Attualità

Stainolandia

L'idea di mondo, d'Italia, di partito e di primarie di Sergio Staino, vignettista che ha fatto dell'appartenenza politica un valore - e se ne vanta.

di Vincenzo Marino

Due braccia forti e pelose chiudono una porta lasciandola dietro agli ospiti appena congedati. “È stata proprio una bella serata, sono delle persone squisite”. “Dovremmo invitarle più spesso” – e da lì gli highlight dell’amichevole cena, sospirare dopo le improvvisate estive di amici non troppo intimi eppure piacevoli, chiedere sinceramente di ritornare mentre si soffia sulle candele alla citronella che ci hanno salvato la serata: è questo uno dei quadri che la civiltà riprodotta dalle vignette di Staino spennella, o forse è perché io generalmente odio cose.

Sergio Staino, settantadue anni e una vita da vignettista all’Unità, oggi è diventato uno dei simboli della crisi della comicità italiana, il più immediato esemplare da analisi per recenti e motivate discussioni sulla scarsa qualità della satira nazionale e sulla liceità della figura del “mattacchione di Palazzo” intruppato (oddio) nelle file di una compagine ben definita – la questione è in qualche modo tema di uno degli ultimi numeri di Orwell, per esempio, di un recente articolo di Stefano Bartezzaghi su Repubblica dall’eloquente titolo “Se il graffio della satira detta la linea politica”, o ancora di uno dei dignitosissimi fanculo quotidiani che Fulvio Abbate riversa su Teledurruti.

Il problema è che le sue vignette non fanno ridere. Quando ho cominciato a pubblicarne di sue e altrui su Twitter all’hashtag #VignetteImbarazzanti, e ne ho fatto poi una sorta di rubrica per ValigiaBlu, non credevo di venire aggredito da quel tunnel col risucchio rotta “La vignetta di Staino di oggi” che occupa da settimane le mie mattine, che mi ricorda come non intrattenere il mondo e scandisce la linea delle sezioni del Pd di tutta Italia. Perché Staino – ammetterà su Pubblico intervistato da Francesca Fornario, una locandina a sé – si rivolge solo ad alcuni, non pretende di universalizzare l’istinto comico, ma di dipingere l’umanità della sua squadra, di disegnare ghirlande sulle bandiere: una società buona davvero, che non s’accanisce sui particolari più indegni nei dopocena, che non finge davanti agli ospiti per poi chiuder loro dietro la porta in un moto di saluto e di sollievo (li sto immaginando ancora e neppure uno scazzo e li odio davvero, colpa mia). È un’umanità che batte i pugni sul tavolo per le storture della Terra, che delle piccole gioie familiari sa rallegrarsi e nei più insignificanti avvenimenti della vita quotidiana trova la metafora per l’attualità italiana.

Perché la politica, nelle vignette di Staino e negli spaccati di vita riprodotti, è movente per qualsiasi discussione, risposta priva di trama che si vorrebbe sagace a ogni stimolo, persino scambio di battute tra adulti e bambini per strada, sacchetti della spesa in mano (il logo della Coop io posso e voglio vedercelo). “Fini ammonisce Berlusconi: Non usare troppe veline in politica”, è l’inverosimile lancio stile agenzia di Bobo (barbuto e in carne militante, sarebbe l’alterego dell’autore) al figlio, che vorrebbe preludere all’interruzione della realtà e alla battuta di spirito, o alla sagace e beffarda presa d’atto, o alla spavalderia. “Ha paura di far la fine del Bagaglino?” cerca invece di sincerarsi il giovane biondo, zaino in spalla e replica già conscia – malgrado l’età – dell’attualità politica, della parola “Bagaglino”, del Corpo delle Donne, del valore altamente simbolico delle sciarpe tessute in Chiapas e del dramma degli asili nido (“Troppo pochi!” – “Come cresce bene il ragazzo” – “Domenica suona alla Festa dell’Unità di Rozzano con la cover band della Giovane Pfm” – “Tesoro, porta il San Daniele”). Io non l’ho capita.

E così un’intera antologia. L’appiglio per la politica in ogni contesto come quegli amici su Facebook che fino a qualche mese fa ammiccavano nei commenti riferendosi puntualmente al Triste e Farsesco Regime Berlusconiano (sono quelli che vedevano politica ovunque, quelli che adesso mi fanno proprio paura – e la politica è quella degli epocali scontri a Ballarò e delle aberrazioni comiche dei programmi stile Dandini, altra carne da piastra). Sempre in militanza contro un ineffabile villain, figura d’impaccio momentaneo sul viale che porta al governo del Paese e alla più vicina Feltrinelli. Scacciarlo con gli anni, la pervicacia (?) e i sorrisi dei forti per poi spuntarla per manifesta bontà e per la gloria degli uomini liberi e generosi (“che impegno!”, gli uomini di Staino: dal compagno Molotov alla riccioluta Erna, passando per la moglie e i frugoletti). Declinando chiaramente la linea del partito coi pastelli e i box sul quotidiano d’area – qui Bobo pro-primarie aperte, qui Bobo contro le primarie aperte chiave anti-Renzi. Per dirne una.

