Cultura | Dal numero

Il gioco al massacro di Squid Game

Intervista a Hwang Dong-hyuk, creatore della serie fenomeno pop globale di cui è appena stata annunciata la seconda stagione, dal nuovo numero di Rivista Studio.

di Francesco Gerardi

Ritratti di Federico Floriani

Nell’ultimo periodo si è parlato tanto della crisi di Netflix. In tutti questi discorsi, però, arriva sempre il momento in cui si sottolinea l’eccezione: Netflix va benissimo in Estremo Oriente e nel Sud-est asiatico. Gli addetti ai lavori attribuiscono (quasi) tutto il merito della cosa a Squid Game, proprietà intellettuale che da sola vale circa un miliardo di dollari. Se dieci anni fa lo avessero detto a Hwang Dong-hyuk, il creatore di Squid Game, che quella serie che non riusciva a farsi produrre da nessuno sarebbe diventata un fenomeno pop, lui non ci avrebbe creduto. Dieci anni a portare in giro una sceneggiatura per sentirsi dire che il momento non era giusto, che il pubblico sudcoreano non era pronto: «È un prodotto per il mercato globale», gli dicevano, e non per fargli i complimenti. Dieci anni ad aspettare che l’onda d’urto della Hallyu, la Korean Wave, travolgesse l’Occidente, con i registi sudcoreani a vincere gli Oscar e le band di K-Pop in cima alle classifiche. Dieci anni ad aspettare che un letterale gioco al massacro diventasse la perfetta rappresentazione dello Zeitgeist. Dieci anni dopo, Hwang è l’autore di una serie di cui mezzo mondo aspetta con ansia la seconda stagione. Ed è l’ospite d’onore, assieme a Lee Jung-jae (che in Squid Game è Gi-hun, il giocatore 456) dell’edizione 2022 del Korea Film Fest di Firenze, occasione nel quale lo incontriamo.

ⓢ È la prima volta che vieni in Italia?
No, è la terza. La prima volta ci sono venuto come turista e la seconda ero ospite del Korea Film Fest, sono venuto a presentare un mio film, The Fortress.

Prima di arrivare a Firenze sei stato a Cannes. Si è discusso molto del nuovo film al quale stai lavorando, Killing Old People Club. Se ne parla come l’adattamento di un romanzo di Umberto Eco. È così? Ma di quale romanzo?
Rispondo con una parola sola: confidentiality. Non ne posso parlare, mi dispiace.

Faccio un altro tentativo e poi la smetto. Quando abbiamo letto la notizia, in redazione abbiamo provato a capire di quale romanzo di Eco si trattasse. Una mia collega ha pensato a Il nome della rosa, visto che hai detto che in questa serie muoiono molti anziani. Su internet ho letto teorie secondo le quali sarebbe Il cimitero di Praga. Puoi dirci almeno se ci siamo andati vicini?
Mettiamola così: non è l’adattamento di un romanzo. Ho letto diverse cose di Eco che mi hanno affascinato. Parole, frasi, immagini, atmosfere. Il film si ispira a lui in questo senso. Racconta di un mondo in cui i giovani non hanno niente e gli anziani hanno tanto, quindi i giovani si mettono a dare la caccia agli anziani. Li uccidono. Sarà molto violento.

Quindi dalla lotta di classe al conflitto generazionale?
È una lettura possibile, sì. Diciamo che se Squid Game è stata una metafora per la guerra tra ricchi e poveri, Killing Old People Club racconterà la rabbia delle nuove generazioni nei confronti di quelle precedenti.

È un’interpretazione esatta, quella di Squid Game come metafora anticapitalista?
Credo sia normale che il pubblico interpreti i prodotti d’intrattenimento nelle maniere più diverse. Io però avevo una motivazione precisa nel realizzare Squid Game: a me piacciono i giochi. E, soprattutto, mi piace vincere. Volevo creare un mondo in cui questa mia passione per il gioco ricoprisse un ruolo centrale. Ma il mio scopo era pur sempre il divertimento. Per raggiungerlo ho dovuto aggiungere una dimensione drammatica e l’ho fatto nella maniera più semplice: ne ho fatto una questione di vita o di morte. Con queste premesse, è stato inevitabile costruire un collegamento con certe questioni sociali ed economiche. E altrettanto inevitabile è stato arrivare a una discussione sul capitalismo. Il capitalismo è un gioco, no? Questo è un periodo particolare, poi. C’è stata la pandemia, e povertà si è aggiunta a povertà, ricchezza a ricchezza. Sono consapevole di una cosa: Squid Game è stato più di quanto io non avrei mai immaginato. Perché è stata la serie “giusta” per questo periodo storico.

