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Tabù

Steve Grand, Frank Ocean e gli altri artisti omosessuali nel rap e nel country: le cose sono cambiate e i gay non sono più (così) discriminati.

di Manuel Peruzzo

L’amore non corrisposto è un solido e comprovato meccanismo di successo. Lui si chiama Steve Grand, ha 23 anni e ci tiene a farci sentire inadeguati mostrando quel genere di corpo che hanno solo i modelli, i fanatici della palestra e le star. Lui è tutte e tre le cose. Il 2 luglio posta un video musicale su YouTube che diventa virale e raggiunge il milione e mezzo di visualizzazioni. Boom. Ha sparato al cuore dell’America rurale, quella che lo ha costretto a terapie religiose per guarire dall’omosessualità? O oramai sono tutti così friendly da accettare un gay tanto da identificarsi nel di lui tentato rimorchio?

Il video di “All American Boy” è un trionfo di cliché. Grand in posa con chitarra, l’espressione ebete di chi si piace molto, il whiskey, la camicia jeans aperta, e sullo sfondo la campagna del sud. Una sera intorno al falò conosce lui: «I find him by the fire while his girl was getting friskey, ohh / I say we go this road tonight», e in quell’occasione niente chitarra, per aumentare le probabilità di successo sono meglio i superalcolici. Fanno un giro in Cadillac, si tolgono la maglietta, e, parecchie bottiglie di whiskey dopo, finiscono a fare il bagno nudi nello stagno. Il che preannuncia il climax: «I’m gonna wrestle you out of them clothes, leave that beautiful body exposed, and you can have my heart and my soul and my body… just be mine». Il problema è che il tuo corpo e la tua anima all’altro mica interessano. Il bacio, non corrisposto (gli americani detengono il record del bacio che un secondo dopo diventa un «mi dispiace, non avrei dovuto farlo», eccetera) finisce in un bagno di lacrime e facce contrite. Mi dispiace, ma non sono gay. Tutto ciò sarebbe infinitamente ridicolo qui, in Italia, dove questo genere di canzoni vengono suonate nelle piazze da giovani disperati con il cappello ai piedi. Ma non là, negli Stati Uniti, dove rivaleggia seriamente con il rock, roba da struggimento collettivo.

Contro ogni aspettativa Grand è riuscito ad andare oltre quello che da sempre fanno i cantautori omosessuali: ha descritto la frustrazione gay nel provarci con un etero, per giunta fidanzato, e ne ha tratto non solo solidarietà per l’impedimento amoroso causa forze maggiori

Grand è dichiaratamente gay in un genere musicale, il country, le cui star endorsano il Partito Repubblicano ai congressi presidenziali. Il luogo comune vuole i fan del country schierati ideologicamente a destra. (Infatti è così; è stato confermato da una ricerca condotta sui gusti degli ascoltatori su radio quali HeartRadio, Spotify, VEVO, MOG e altre).

Quante possibilità c’erano che un video in cui il modello Abercrombie gay che ci prova col ragazzo di una fidanzatina d’America venisse considerato l’emblema dell’amore non corrisposto? Poche. Ma ha funzionato. Sorvoliamo pure sul fatto che nessun omosessuale si sarebbe mai spinto fino a baciare un altro ragazzo (secondo una mia personale statistica al secondo posto tra le paure omosessuali c’è il rifiuto, al primo c’è piacere a tutti). La sospensione di incredulità è tutto. Al massimo il gay avrebbe giocato la carta complimento, e lui ne avrebbe beneficiato secondo il grado di narcisismo di cui ciascuno è dotato. (Di quanto gli uomini eterosessuali amino i complimenti da gay, ormai tanto quanto le donne, ve ne parlerò la prossima volta). Contro ogni aspettativa Grand è riuscito ad andare oltre quello che da sempre fanno i cantautori omosessuali che raccontano storie d’amore: ha descritto la frustrazione gay nel provarci con un etero, per giunta fidanzato, e ne ha tratto non solo solidarietà e comprensione per l’impedimento amoroso causa forze maggiori, ma anche la complicità nel gioire della sofferenza di un amore frustrato. Un Brokeback Mountain 2.0. Qui abbiamo melodramma e «l’amore è amore». Douglas Sirk e la retorica arcobaleno. Che poi a guardar bene mica sono tanto diverse: la vittima è l’unica e ultima protagonista.

Nuovi diritti e nuove identificazioni. Persino i generi musicali più conservatori e machi si adattano al nuovo mercato popolare. Si è passati dall’«I’m a man motherfucker, you’re a half a fag» di Action Bronson al «Mother fucking faggots taking over the industry», di Brooke Candy. Guardami come mi riapproprio di un termine negativo, e già che ci sono mi approprio anche del tuo rap.

