, l’origine della storia. Ed è un peccato.

Perché più The Eddy vuole avanzare nella trama centrale – la risoluzione dell’omicidio – meno efficace diventa, quando invece «è proprio nel suo essere così pregno di dettagli, nella sua volontà di insediarsi nei contorni che appare quale un’opera viva», come ha scritto il Los Angeles Times. Memorabile nelle zone periferiche, in tutto quello che non sta al centro, sublime nei particolari, nelle scene che non fanno progredire la trama. Come i cinque minuti di jam session araba in un angolo trascurato della città, l’intensità profonda del contrabbasso su cui risuonano sempre i sentimenti dei protagonisti, la combinazione di lingue diverse, francese, inglese, arabo, polacco.

Anche il dialogo migliora quanto più ci si allontana dalla linea centrale, seguendo una struttura suggerita dalla miniserie stessa in cui ogni episodio è dedicato a uno dei protagonisti e al suo background più o meno inquieto (tanto che alcune puntate potrebbero essere cortometraggi indipendenti, come la più bella, quella dedicata al bassista Jude e al suo incontro con l’ex fidanzata che sta per sposarsi), che coinvolge abuso di droghe, povertà, varie forme di caos da cui il The Eddy offre una difesa. Li sostiene, come luogo di relativa calma in cui radunarsi per creare alcuni momenti di puro incanto musicale, prima che la corrente della vita se li porti via di nuovo. Con il pubblico, attento ad ascoltarli come fosse al Café Carlyle – in cui spesso si aggira pure Woody Allen insieme alla New Orleans Jazz Band – o al leggendario Cotton Club di New York. E con noi a guardare tutto questo dai nostri appartamenti, e vorremmo essere lì, a farci andare bene anche l’odore di cantina.

È chiaro che in The Eddy, a evocare atmosfere simili sia soprattutto la musica, ma non tanto quella originale della serie, più pop che jazz (il cuore del progetto è Glen Ballard, musicista e produttore con sei Grammy all’attivo che ha iniziato a lavorare ai brani già nel 2013), quanto alle incursioni di Fats Waller con “Crazy Bout My Baby”, di Duke Ellington e la sua orchestra, e del desiderio che tutto questo produce: riascoltare Kind of Blue (l’ultimo superstite del disco jazz tra i più venduti nella storia, il batterista Jimmy Cobb, è scomparso pochi giorni fa), John Coltrane, Art Tatum, chiedersi quanti Mal Waldron siano esistiti – almeno due, visto la straordinaria differenza tra composizioni come “All Alone” ed “Epistrophy”. È la forza di The Eddy, portarti là dove non ti porterà la sua storia. Elliot siede allo Steinway, suona il primo accordo, ci dimentichiamo che esista il mondo.

Se in Whiplash di Chazelle tutto era rigore, disciplina e sincrono, The Eddy mette in luce il valore dell’improvvisazione, tanto che tutti gli intermezzi musicali sono stati filmati come esibizioni live e, come dichiarato dagli interpreti, spesso evitando di seguire lo spartito. Quell’improvvisazione che è insita nel jazz come mi raccontava un introversissimo insegnante di pianoforte, che ti fa gettare uno sguardo dentro, e che per un po’ non ci sarà consentita, dovendo seguire necessariamente regole e schemi in linea con le misure di prevenzione. Ascoltare jazz in quarantena, ascoltarlo dopo, anche quando tutto questo sarà finito, che magari è come la “nota blu” del genere, dissonante e malinconica, ma di passaggio in un fraseggio musicale. Quando andremo in un locale di musica jazz, torneremo a Parigi, a canticchiare a tempo riproducendo con la voce il ritmo degli strumenti, come Ella Fitzgerald in “One note Samba”, «tudadu bom tadu».

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