Credi sia questa la spiegazione del successo di film e serie tv sudcoreane? Penso anche a Parasite o a Hellbound: sono tutte opere estremamente politiche, satira e/o critica sociale.
Credo che la prima spiegazione del successo globale dell’intrattenimento sudcoreano sia la pazienza: abbiamo seminato per anni e ora stiamo cominciando a raccogliere. Non penso, poi, che questo successo si spieghi tanto con la sua componente politica quanto con lo sforzo di mettere assieme attualità politica e capacità d’intrattenimento. In Corea del Sud ci sono gli stessi problemi che ci sono in tutto il resto del mondo, ma cerchiamo di parlarne dentro prodotti che siano allo stesso tempo “divertenti” e rappresentativi.

A cosa ti sei ispirato per creare la serie?
Ci sono stati moltissimi giochi che ho usato come base. Live games, soprattutto. C’è stato il romanzo giapponese Battle Royale. I quadri di Escher. Un film che si intitola Cube. Magritte è un altro artista al quale mi sono appoggiato molto. Ma la cosa alla quale ho pensato di più è il confine tra vero e falso. Squid Game è una serie ambientata lungo questo confine: il gioco si tiene all’esterno, in un luogo vero, l’isola. Ma quello che succede, succede in un interno che è una finzione, una ricostruzione pensata per il gioco. Quando ho disegnato questo mondo avevo in mente Las Vegas.

Las Vegas?
Sono stato in America e ho passato qualche giorno a Las Vegas. Di quella città mi ha colpito il fatto che fosse allo stesso tempo vera e falsa. Girando per Las Vegas si passa davanti a dei veri monumenti. Che però sono riproduzioni di monumenti che si trovano in altre città. Dentro Las Vegas c’è Venezia e c’è Parigi. Le vedi con i tuoi occhi eppure non sono vere. Un po’ come quello che succede in Squid Game.

Las Vegas ti è piaciuta?
A me piacciono i giochi. Quindi sì, molto.

Hai un personaggio preferito, tra quelli di Squid Game?
Non è una scelta facile. C’è Il-nam (l’anziano giocatore numero 1, nda), perché nasconde questo grande segreto. E lo trovo divertente perché per chi come me era consapevole sin dall’inizio del segreto, seguire la storia con questa consapevolezza era ancora più interessante. In più, lui è il personaggio in cui più di tutti si ritrova quel discorso che facevo prima sul confine tra vero e falso.

Vuoi dire che non è davvero cattivo o che non è davvero buono o entrambe le cose?
Ovviamente non è una brava persona. Ha creato il gioco, a causa sua tante persone sono morte. Però è anche un personaggio infantile, che ha fatto tutto questo perché voleva tornare a un’epoca in cui il suo unico pensiero era giocare. È una persona che ha ottenuto denaro e potere, eppure, inventando il gioco, rinnega tutto e ammette di essere infelice. Attraverso di lui passa un messaggio anche semplice: essere ricchi e potenti ed essere felici non sono necessariamente la stessa cosa. E i veri cattivi non sono mai infelici.

Quindi in un gioco non ci possono essere dei cattivi?
Se proprio dovessi trovare dei personaggi nei confronti dei quali è legittimo provare rabbia, direi i Vip. Perché non partecipano al gioco ma ci accedono comunque, grazie al denaro. Certo, il giocatore numero 1 è uno di loro. E, letto in questo modo, anche lui è un cattivo. Credo questo sia uno dei collegamenti tra la finzione della serie e la realtà del nostro mondo. Anche noi viviamo in un mondo in cui un piccolissimo gruppo di persone gestisce tutto. Sceglie le regole, detiene tutto il capitale del mondo. E tutti gli altri sono costretti a seguire regole pensate e decise da loro, per loro. Poi, limitandoci alla funzione narrativa, se dovessi dire chi è il cattivo di Squid Game forse direi Sang-woo. So che molte persone pensano sia lui.

