Cultura | Musica
SxM dei Sangue Misto, l’invenzione del rap italiano
A 30 anni dall'uscita, Warner Music pubblica una nuova edizione del disco che ha portato l'hip hop nel nostro Paese.

Al centro della libreria troneggia, spavaldo, il superstereo Philips AS9300, che è in assoluto l’oggetto al quale tengo di più tra quelli che possiedo. Il Philips AS9300 ha due casse poderose, due mangiacassette, la radio e, in alto, un piatto giradischi. In questo preciso momento sta girando il nastro di una musicassetta gialla che qualcuno mi ha copiato quando andavo a scuola e che sto ascoltando ad un volume altissimo. In particolare sono in fissa con l’intro di un pezzo, una strofa che rimando indietro in maniera ossessiva e ogni volta faccio ripartire daccapo, in loop. Nella mia stanza da quindicenne una voce registrata ripete all’infinito questa frase: «Si può giocare a flipper, si ascolta musica / Si possono comprare accessori vari / Per confezionare spinelli e fumare», quando mio zio Ezzelino fa irruzione, come il bope in una favela, aprendo di scatto la porta e urlando: “Ma cosa stai ascoltando? Guarda che capisco quello che dicono!”. Di colpo mi rendo conto che è troppo tardi per spegnere, così resto immobile e mi limito a fissarlo mentre, furioso, con i baffi bianchi e la camicia azzurra aperta sul petto, mi dice di abbassare il volume, con gli occhi sparati fuori dalle orbite. Inutile spiegare allo zio che la roba che sto ascoltando è SxM, il disco di un gruppo che si chiama Sangue Misto, per cui tutti in classe siamo andati fuori di testa e che già conosciamo per filo e per segno, a memoria.
Sono già passati dieci anni da quando Keith Haring venne a Milano a pitturare con le sue figurine il negozio di Fiorucci e tutti in città lo guardarono come un marziano anziché come il precursore di una cultura che, di lì a breve, sarebbe dilagata nelle città americane cambiando la pubblicità, i video, la grafica, l’arte e la moda. Da qualche tempo anche qui la strada sembra il palcoscenico giusto a cui guardare e le sottoculture underground, quelle dello skate, del punk, dell’hip-hop, si sono come mescolate tutte di un colpo creando una sorta di nuova estetica. Qualcosa di dilagante, come una scossa, che ha coinvolto gruppi di adolescenti che nella musica rap, come nel writing, hanno trovato un’energia creativa completamente diversa da tutto quello che fino ad ora si poteva trovare in circolazione. Ma tutto questo allo zio Ezzelino non interessa, come non gli importa di chi diavolo siano questi Sangue Misto, che dalla stanza di suo nipote cantano orribili canzoni che inneggiano all’uso di droga. A noi invece, che abbiamo quindici anni nel ’95, queste cose appassionano tantissimo e in particolare siamo rimasti sconvolti da questi tre ragazzi un po’ più grandi di noi che sembrano un mix tra dei cantanti sghembi e dei poeti maledetti. Si fanno chiamare Neffa, Deda & Dj Gruff, due rappano e l’altro sta ai piatti, vengono da Bologna (un posto che per noi che siamo di Milano ha un sapore un po’ esotico, ci la immaginiamo simile per certi versi a Los Angeles), e hanno fatto un album hip-hop tutto in italiano.
Facile dire adesso, a trent’anni di distanza, che quello è stato il disco capolavoro del rap in Italia, il manifesto della cosiddetta Golden Age, il capostipite del genere, la pietra miliare. All’epoca, nel gennaio del 1994, quando l’album uscì, la percezione era completamente diversa. Lo stesso Neffa nel documentario di Enrico Bisi intitolato Numero Zero, dedicato ai pionieri del rap italiano, ha dichiarato che: «Il disco di Sangue Misto è partito dal fatto che volevamo fare musica e fumare, e confezionare spinelli, come dice la intro: “E fumare, e fumare”. Lì proprio c’è, credo che ci sia tutto. Poi ovviamente, ai tempi, era anche un po’ fare il finto fricchettone, cioè l’idea era anche si però intanto si parlava dei “Cani Sciolti”, di queste cose qua, non è che fosse solamente “sì, facciamoci le canne e vaffanculo al mondo”. No, noi nel mondo volevamo ancora starci dentro e fare qualcosa».


