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Il Ceo di Google ha detto che nessuna azienda si salverebbe dall’eventuale esplosione della bolla dell’intelligenza artificiale Sundar Pichai ha detto che la "corsa all'AI" è un tantino irrazionale e che bisogna fare attenzione: se la bolla scoppiasse, nemmeno Google uscirebbe indenne.
La cosa più discussa del prossimo Met Gala non è il tema scelto ma il fatto che lo finanzierà Jeff Bezos Il titolo e il tema del Met Gala di quest'anno è Costume Art, un'edizione realizzata anche grazie al generoso investimento di Bezos e consorte.
Per la prima volta è stata pubblicata la colonna sonora di Una mamma per amica In occasione del 25esimo anniversario della serie, su tutte le piattaforme è arrivata una playlist contenente i migliori 18 brani della serie.
Jeff Bezos ha appena lanciato Project Prometheus, la sua startup AI che vale già 6 miliardi di dollari Si occuperà di costruire una AI capace poi di costruire a sua volta, tutta da sola, computer, automobili e veicoli spaziali.
Le gemelle Kessler avevano detto di voler morire insieme ed è esattamente quello che hanno fatto Alice ed Ellen Kessler avevano 89 anni, sono state ritrovate nella loro casa di Grünwald, nei pressi di Monaco di Baviera. La polizia ha aperto un'indagine per accertare le circostanze della morte.
Vine sta per tornare e sarà il primo social apertamente anti AI Jack Dorsey, il fondatore di Twitter, ha deciso di resuscitarlo. A una condizione: sarà vietato qualsiasi contenuto generato con l'intelligenza artificiale.
C’è una app che permette di parlare con avatar AI dei propri amici e parenti morti, e ovviamente non piace a nessuno Se vi ricorda un episodio di Black Mirror è perché c'è un episodio di Black Mirror in cui si racconta una storia quasi identica. Non andava a finire bene.
In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.

C’era una volta Supreme

Se il lusso guarda sempre più ai marchi di streetwear in fatto di estetica e strategie di comunicazione, cosa ne guadagna lo streetwear? 500 milioni di dollari, più o meno.

27 Ottobre 2017

C’è una singolare categoria di commenti online che ho sempre trovato molto divertente, quasi fenomenologica, per i motivi privi di una vera logica per cui troviamo divertenti le cose di internet. Si tratta di quei commenti che si possono leggere sulle pagine social dei siti specializzati come Highsnobiety, Hypebeast, Complex et similia, dove la gente litiga per l’ultimo modello di Nike ridisegnate da Virgil Abloh o discute dei tagli al laser di una giacca di Stone Island con una serietà che, vista da di fuori, è facile trovare ridicola. È la serietà tipica dell’appassionato, o del collezionista, e si potrebbe estendere a molti altri campi, ma oltre che per l’involontaria comicità, quei commenti sono diventati la mia personale perversione anche perché mi raccontavano di uno specifico mondo che, per lungo tempo, è stato la periferia di ciò che va di moda, quello dello streetwear.

È un mondo dove si parla uno slang ben definito che è difficile maneggiare senza sembrare degli imbecilli – lo sa bene Bella Hadid, che è inciampata tra un “dope” e un “homeboy” di troppo fino a diventare un meme – e dove il codice estetico è profondamente radicato nella comunità e in tutte le sue scene performative, da quelle artistico-musicali a quella sportiva. L’attaccamento maniacale verso certi marchi (come quello dei Lo Life per Polo Ralph Lauren o quello per le le griffe del lusso “customizzate” da Dapper Dan) ha un preciso significato nella costruzione della propria identità sociale: garantisce riconoscibilità e appartenenza.

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Fino a non troppo tempo fa, c’era un marchio che era considerato il miglior segreto nascosto di New York: il suo primo negozio aveva aperto nel 1994 in Lafayette Street, a Manhattan, e da allora era diventato il feticcio degli skater newyorkesi. Parliamo di Supreme, naturalmente, che da qualche settimana è ufficialmente diventato mainstream: no, non per via della collaborazione con Louis Vuitton o dei copycat di lusso che ha ispirato negli ultimi dieci anni, né tantomeno perché Chiara Ferragni e Fedez ultimamente ne erano ossessionati, quanto piuttosto per una singolare combinazione di tutti questi fattori. Come segnalato da Business of Fashion, il gruppo Carlyle ne ha infatti acquistato circa il 50% delle azioni per un valore che pare attestarsi sui 500 milioni di dollari. L’intera azienda fondata da James Jebbia, quindi, è stata valutata per la cifra complessiva di un miliardo di dollari (niente male per un marchio di T-Shirt, felpe e cappellini), sebbene i termini dell’accordo non siano stati resi pubblici.