I bambini accorrenti (accorrono affannati e liberi da tutte le parti, posso vederli) e impegnati, ciuffetti fuori della code di cavallo per un’infanzia casual e politicamente cosciente. Eroe muto, ma presenza silenziosa, il segretario: l’individuo solo e mai – o troppo – vinto in questa valle di lacrime e liquidi seminali (se facciamo che ne usiamo una buona per il Ventennio Berlusconiano), sempre avversato dalle intemperie del malcostume (appunto), dai richiami del populismo, dagli inattendibili spasimanti politici, dalla cattiva amministrazione – altrui, che coi nostri al massimo si tira fuori l’irritante tema del tafazzismo. E il nemico è il Nemico Del Segretario, il personaggio da offendere e colpire, che sia capo di Governo dell’ultra-destra o occhiuto e perfido rivale interno, com’è prassi nel grande partito-formato-famiglia modello Pci e sue tarde derivazioni, dove lo scontro non manca mai e il dinamismo è generalmente assimilabile al sostantivo “stitichezza” (ed è il turno, in queste settimane, di Renzi, ossessivamente mazzoliato quando non escluso dal novero dei partecipanti alle primarie – vignetta per Pubblico, sempre dall’intervista fine-di-mondo, al grido di un paradossale e multicolore “Vendola – BERSANI – Puppato: viva la biodiversità”).

E le risate? E le famigerate “riflessioni amare”? E lo spirito eversivo? Lasciati al caso, appendice non vincolante, mai veramente primo istinto a muovere la mano dell’autore: qui a Stainolandia il riso abbonda solo sulle bocche degli ingiusti, o al limite di chi spernacchia – spesso pretestuosamente – il nemico: lo stesso Berlusconi, per diverso tempo oggetto dell’irriverente satira staininana e al più proposto come caimano insaziabile e impuro capobranco degli “altri“, è spesso irriso per goffa bramosia di potere (si veda lui che buffo, rosso di furia e orecchie fumanti, scopre che i giornali non parlano del suo ritorno alla presidenza del Milan) come per la più infantile accusa d’eiaculazione precoce (non la trovo più, ma giuro d’averla vista) – una sporca battaglia da combattere fieramente con un upload della vignetta su Facebook, ai tempi belli che furono.

Ma Staino (e Bobo), come tutto, ha una storia. Vecchie tavole – epoca Tango – che a vederle oggi fanno QUASI figura, come dovessimo necessariamente pagare quel dazio che oggi spesso si rende alle cose relativamente datate: il Super Santos feticcio a rievocare le spiagge anni ’90 (“Che partitoni” – “Io lo metto nella foto di copertina del mio disco indie dalle pretese cantautorali” – “C’hai pure i baffi”) e quei riferimenti alla politica da prima Repubblica che ci sembra di governare (noi supergiovani) e ci esaltano alla sola comprensione superficiale, e ci piacciono, come quando si scorgono riferimenti culturali un po’ di nicchia da qualche parte e quel “qualche parte” ce lo facciamo piacere per segnalare doverosamente al mondo la nostra ossequiosa comprensione – “L’ho capita!”. O come quando riconosci per caso i detective di The Wire tra le comparse dei Robinson: “È Carver, scrivilo su Twitter” (mi è successo davvero ma non l’ho twittato perché non volevo che il mondo sapesse che in casa mia prende K2). Questo una volta.

Oggi Sergio Staino è scrittore comico insondabile, i cui disegni sono prodotti imbarazzanti per editore, testata e matita che li traccia. Dà forma e colore a quel culto della personalità da apparato che oggi combacia incidentalmente con Pierluigi Bersani e che solitamente – con lo stesso ardente fuoco – pervade i Giovani Democratici nei confronti della vecchia dirigenza con baffi, “visione d’insieme” e riconosciuta capacità nell’”immaginare scenari”. Giovani e non stretti-stretti in un’idea di Italia che Staino intendeva e intende rimodulare coi suoi sconfortanti colori a cera: la contrapposizione di una società dei migliori – eppure perennemente minoritaria perché in fondo “ci è andata male” e abbiamo fiducia solo in “una minoranza di persone” – a quella dei mascalzoni di turno, confidando nella fiducia dei giustissimi in un indulgente recinto abitato da totem inviolabili e sacchi di sabbia contro il nuovo che avanza. Sono anni che la bambina con la quale Bobo interloquisce non cresce.

 

(Immagine: Pierluigi Bersani e Sergio Staino, foto di Gianni Santandrea – via)