Cultura | Personaggi

Takashi Miike, agitatore

Ritratto del più incomprensibile, imprevedibile e radicale dei registi contemporanei, in occasione del ritorno delle sale, in versione restaurata, del suo capolavoro Audition.

di Francesco Gerardi

Per Takashi Miike, il talento è la funzione inversa dell’impegno. La sua vita e la sua carriera sono la dimostrazione della veridicità di questa affermazione: lui a fare cinema non si è mai impegnato. A essere ancora più precisi, lui ha fatto il regista proprio perché gli sembrava il futuro meno impegnativo tra quelli che la sorte gli aveva concesso. A diciotto anni si era ritrovato giovane uomo nella provincia di Osaka – Miike è nato e cresciuto in un piccolo paese di campagna, non troppo lontano ma nemmeno così vicino alla città – senza idea di cosa avrebbe fatto né di cosa sapesse fare. Yao, il suo paese natale, era un dormitorio per operai e un rifugio per gli yakuza. Di fare l’operaio, il giovane Miike non aveva nessuna intenzione: aveva visto le conseguenze che il lavoro aveva avuto su suo padre e sapeva di non voler fare quella fine. A entrare nella mala, invece, ci aveva pensato seriamente: l’etica e l’estetica yakuza lo avevano sempre attratto. Non gli mancavano nemmeno i contatti, perché tanti dei suoi amici avevano deciso di affiliarsi. Alla fine però decise che il crimine organizzato non faceva per lui, per lo stesso motivo per il quale nulla faceva per lui: la vita da picciotto richiedeva troppo impegno – e gli irezumi, i tatuaggi tradizionali degli yakuza, richiedevano una capacità di sopportare il dolore assai al di là della sua.

Quando Miike racconta la storia della sua formazione, lo fa sempre con i toni e i modi di chi deve sforzarsi di risolvere un mistero: nemmeno lui sa bene come si sia ritrovato a fare quello che fa. La carriera da regista gliela suggerì la radio in un pomeriggio d’estate in cui, come sempre, era impegnato a far nulla. «Stavo ascoltando la radio e a un certo punto sento questa pubblicità della Yokohama Hoso Eiga Senmon Gakko [una scuola di cinema e tv di Yokohama, ndr], che spiegava che per entrare in questa scuola non c’era bisogno di sostenere esami. Praticamente, chiunque non fosse riuscito o non volesse andare all’università poteva iscriversi. Mi sembrò l’occasione perfetta per andarmene di casa e continuare a non fare un cazzo». Ovviamente, c’era una retta da pagare e se ne sarebbero preoccupati i suoi genitori. Suo padre era anche orgoglioso della scelta del figlio: Miike sr. era un cinefilo, ogni volta che aveva un giorno di riposo lo passava al cinema, una volta fece vedere a Takashi Duel di Steven Spielberg sperando che il bambino scoprisse una passione. Il tentativo non ebbe successo: il piccolo Takashi preferiva passare il suo tempo giocando con gli animali, in particolare trovando modi sempre nuovi per far saltare in aria le rane che trovava in abbondanza nei fiumiciattoli e nei laghetti vicino casa. Si può immaginare il sollievo paterno quando il diciottenne Takashi annunciò la sua intenzione di diventare regista.

Forse è così, con la noia della provincia e un quasi illimitato accesso alle rane, che è cominciato il percorso professionale e artistico che lo ha portato a essere «il regista che ha reso mainstream l’ultraviolenza», come titolava un pezzo dell’Hollywood Reporter del 2018 dedicato a Ichi the Killer, il film del 2001 – adattamento del manga omonimo di Hideo Yamamoto – che lo aveva confermato tra gli idoli del cinema underground di tutto il mondo. Forse è così ma forse no, capirlo è impossibile perché lo stesso Miike ripete in continuazione che lui non ha idea di cosa parlino le persone quando lo definiscono un regista di ultraviolenza, di manga movie, di storie di yakuza, di horror splatter, di thriller gonzo. Lui dice sempre che non gli interessa nessuna di queste cose, che non gli interessano i generi: «A me interessa soltanto la famiglia. […] A me importano i comportamenti e le emozioni umane che esistono dentro la famiglia».

Lo ripete da sempre, da quando i cinefili di tutto il mondo hanno iniziato i loro vani sforzi di capire il regista probabilmente più indecifrabile della sua generazione, da quando si sono accorti della sua esistenza dopo aver visto il film che lo ha reso famoso. Il film era Audition – che fino al 25 gennaio torna nelle sale in versione restaurata – l’anno era il 1999, e dopo averlo visto tutti si chiedevano chi fosse lui e cosa gli fosse successo nella vita per girare una cosa del genere (nel 2003 uscì anche un libro a lui dedicato, per “spiegarlo” ai tantissimi nuovi fan: Agitator, scritto da Tom Mes, autore costretto dalla inesauribile vena creativa di Miike a scrivere poi un sequel del libro intitolato Re-Agitator: A Decade on Writing on Takashi Miike), forse l’unico film della storia a essere definito allo stesso tempo misogino e femminista. Ai primi curiosi, Miike spiegava che certe domande a lui non andavano fatte: non era lui a scrivere i suoi film, il suo mestiere non era quello dello sceneggiatore, già si annoiava molto a leggere le sceneggiature, figuriamoci a leggere i romanzi dai quali erano tratte. E poi, nel 1999 aveva già diretto più di 30 film: chi voleva conoscerlo poteva guardare quelli ed evitare di disturbarlo con richieste di aneddoti personali e racconti autobiografici.