Questo significa molte cose: che Supreme ha ora il potere di espandere, e tanto, la sua rete di negozi (ora sono 11: due a New York, uno a Los Angeles, uno a Londra, uno a Parigi e sei in Giappone) e di conseguenza aumentare esponenzialmente la sua capillarità di penetrazione (in Cina, per esempio, dove oggi è del tutto assente), ma anche che ha davanti la non facile sfida di mantenere quel prestigio e quella sua credibilità “street” ora che non è più un marchio indipendente, o perlomeno presunto tale. A onor del vero, Jebbia a un certo punto del suo brillante percorso, quando già aveva costruito il mito attorno a Supreme, un partner di sostegno lo aveva trovato: lo segnala Vikram Alexei Kansara sempre sul Bof, quando racconta dell’investimento del fondo Goode risalente al 2014. Tramite un accordo mantenuto segreto per non intaccare quello status di cui sopra, la società si è così garantita la possibilità di crescere e allargarsi, a dimostrazione di come il suo fondatore sia stato sempre ben consapevole di cosa potesse garantirne il successo.

Un post condiviso da Fedez (@fedez) in data:

Sono tante le cose che i marchi da passerella hanno imparato da Supreme, a partire dalle campagne pubblicitarie provocatorie – certamente, non le scatterà più Terry Richardson – alla strategia dell’hype, ormai da manuale, che prevede un rilascio di prodotti apparentemente randomico, al di fuori del tradizionale calendario stagionale, e che ha contribuito a formare le famigerate code al negozio che nemmeno al Berghain. Poi ci sono le collaborazioni, che da Supreme hanno sempre maneggiato con intelligenza e che hanno funzionato da antesignane perfette del co-branding che vediamo in atto oggi: brand di streetwear e griffe si incontrano e mescolano sempre più spesso le proprie caratteristiche (e il loro pubblico di riferimento) nel tentativo di elevarsi da una parte e di raggiungere anche il consumatore che non vive di lusso dall’altra.

Lo spiega bene Jessica Schiffer su Digiday quando racconta come i marchi abituati a sfilare in passerella abbiano “cooptato” il modello streetwear allo stesso modo in cui, per anni, si sono appropriati di culture e sottoculture altrui: è quello che la moda fa, d’altronde, ovvero fagocitare e rigurgitare, a volte migliorandole, più spesso banalizzandole, le tendenze della strada. Ha iniziato Riccardo Tisci da Givenchy con le T-Shirt con il Rottweiler e poi sono arrivati a catena le imitazioni dell’imitazione, quando anche l’ultimo dei marchi del fast-fashion di casa nostra si è sentito in dovere di omaggiare lo stile da skater più o meno con la stessa pedissequità per cui oggi non c’è cintura di cappotto su cui non campeggi la scritta “Feminism”.

Crowds Line Up For Limited Edition Supreme And Louis Vuitton Collaboration Clothing Items

In realtà, se designer come Rick Owens e Raf Simons (ma anche Givenchy di Tisci) hanno sempre fatto parte di un certo immaginario street, vero è che nella lavatrice del cool o peggio, dell’inseguimento al Millennial, si finisce poi per perdere il senso generale delle cose. Non è difficile prevedere che a soffrine alla fine saranno un po’ tutti, dai grandi che puntano allo stordimento dell’acquisto e non sanno più chi sono e a chi parlano, ai piccoli che negli anni si sono faticosamente costruiti la reputazione a suon di slang ed eventi di community. Come Supreme, appunto. I giornalisti economici scrivono saggiamente che quando fondi come Carlyle o Goode fanno investimenti del genere, è perché puntano a far crescere quanto più possibile il nuovo protetto e a rivenderlo, nel giro di cinque anni, al miglior offerente. Nel caso di Supreme si parla di LVMH (lo stesso gruppo che controlla Louis Vuitton, Fendi e Dior fra gli altri) che, in un giorno non troppo lontano, potrebbe decidere di quotarlo in borsa.

Ripensando a quei commenti dei quali ho riso spesso, mi viene in mente una scena a suo modo romantica in cui i protagonisti di How to make it in America, serie HBO inspiegabilmente chiusa prima del tempo, vanno in Giappone per fare ricerca su jeans e trend e contattare dei fornitori, nel tentativo di costruire il loro marchio streetwear. Per strada incontrano un ragazzo giapponese che indossa la stessa maglietta di uno di loro e lo abbracciano, perché fanno parte di quello stesso club esclusivo di appassionati al limite del fanatico. E che, forse, non esisterà più.

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