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Cos’è rimasto del teen drama

A quattordici anni da The O.C. e dieci da Skins il telefilm per adolescenti, un genere che sembrava finito, torna a far parlare di sé con alcuni titoli interessanti.

02 Febbraio 2017

Se leggendo il sottotitolo di questo pezzo vi siete ritrovati a ripetere «quattordici» non senza aver prima avvertito un brivido, vuol dire che appartenete quasi certamente a quel folto gruppo di persone che sentono il glorioso 2003 come un anno ancora vicino, e per i più svariati motivi. Magari frequentavate le superiori (quindi no, non può essere così vicino) e ricordate che era l’anno in cui debuttava The O.C., la serie tv scritta dal semisconosciuto Josh Schwartz, quella delle feste eleganti che puntualmente finivano in rissa: l’esordio avviene in sordina, ma ben presto diventa un caso internazionale. A voler fare un po’ di storiografia televisiva spicciola, il 2003 è anche l’anno in cui finiva Dawson’s Creek, la cui prima puntata è andata in onda nel 1998 e, in una sorta di cambio della guardia un po’ a scoppio ritardato, ci venivano consegnati gli idoli-delle-ragazzine degli anni Duemila, quelli che avrebbero riempito le riviste non ancora in crisi. Beverly Hills 90210, dopotutto, ha chiuso i battenti proprio allo scoccare del nuovo millennio (l’ultima puntata è andata in onda il 17 maggio del 2000) segnando un record – quello delle dieci stagioni – che pochi telefilm per adolescenti, e serie tv in generale, avrebbero poi raggiunto. E se questa cosa della spirale del teen drama un po’ vi ha preso, magari ricordate anche un altro anno fondamentale per la cultura pop, il 2007 – quello di Britney che impazzisce, per intenderci – in cui ha chiuso The O.C. dopo una quarta stagione priva di senso e di Marissa Cooper, ed è iniziato sul canale E4, in Inghilterra, Skins, che solo qualche giorno fa ha festeggiato i suoi primi dieci anni. (Sì, dieci anni.)

Skins sarà più o meno l’ultima volta che quelli che erano in terza superiore nel 2003 prenderanno parte a un fenomeno adolescenziale, ma in qualche modo segnerà anche un certo sfiorire del genere del teen drama, evento che noi italiani cresciuti a repliche (e ancora per la maggior parte sprovvisti delle armi del download illegale) avremmo vissuto con qualche anno di ritardo. Certo, nel mezzo ci sono stati Roswell, One Tree Hill, Gossip Girl, Pretty Little Liars e naturalmente Gilmore Girls, che nella categoria ci entra un po’ a forza, ma fatto sta che nell’epoca d’oro delle serie tv, il cui inizio potremmo collocare per convenzione proprio a cavallo fra il 2007 e il 2008, quanto finivano The Wire e I Soprano e iniziavano Mad Men e Breaking Bad, abbiamo quasi finito per dimenticare che il telefilm adolescenziale era uno dei format che più hanno caratterizzato la serialità, prima che quest’ultima diventasse il nuovo cinema intellettuale.

Ci siamo abituati a seguire le vicende epiche di famiglie il cui albero genealogico comprende dei draghi e ci siamo lasciati angosciare dai racconti apocalittici su come la tecnologia ci porterà alla fine del mondo, convinti da produzioni come Girls che la fascia più vulnerabile della popolazione non fossero più gli adolescenti alle prese con il liceo, le droghe e il ballo della scuola, i giovani per davvero insomma, ma i venti-trentenni neo laureati in cerca di occupazione. Sì, abbiamo ritrovato alcuni teenager televisivi all’interno di storie più ampie (come in Modern Family) o protagonisti di serial mainstream (come in Braccialetti Rossi), ma cose come The O.C. e soprattutto Skins, snodi fondamentali nella rappresentazione dell’adolescenza in tv, per un certo periodo sono sembrati prodotti non riproducibili, forse perché rivolti a un target molto più ristretto di quello che attualmente consuma la televisione a puntate. La serie scritta da Schwartz ci ha regalato una colonna sonora impareggiabile, nella quale compaiono (spesso anche fisicamente) tutti i gruppi che in quegli anni erano l’epitome dell’essere cool, e una moda che ancora oggi è protagonista di account popolari su Instagram e Tumblr, come @popculturediedin2009 dimostra. L’eredità di Skins, invece, oltre che con la musica e lo stile, ha che fare con il primo solido tentativo di dipingere gli adolescenti per quello che erano e di non renderli delle caricature in miniatura degli adulti, operazioni di cui tutti i telefilm di genere sono colpevoli, compreso The O.C.. Ha scritto Rebecca Nicholson sul Guardian che «[Skins] racconta la storia di un gruppo di ragazzi di Bristol che si allontanano dalla scuola, fanno sesso, vanno alle feste, bevono molto, fumano erba e, soprattutto, parlano come i ragazzini che sono» e che, a riguardarlo oggi, è ancora «brillante, originale, pieno di calore, ironia e divertimento, ancora attuale, ancora scandaloso e ancora molto più “adulto” di quanto lasciasse credere quando andava in onda».

