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Stacy, storia di come Gipi è diventato il cattivo

Nel suo nuovo graphic novel il fumettista mescola l'autobiografia alla finzione per raccontare un mondo da incubo il cui al minimo errore corrisponde sempre la massima condanna.

di Gianmaria Tammaro

A un certo punto, Stacy di Gipi cambia. Più o meno verso la metà della storia, tutta la rabbia delle prime pagine sembra sfumare, trasformandosi in qualcos’altro. Resta il nero dell’ossessione e delle paranoie che si rincorrono e si divorano a vicenda. Ma lo spazio tra le battute, gli sguardi e i sorrisi arricciati si riempie del rosso della passione. Che è diversa e uguale, piena e avvolgente. È come un moto istintivo, muscolare: quando cadiamo dobbiamo rialzarci; quando incassiamo un colpo, vogliamo rispondere. Il racconto va altrove: dopo la profondità dell’Inferno, risale su, nel patetismo di ogni giorno. Il protagonista, Gianni, trova un nuovo centro nella sua vita. Ha capito quello che gli è stato fatto e si è adattato. Ora è pronto a giocare al gioco al massacro che gli altri, prima di lui, hanno deciso di abbracciare. Non è più preda, ma cacciatore. La solidarietà è scomparsa. Ed è scomparsa pure la voglia di stare insieme per un obiettivo comune. La regola è: si salvi chi può. Anzi no, la regola è sempre la stessa. E cioè: non nominare Stacy, non pensare nemmeno di farlo. Nel frattempo, però, c’è una raccomandazione: ognuno per sé.

Per questo fumetto, pubblicato da Coconino Press, Gipi si è nutrito unicamente di pensieri e sentimenti negativi. L’ha detto più volte. Pensava di essersi cacciato in un vicolo cieco, dove la creatività non ha abbastanza luce per crescere. E invece ha imparato a muoversi in una dimensione differente. Non c’entra niente la cancel culture. Non è questo il tema di Stacy. La verità è che ci siamo scoperti mancanti e che di questa mancanza abbiamo fatto una forza. Ma è una forza debole, moscia, svuotata di qualunque sostanza e consistenza.

Non accettiamo la libertà, non vogliamo che si dicano cose che, per tutti, sono diventate innominabili, anche se si tratta di un sogno o di una fantasia. Vogliamo una mediazione nell’arte e nel processo artistico. Chi non lo fa non solo è sbagliato: è il nemico. E in quanto nemico, va messo all’angolo, criticato, distrutto e isolato. Gianni è uno scrittore che lavora in televisione. Quando lo conosciamo, è all’apice della sua carriera. Apparentemente invincibile, invidiato da tutti, rispettato dai produttori e dai colleghi. Poi, però, succede qualcosa. Dà un’intervista e in quell’intervista racconta un suo sogno. C’ero io, dice, e c’era questa ragazza, Stacy. Io la rapisco e ma la ricordo così, piena e burrosa.

 

Le due dimensioni, quella della fantasia e quella della realtà, si accavallano, si sovrappongono e non lasciano spazio alla complessità. Vogliamo tifoserie, vogliamo la certezza delle posizioni. E questi sono i risultati. Un sogno diventa un motivo sufficiente per condannare l’altro, per distruggere la vita di qualcuno e per riportarlo al punto di partenza. In questo gioco dell’oca, Gipi ritorna al bianco e nero, al tratteggio feroce ed essenziale, e fa parlare il protagonista con la sua versione più essenziale e nervosa di sé stesso. Sentiamo due voci e sono le voci della stessa persona. Ancora una volta, la realtà si sovrappone alla fantasia e quello che ne viene fuori è un ibrido maldestro, zoppicante, che fa più male che bene. Se l’arte cerca di soddisfare il pubblico, senza indagare sulle pulsioni più oscure e terribili dell’uomo, non è più arte: è complicità. E la complicità non aiuta nessuno. Nemmeno chi, in un primo momento, sembra guadagnarci.

Ci ripetiamo idee assurde, senza fondamento, e ci convinciamo che sia quella la verità di cui abbiamo bisogno. Ma la verità non è una carezza, è uno schiaffo. Gipi mette insieme pagine e pagine scritte a mano, a macchina e disegni. Come Gianni, raggiunge un nuovo equilibrio durante il racconto. E allo stesso tempo, esternamente, scopre come fare per guardarsi da lontano, senza perdere la lucidità della cosa narrata. Stilisticamente, Stacy sembra rifarsi a La terra dei figli, senza acquerelli, colori e prove d’autore. Narrativamente, invece, Stacy è una via di mezzo tra il racconto biografico, in forma di diario, e il thriller fincheriano. È distorto, famelico, cattivo. Pieno di battute pungenti e maliziose. Pieno di quello che siamo, della nostra ipocrisia, e di quello che, con buone probabilità, siamo destinati a diventare.

È un fumetto complicato: non dà risposte e non vuole coccolare, nemmeno per un istante, il lettore. Al contrario, vuole tenerlo sulle spine, angosciarlo, fargli credere che tutto andrà in un certo modo e poi cambiare all’improvviso direzione. Stacy, ha detto Gipi, è arrivato in un momento particolare della sua vita. E da quel momento particolare è stato influenzato. È stata la sua valvola di sfogo e, contemporaneamente, uno specchio in cui guardarsi.

Alla fine, quello che resta è una storia più grande di noi, una fatalità che nessuno può prevedere e su cui nessuno ha un reale controllo. Pensiamo di aver trovato il nostro posto, e invece no, siamo ancora soli e sperduti. Ci diciamo di aver capito, di sapere esattamente quello che stiamo facendo. Ma non è così. Stacy è un nome che fa da collante tra le tante parti della storia. È una litania: l’innominabile che si fa pensiero ricorrente e che ci divora dall’interno. È un’idea tormentata, una spirale discendente tra le caselle che ci siamo dati. Spunta qui e sei uno dei giusti. Spunta lì e sei uno dei cattivi. Non c’è dialogo, non c’è discussione. C’è solo Stacy. E di Stacy non si può parlare.