Non solo c’è una lunga catena formata da Jay Z-50-Cent-Kanye West al collo di Obama per sostenere i diritti dei gay, ma culturalmente diventa sempre più normale parlarne. Jay Z sostiene che discriminare i gay «non è diverso da discriminare i neri»

Snoop Lion, ovvero l’ennesima variazione sul nome di Snoop Dogg, pur essendo un grande imprenditore, disdegna l’amore non corrisposto tra gay e rap come un filone commerciale da sfruttare, almeno non in casa sua. Al New Musical Express ha dichiarato che nonostante abbia «molti amici gay» non pensa che questi saranno mai accettati nel mondo rap – ché non puoi condividere un atteggiamento machista, duro, virile e al contempo innamorarti negli spogliatoi. Snoop vuole dirci che l’omofobia è caratteristica fondante del genere tanto quanto chiamare troie le donne, indossare abiti larghi, provenire dalla periferia e vantarsi dei milioni fatti cantando di quanto più fico sei rispetto a tutti gli altri. Sono codici di appartenenza a una sottocultura. Ma è questo il problema, l’hip hop è ancora una sottocultura?

La risposta ovviamente è no. Il rap e l’hip-hop sono mainstream da molti anni. Più o meno da quando i rapper hanno smesso di crescere nei ghetti, vestirsi da galeotti e hanno iniziato a frequentare buone scuole, aprire profili Instagram in cui si fotografano con Jeremy Scott e altri fashion designer, e indossare skinny pants; più o meno, insomma, da quando si sono messi a duettare con Mariah Carey, Madonna e qualsiasi altra fag hag in circolazione. Non solo c’è una lunga catena formata da Jay Z-50-Cent-Kanye West al collo di Obama per sostenere i diritti dei gay, ma culturalmente diventa sempre più normale parlarne. Jay Z sostiene che discriminare i gay «non è diverso da discriminare i neri». Un altro video virale, “Same Love“, di un rapper bianco, Macklemore, è un ottimo esempio di come un pubblico per l’amore gay ci sia. «If I was gay, I would think hip-hop hates me. Have you read the YouTube comments lately?», inizia così il secondo verso. Sono 58 milioni di visualizzazioni finora. Il ritornello è un mantra per eterosessuali che fa: “non posso cambiare, anche se ci provo, non posso cambiare”. Il video è tutto sulla crescita di un afro che vive la sua adolescenza, cresce, incontra un ragazzo, ci si tuffa in acqua, lo bacia; il tutto montato in alternanza con bandiere arcobaleno, Martin Luther King e il senato americano. E si conclude chiedendo, per i più tardi, di votare al referendum per legalizzare il matrimonio a Washington. Proprio dopo il matrimonio della coppia di ragazzi e la scena dei due da vecchi in ospedale, mano nella mano. Rendiamo possibile tutto questo, dice  Macklemore. Il rap diventa spot per il marriage equality, chi lo avrebbe mai detto ai tempi di Ice T, L.L. Cool J e Schoolly D.?

Per ora, più forte della volontà di integrare i gay c’è la paura di non discriminarli. Quel poveretto di Frank Ocean, cioè il cantante R&B che tra i primi ha spezzato il silenzio, si dichiarava “bi”, cioè bisessuale, già in “Oldie” degli Odd Future; ha cantato: «I believe that marriage isn’t between a man and woman but between love and love», e anche: «I can never make him love me/ Never make him love me», ma c’è voluta la dichiarazione ufficiale su Tumblr in cui si definiva chiaramente: bisessuale, per chi non lo avesse colto. (Lo devi dire, sennò mica capiscono, ciao Jodie Foster!). Di lì in poi la gara è stata alla dichiarazione di sostegno nei suoi confronti, a cui si sono accodati più o meno tutti. Compreso, naturalmente, Snoop Lion, che però si chiamava ancora Snoop Dogg. Anche se secondo lui il coming out di Ocean non cambierà nulla nel mondo rap, perché: mica è uno di noi, quello sa cantare. Cioè a dire: parla come noi, si muove come noi, è persino nero, e gli vogliamo tanto bene, ma non è uno di noi.

Dieci anni dopo il rifiuto di Missy Elliott al bacio lesbo tra Madonna-Christina Aguiera-Britney Spears (ho sempre pensato fosse il contrario, cioè fossero loro a non voler baciare lei), perché «nell’hip hop non si farebbe mai, mai, mai»

Il punto è che quel genere di rap a cui pensa Lion (o Dogg?), non esiste più. Non esiste più, cioè, quello che David Foster Wollace, in un bellissimo e riuscito tentativo d’analisi culturale, Il rap spiegato ai bianchi, definisce «rap serio». Nelle sue parole, «una fusione unica, tipica dei ghetti urbani statunitensi, fra il funk, un raggae virato techno, l’hardcore-rock adolescenziale e la ‘poesia dell’esperienza nera’ dei primi anni ’70»; cioè in pratica: «musica nera, fatta da e per gente nera». Quello di oggi è fatto dagli amici di Ocean, come Tyler the Creator, che per quanto gli contino i «faggot» nei testi, è ben felice di ricevere premi da Mtv come un teenager qualsiasi, è ben felice di dire a tutti quanti amici gay abbia, è ben felice di posare per Terry Richardson.