Skins

E non è un caso che proprio Skins sia il genitore putativo di un prodotto che oggi sembra aver rimesso in moto la spirale del teen-drama. Parliamo di Skam, (letteralmente “Vergogna”), una serie tv norvegese prodotta da NRK P3 che prova a riportare l’attenzione sui liceali. La prima stagione, “Eva”, ha debuttato nel settembre 2015, mentre la seconda, “Noora”, e la terza, “Isaak”, sono state trasmesse rispettivamente nella primavera e nell’autunno del 2016. Il racconto di Skam, che si focalizza su un personaggio per stagione, è suddiviso in giorni e orari precisi, sanciti da clip o scambi di messaggi fra i protagonisti che vanno online in tempo reale sul sito dell’emittente. Ogni personaggio ha inoltre vari profili social, dove possono apparire da un momento all’altro foto o informazioni che riguardano il suo arco narrativo. Lo show ha anche una playlist Spotify che si aggiorna man mano che la storia procede. Ogni venerdì, infine, tutte le clip vengono raccolte nell’episodio che va in onda.

È facile intuire come questo movimento imitativo della realtà abbia reso la serie un successo senza precedenti tra i teenager norvegesi, che hanno iniziato a scambiarsi alert su Twitter per avvisarsi l’un l’altro della pubblicazione di una nuova clip e che si sono anche impegnati nel produrre i sottotitoli inglesi e diffondere le puntate via Google Drive, così da renderle fruibili anche al di fuori della Norvegia. In Skam i ragazzi hanno i brufoli, molto spesso sono ridicoli e le loro conversazioni girano a vuoto, quando hanno qualcosa di importante da dirsi non sfoderano lunghi monologhi à la Dawson’s Creek ma borbottano qualcosa e sperano che l’altro capisca in fretta, togliendoli dall’imbarazzo il prima possibile, si fanno domande brutali e non politicamente corrette del tipo «come fai a essere credente se studi e sei una persona intelligente?» oppure «come si fa a stabilire chi è l’uomo e chi la donna quando due gay fanno sesso?», vomitano tantissimo e credono che l’antistaminico sia qualcosa che può sballarti. Skam è un esperimento riuscito perché è verosimile e ha uno stile provocatorio e molto europeo: l’approccio a tematiche come il coming out, lo slut shaming, il binge drinking, l’ansia sociale e l’integrazione fra culture diverse è sempre privo di moralismi o sofisticazioni inutili.

Netflix non è rimasto indietro e ha da poco annunciato la data di uscita del suo primo telefilm per adolescenti, 13 Reasons Why, un «thriller ambientato fra i banchi di scuola» tratto dai libri bestseller di Jay Asher. La serie è prodotta da Selena Gomez e racconta la storia di come una ragazzina è arrivata al suicidio, o meglio, i tredici motivi per cui ha deciso di togliersi la vita: sarà disponibile dal prossimo 31 marzo. Ha debuttato da pochissimo sull’emittente CW, invece, Riverdale, che Vox definisce «un teen-drama tanto trash quanto innegabilmente divertente», la cui storia ruota intorno alle vite di alcuni dei protagonisti dei fumetti della Archie Comics. Anche qui l’evento scatenante è la tragica morte di un coetaneo, che spinge il giovane Archie (con il volto di K. J. Apa), a voler combinare qualcosa di buono nella sua vita, districandosi fra le sue aspirazioni da musicista, diverse intricate relazioni amorose e i tentativi di non deludere il padre, interpretato nientemeno che da Luke Perry. Sì, proprio lui, il Dylan di Beverly Hills, a chiudere definitivamente il cerchio.

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