Non sei d’accordo?
Bè, tradisce Ali, uccide Sae-byeok. Ma mi riesce difficile fare questi discorsi perché uno dei punti della serie è il modo in cui le persone comuni si trasformano quando sono costrette da situazioni estreme. Pochissimi di noi nella vita si trovano ad affrontare circostanze di vita o di morte. Chi può dire davvero cosa farebbe in quelle circostanze? È il discorso che si faceva prima: chi le ha create quelle circostanze? Ha senso essere arrabbiati con un altro giocatore? O con il gioco? O l’unica cosa sensata è avercela con chi costruisce le situazioni estreme? È un discorso che penso sia riassunto nell’ultima frase pronunciata da Gi-hun: «Io non sono un cavallo». L’unica maniera per salvarsi dal gioco è rifiutarlo.

Però Sang-woo è anche il personaggio attraverso il quale porti avanti un certo discorso anti-élite. Ha frequentato la prestigiosa Università di Seoul. Lavorava nella finanza. È l’unico che si ritrova nel gioco per avidità, gli altri ci finiscono perché poveri o ingenui o stranieri in difficoltà.
Lui è la mia maniera di riflettere su un modo di vivere la vita. Quello secondo il quale non è mai abbastanza. Bisogna diventare ricchi, più ricchi, ancora più ricchi, sempre più ricchi. È un modo di vivere allo stesso tempo egoista e creativo. Queste persone riescono sempre a inventare un altro modo per arricchirsi. Pensa alle criptovalute e agli Nft. Ma Sang-woo è anche il mezzo attraverso il quale ho cercato di spiegare la differenza tra ricchezza e potere. Al mondo ci sono ricchi che però non si sentono al sicuro, perché sanno che basta niente per trasformarsi anche loro in pedine del gioco.

Dopo il successo di Squid Game, in molti hanno scritto di te. Ho letto profili in cui vieni raccontato come un “giovane uomo arrabbiato”, una specie di Martin Eden che si dedica alla sua opera finché non riesce a realizzarla. Ti convince questa descrizione?
Io sono uno che non si arrabbia mai! Anzi, prendo le cose alla leggera. Penso però che spesso, quando si parla di artisti, si confonde la rabbia con la dedizione. Gli artisti vivono di dedizione per ciò che fanno, sono disposti a tutto per portare a termine i loro progetti. E spesso sembrano egoisti, convinti di esistere solo loro, che l’unica cosa importante sia il loro lavoro. Forse persino arrabbiati. Non credo sia il mio caso, però. Non penso di essere arrabbiato. Insomma, dovreste chiedere alle persone che hanno lavorato con me. Ma devo anche ammettere che certe volte riguardo Squid Game e ho quasi l’impressione che sia stata realizzata da un’altra persona.

Non ti ritrovi più nei messaggi della serie?
Non è questo. Se mi dovessi definire con una parola, direi “estremo”. Per me le cose sono bianche o nere. Ci sono momenti in cui mi sento l’uomo che ha fatto Squid Game e altri in cui mi ritrovo lontanissimo da quella persona. Forse, però, il pubblico che guarda la serie, i giornalisti che scrivono gli articoli, mi immaginano arrabbiato per via della violenza estrema che c’è in Squid Game. Perché, nonostante tutto, rabbia e violenza nella nostra mente sono sempre collegate, anche se poi nella realtà non sempre è così.

Ragioni per assoluti, dunque. Obi-Wan Kenobi diceva «Only a Sith deals in absolutes». È vero che sei un fan di Star Wars? Ho letto tue dichiarazioni in cui dici che la seconda stagione di Squid Game sarà un po’ Star Wars: Gi-hun un Jedi, il Frontman Darth Vader.
Come tutti, da ragazzino mi piaceva tanto Star Wars. Soprattutto i colpi di scena, le cose come «Luke, sono tuo padre!». E poi adoravo le maschere, che sono una cosa molto presente nell’estetica e nei messaggi di Squid Game.

L’ultima domanda non può che essere questa: puoi dirci qualcosa sulla seconda stagione?
Al momento non c’è niente di sicuro. Non ho firmato un contratto. Io sto pensando alla seconda stagione, questo sì. Il progetto c’è ed è iniziato, ma non c’è ancora niente di sicuro. Di certo posso dire che Gi-hun tornerà. E che ci saranno nuovi giochi.