Il rap in Italia era un genere pressoché sconosciuto, semplicemente non esisteva. C’era Jovanotti, è vero, e al massimo Frankie hi-nrg e i primi Articolo 31, tutti artisti però che, in un modo o nell’altro, successivamente non vennero mai accettati dalla neonata scena. I fratelli più grandi di qualche nostro amico ascoltavano gruppi come i Public Enemy, NWA, Beastie Boys, Run DMC, ma in Italia non c’era niente che fosse minimamente paragonabile a tutta quella roba. Solo Bologna con gli Isola Posse All Star, gruppo nato nel centro sociale Isola nel Kantiere, fu in grado di fare scuola. Gli stessi Deda e Dj Gruff provenivano da lì e poco dopo alla crew si unì Neffa, fino ad allora conosciuto nell’ambiente semplicemente come il batterista di un gruppo punk chiamato Negazione.
Se dovessi scegliere invece un luogo che a Milano in quegli anni divenne catalizzatore di tutto il movimento sicuramente direi Pergola, un centro sociale in zona Isola che fu l’incubatore di tutte le avanguardie alternative: dall’hip hop al reggae, fino alla drum’n’bass. Rimasto nel tempo unico nel suo genere, Pergola, per quelli che erano ragazzi in quella Milano degli anni Novanta, è un nome circondato da un alone di leggenda, un posto mitologico simile a certi squat londinesi, dove gli unici dischi in italiano a passare sui piatti della consolle del fumosissimo basement erano proprio quelli dei Sangue Misto.
Io a quei tempi venivo costantemente cacciato da tutte le scuole che provavo a frequentare. Ogni anno un nuovo liceo, nuove classi, nuovi amici. Mi sentivo escluso da tutto, “zero grado di fiducia”, anche se andavo in discoteca con i figli dei massoni e allo stesso tempo ero un habitué di piazze violente e di determinati baretti facinorosi. Con i miei amici ci credevamo come i protagonisti de L’odio di Kassovitz, anche se nessuno di noi era cresciuto nelle banlieue parigine, ma eravamo tutti figli di avvocati, notai, medici, industriali, alti dirigenti, professori universitari. Al disagio giovanile rispondevamo così, con le palline di caramello sempre pronte in tasca, le poesie dei maudits francesi nello zaino e la cassetta dei Sangue Misto sparata nel walkman, fissa, con l’autoreverse. Quello che ci muoveva era un puro e semplice conflitto contro le istituzioni, sia quando pistoleri camminavamo nei corridoi della scuola, sia quando ci tiravamo su le bandane a coprire il volto in curva allo stadio, sia quando ci trovavamo in piazza a fare scorpacciate di polveri e resine il pomeriggio, invece che stare diligentemente a casa a studiare per l’interrogazione di latino del giorno dopo.
«Vesto scuro / picchio la mia testa contro il muro / sono io l’amico di nessuno / stai sicuro», cantavano i Sangue Misto nella loro canzone simbolo, “Lo straniero”. Erano concetti che valicavano il rap, l’hip-hop e qualsiasi altro genere musicale. Erano frasi che descrivevano in maniera cristallina chi eravamo, l’epoca nella quale eravamo costretti ad abitare e che oltretutto non hanno perso un briciolo della loro potenza neanche a riascoltarle oggi.
E forse, a parte le pose, è questo il motivo per cui nel tempo i Sangue Misto sono rimasti al centro dell’immaginario di tutti noi, come dimostrano gli omaggi ripetuti dei rapper della generazione successiva che con il loro lavoro sono stati in grado di resuscitare una scena morta e sepolta dopo il loro scioglimento. E parlo di gente come Club Dogo, Fabri Fibra e Marracash, tanto per fare il nome di persone, che ancora oggi, come noi, «alzano il volume con il bum-bum-cha», quando sentono SxM. Come del resto in maniera del tutto inaspettata ha deciso di fare la Warner, comprando i diritti del disco nell’anno del suo trentennale e decidendo di farne una ristampa in vinile che esce domani. E allora è proprio il caso di dire che oggi come mai «Sangue Misto non rispetta più il confine / Viene da dove era stato cacciato fuori come un cane». Chi l’avrebbe mai detto? Mio zio Ezzelino no di sicuro.