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The Bear 2: una serie tv può tradirci?

Com'è la seconda stagione di una delle serie più amate dello scorso anno, da poco disponibile su Disney+.

di Davide Coppo

Questa doveva essere una stroncatura, ma alla fine non lo sarà. Ero convinto lo dovesse essere, dopo aver visto le prime tre puntate della seconda stagione di The Bear, la cui prima stagione, invece, mi aveva colpito come uno dei prodotti televisivi più esaltanti che avessi incontrato in molti anni. Avevo quindi scritto un messaggio ai miei colleghi per prendermi il pezzo prima che lo facesse qualcun altro, ed ero sicuro che sarebbe successo. Poi, la quarta puntata mi ha fatto dubitare degli appunti che avevo già iniziato a buttare giù. La quinta, la sesta, e via così fino alla decima mi hanno definitivamente convinto che non si sarebbe più trattato di un giudizio negativo. Piuttosto, di una riflessione. Che parte da una domanda: ci si può sentire traditi da una serie tv?

The Bear, uscito per la prima volta a ottobre 2022 in Italia, sembrava un oggetto alieno perché la narrazione era tesa e nervosa come quella di nessun altro prodotto simile. In un’epoca in cui abbiamo abbondantemente superato il “peak” di successo delle serie tv, in cui lo storytelling è annacquato quasi sempre e molti prodotti seriali fanno pensare “questo poteva essere un semplice film”, The Bear si è presentato come un uragano, un tavolo rovesciato, un atto rivoluzionario. Non tanto per che cosa raccontava – la trasformazione di una “cucina da incubo” in un piccolo ristorante funzionale e ordinato, e dei rapporti umani di quel posto allo stesso modo – ma per il come. Puntate da 30 minuti con il ritmo di un videoclip degli anni Novanta, di un romanzo di Bret Easton Ellis, molti rumori ambientali, molte urla, scene sincopate, corpi che si urtano, padelle che bruciano. Pura ansia, panico e velocità, che sono poi gli ingredienti principali di ogni cucina del mondo. Dalla scenografia di quella piccola cucina, in The Bear stagione uno, non si usciva quasi mai. Era quasi una serie concept, per il coraggio di quel montaggio. Il successo è stato enorme. Proprio a causa di questo successo, la seconda stagione è profondamente diversa. Al limite del tradimento.

Se la prima The Bear viveva di contrasti molto forti in uno spazio molto piccolo sotto la direzione di un unico protagonista in grado di dominare le scene (lo chef Carmy Berzatto), la seconda stagione fa il contrario: ogni puntata è dedicata a esplorare la crescita personale e professionale di un personaggio della brigata. Di conseguenza, le ambientazioni spaziano: non c’è più solo Chicago ma pure la Danimarca, non solo The Original Beef (o The Bear) ma altri ristoranti stellati, e poi case private, scuole di cucina, fino a una puntata speciale lunga un’intera ora, un flashback ambientato durante un vecchio pranzo di Natale.

Per chi si era affezionato non tanto ai personaggi, ma al modo in cui questi vivevano e si muovevano nelle puntate, lo shock di ritmo è sensibile. Dovendo seguire tutte queste storie personali, la narrazione di The Bear 2 procede lentamente, si arricchisce di momenti di riflessione e di musiche, di malinconie e ricordi. E niente più vita di cucina, niente più lotta contro il tempo e spazio per consegnare quell’ordine, niente più ansia, niente più vita… reale, mi verrebbe da dire. Invece, ecco degli scenari alla Chef’s Table, perché parte della brigata, mentre sono in corso i lavori di ristrutturazione del futuro The Bear, se ne va in stage in ristoranti stellati, e quindi non padelle in fiamme ma piatti minimal e colorati e puliti e molto bianchi con poco cibo geometrico dentro. Cucine ampie e vuote e tutte in acciaio inox bello pulito. E anche quello che c’era di politico nella prima stagione, allora, cambia prospettiva.

Se tutto lo stress che si viveva nella cucina di The Original Beef poteva essere letto come una denuncia del mondo del lavoro in senso più ampio, quest’elemento si sgonfia in favore di una narrazione sulla crescita personale e sull’inseguire i propri sogni. È ancora fortemente disfunzionale il team del ristorante quando si riunisce, ma non è più quello il principale filone narrativo. Sì, ci sono ancora critiche al mondo della ristorazione, e sono vere e giuste: come quando Uncle Jimmy Cicero parla con Carmy e dice: «Questo mestiere, come molti altri mestieri, fa schifo. Ma questo in particolare fa schifo molto di più, perché i margini di guadagno sono inesistenti», o quando in un discorso tra Syd e il padre si dice che «Questo lavoro non paga molto, non conta niente e non ha nemmeno troppo senso» (traduco liberamente dalla versione originale, perché non l’ho visto in italiano, in cui la terminologia sarà diversa). Ma questo nuovo The Bear cresce come una storia di successo che apparentemente non incontrerà intoppi, una serie di formazione in tutto e per tutto.

Alla fine gli intoppi ci saranno, per quanto minori, e se molti personaggi avranno completato la loro evoluzione alcuni non ce l’avranno ancora fatta del tutto. E The Bear 2 è una serie ben scritta, piena di emozioni, che mi ha fatto piangere ed emozionare. Però è una serie più normale di com’era, più simile ad altri prodotti televisivi che sono sempre ben fatti, e ben scritti, e ben recitati, ma esistono già. Se la prima stagione era così forte perché parlava di un’impresa che anche noi potevamo fare – prendere un buco di posto e farci il culo, e senza soldi farlo funzionare meglio, dargli una dignità, farlo divertendosi e stressandosi – qui c’è di mezzo l’ambizione stellata, il Noma, la sensazione di essere dentro un documentario, di voler diventare élite. Una serie tv può tradirci, quindi? Sì, ma può farlo rimanendo un grande prodotto narrativo. È quello che succede quando il gruppo punk del primo disco diventa un gruppo pop dopo aver firmato con la major. Lo ascolteremo ancora e ancora ci piacerà, ma ogni tanto diremo: non sono più quelli del primo disco.