L’aneddoto più famoso riguardante Audition risale alla sua prima europea, al Rotterdam Film Festival. Una signora presente il sala si era goduta il primo e il secondo atto del film, convinta che fosse la storia di un vedevo di mezza età (Aoyama) che con l’aiuto di un amico produttore cinematografico organizza un provino per un film che non si farà mai con la speranza di trovare tra le “provinate” l’amore della sua vita. Romantico. Quando durante il terzo atto del film aveva scoperto che la ragazza (Asami) scelta da Aoyama non era un’attrice ma una sadica che si divertiva a rapire gli uomini, mutilarli e costringerli a mangiare il suo vomito, la stessa signora si era alzata, era andata incontro a Miike e gli aveva urlato in faccia: «Lei è un malvagio!». Nei giorni successivi, lui, Miike, a quell’episodio ci aveva pensato molto. «Non mi dispiacque affatto», ha raccontato poi.

Ma che senso ha raccontare la famiglia in questo modo, è la domanda che gli facevano e gli fanno ancora tutti. «Non sono così consapevole o cosciente di fare le cose nella maniera in cui le faccio», risponde lui. Si capisce perché ancora oggi, dopo trent’anni di carriera e più di cento film girati, ci sia chi non riesce a decidere se Miike sia bambino prodigio o idiot savant. Lui, Miike, questa confusione l’ha sempre trovata assai divertente, l’ha corretta a suo piacimento e ha cominciato a usarla come biglietto da visita. Nel comunicato stampa con il quale si presentava Gozu c’era un suo virgolettato in cui si autodefiniva «un pazzo». Tutti quelli che conoscevano lui e i suoi film lo presero sul serio, intesero quel virgolettato come un’ammissione. Nelle interviste di quel periodo ricorreva spesso una domanda che non c’entra niente con il film: «Sei mai stato da uno psichiatra», gli chiedevano diversi giornalisti, davvero interessati alla salute mentale del regista. «Io vado dal dentista, non dallo psichiatra», la risposta.

In effetti, a scorrere la filmografia di Miike il dubbio che per lui il cinema abbia avuto la funzione che per noialtri ha la terapia viene. Il fatto stesso che un uomo che si è messo a fare il regista perché per sua stessa ammissione cercava una maniera di continuare a non fare un cazzo sia diventato uno dei cineasti più prolifici di sempre dimostra che tra Miike e il cinema esiste un rapporto di necessità che spesso degenera nella codipendenza. Sono pochissimi i registi che nella loro carriera hanno toccato tanti generi e così diversi quanti ne ha toccati Miike dal 1991 a oggi: ha fatto gli horror (Visitor Q), i film sugli yakuza (troppi per sceglierne uno, anche se Agitator ha un posto in quasi tutte le mie personali classifiche cinematografiche) e quelli sui teppisti (Crows Zero), ha adattato manga (Ichi the Killer, appunto) e anime (Yattaman), ha lavorato per la tv, per il grande schermo e per le piattaforme streaming (Blade of the Immortal, per Netflix). A un certo punto ha deciso anche di mettersi a rifare i classici del cinema giapponese, di omaggiare i maestri del cinema nipponico con kolossal in costume come 13 assassini e Hara-Kiri.

Esasperati dalla produzione infinita e dai continui cambiamenti, in quegli anni i critici cominciarono a trattarlo come un’istituzione e a provare a mettere ordine nella sua filmografia: qualche anno fa Notebook – la rivista “allegato” della piattaforma di streaming Mubi – commissionò una serie di saggi in cui si tentava di dividere per generi e per periodi la produzione di Miike. Qualcuno deve aver avvisato Miike di questo tentativo di trasformarlo in un maestro, perché subito dopo l’uscita di questi saggi smise di rifare i classici e tornò alla produzione apparentemente sconclusionata che lo aveva caratterizzato fino a quel momento: dal 2012 in poi – dopo aver ingannato il mondo facendo credere di essere diventato maestro – ha girato l’adattamento di un videogioco (Ace Attorney), un film che è stato definito «peggio di Ichi the Killer» (Lesson of the Evil), uno in cui metteva assieme yakuza e vampiri (Yakuza Apocalypse), un film strappalacrime basato su una storia vera (The Lion Standing in the Wind), e poi musical, fantascienza e praticamente qualsiasi sceneggiatura gli capitasse per le mani, per una media di due – certe volte anche tre – film all’anno. Ancora una volta, in tanti hanno cominciato a chiedergli perché non accetta di diventare venerabile maestro. «Non mi piace quando cominciano a trattarmi come una persona normale», ha spiegato lui.