Questo mondo chiuso, per iniziati, è oramai diffuso ad ogni sottocategoria musicale. E il suo pubblico non è (solo) quello sotto-istruito e incazzato dei ghetti, ma è un pubblico mainstream che ama l’estetica hip-hop, meglio se instagrammata, molto di più del residuale antagonismo all’egemonia bianca della vecchia scuola.

Da una parte nasce una fronda queer che è prevalentemente femminile e ben descritta in un articolo del Guardian: «Rap gay, l’incredibile diventa realtà». Dieci anni dopo il rifiuto di Missy Elliott al bacio lesbo tra Madonna-Christina Aguiera-Britney Spears (ho sempre pensato fosse il contrario, cioè fossero loro a non voler baciare lei), perché «nell’hip hop non si farebbe mai, mai, mai», il panorama musicale è pieno di queer, pansexual, bisex e gay. Azealia Banks, Brooke Candy, Mykki Blanco, non hanno problemi a fare coming out, millantare o rivendicare a diritto una sessualità liquida.

La rivista Elle ha definito Blanco «nuova regina di hip-hop», Ma Michael Quattlebaum, suo vero nome, rifiuta l’etichetta di «rapper gay», e descrive la sua creazione come «una miscela di riot grrrl e ghetto fabulousness», come ha spiegato al New York Times. Mikky è una creatura queer: indossa parrucche, abiti femminili e borse finto Chanel. Il suo tentativo è di abitare sia lo spazio della performance artistica, come un qualsiasi studente d’arte al primo anno, sia lo spazio del cabaret da drag queen, come un qualsiasi intrattenitore da locale gay. Il tutto con un talento per il rap. Non ha seguito il consiglio, ha avuto successo nel circuito alternativo ed è il principe, anzi, la principessa di Pitchfork e dei blog hipster. Ma questo crea una sottocategoria, come intuisce Brooke Candy, spogliarellista dalla ipersessualità al limite della transessualità, che non ama la ghettizzazione, per lo meno non quella gay: «abbiamo creato un nuovo genere, il “queer hip-hop”, perché, cazzo, esiste dal momento che facciamo esattamente la stessa musica degli altri». In qualche modo è come ritagliarsi un posto che però rimarrà sempre distinto e disintegrato. Musica frocia fatta da e per froci.

«Per esempio un grande tema nell’hip-hop è l’essere gay. Siamo nel 2013, ed è vergognoso che ai giorni nostri quest’argomento freghi ancora a qualcuno. È folle. Ci fa sembrare tutti retrogradi o stupidi—e non è così. Abbiamo persone come Jay Z. Persone come Kanye. Persone come me»

Oppure accadrà quel che è accaduto nel porno e nella sottocultura gay negli anni ’70 con l’avvento della clone-culture. Negli anni post Stonewall e post liberazione dei costumi sgargianti l’idea era: «il gay non può essere un vero maschio». I cloni erano quegli omosessuali che volevano dimostrare l’esatto contrario. Così apparvero i circuit-party, luoghi danzerecci in cui il dresscode era: corpo muscoloso, barba tagliata geometricamente, Timberland ai piedi, giacche in pelle da un immaginario leather, Polo Fred Perry eccetera. Anche il porno cambia, si sviluppano pratiche sessuali estreme, da maschi, come bondage e, negli anni ’90, il bareback. Avremo quindi un gangsta gay? Avremo dei rapper che si circondano di corpi nudi iper-maschili, tatuati, muscolosi? Da una parte il rapper drag queen, dall’altra il rapper palestrato e aggressivo. Chi vincerà?

Una cosa è certa, tutto sta cambiando. Il modello oggi è A$AP Rocky: giacca Givenchy, sciarpa Fendi, occhiali Lanvin; e se diventa troppo riconoscibile passa a designer sconosciuti, come fa Bjork, come fa Lady Gaga. Dalla strada allo showroom, o, peggio, dalla strada al museo. A$AP Rocky ama proiettarsi come proveniente dal ghetto e le sue influenze sono da vecchia scuola, Mobb Deep, Wu-Tang Clan, Run DMC, ma è perfettamente integrato in un contesto “fighetto” e glam. E certo non stupisce che abbia dichiarato il proprio rispetto per il coming out di Jason Collins, giocatore Nba, proprio sullo storico magazine omosessuale Advocate. Su Interview Magazine, invece, ha sostenuto la necessità di rinnovare il repertorio: «Per esempio un grande tema nell’hip-hop è l’essere gay. Siamo nel 2013, ed è vergognoso che ai giorni nostri quest’argomento freghi ancora a qualcuno. È folle. E mi sconvolge che importi tanto al mondo hip-hop, perché fa sembrare tutti retrogradi o stupidi—e non è così. Abbiamo persone come Jay Z. Persone come Kanye. Persone come me». Probabilmente ha ragione lui, ci sarà una rivoluzione—dopotutto le Adidas sono state sostituite da Margiela senza stringhe.

 

Immagine: un fotogramma del video di “All American Boy” di Steve Grand