Attualità

Siria quotidiana

Com'era vivere a Damasco prima della guerra? Due siriani raccontano con nostalgia la normalità perduta del loro Paese.

di Davide Piacenza

«Nur» in arabo significa “luce”, An-Nur è una sura del Corano. Nur è anche il nome di una ragazza di ventisei anni conosciuta mesi fa a un aperitivo di un’associazione di volontariato, Soserm, punto di riferimento per i profughi a Milano. È nata a Damasco, in Siria, e ci ha vissuto tutta la vita, fino a pochi giorni fa. Riad è un trentaquattrenne, lavora nel sociale, è nel nostro Paese da due anni; il resto l’ha passato a Irbin, una cittadina di cinquantamila abitanti a una decina di chilometri dal quartiere Jobar, il più a est della capitale siriana. Oggi, a quattro anni dall’inizio della guerra in Siria, come rimarcato di recente dall’Alto commissario Onu per i rifugiati Antonio Guterres, si può dire che è stata soprattutto la diplomazia a fallire. Ma il prezzo più alto di questo conflitto senza fine, senza tregua e apparentemente senza soluzione l’hanno pagato gli abitanti di Damasco, Aleppo, Hama, Daraa, Homs: dal 2011 sono morte duecentocinquantamila persone, e tra gli 11 e i 12 milioni sono scappate oltre i confini. Uno Stato sta venendo letteralmente cancellato dalla faccia della Terra, giorno dopo giorno, quasi senza più sdegno.

Nur viveva nella città vecchia di Damasco, uno degli insediamenti umani più antichi del Medio Oriente e quindi della storia della civiltà. Nel cuore del patrimonio Unesco, a distanza di una passeggiata dalla Grande Moschea degli Omayyadi, da anni lavorava come traduttrice, da qualche tempo era responsabile del reparto commerciale della Camera di commercio siriana. All’università aveva studiato gestione aziendale. Le chiedo della sua giornata tipo pre-2011, cosa si ricorda, cosa le viene in mente. «Grandi case con stanze enormi e fontane, cortili con prati verdi incorniciati da alberi di limoni. Famiglie grandi e unite che ci vivevano insieme», è la prima risposta. Racconta che le sue giornate erano fatte di turni di lavoro di otto ore, a cui seguivano corsi di lingua inglese, spagnola e italiana. Tornava a casa verso le dieci di sera, «che potrebbe essere considerato tardi, ma nessuno ci faceva caso, era sempre sicuro, i negozi e i locali rimanevano aperti fino a tardi, la gente usciva a divertirsi» e magari a ballare la dabka, danza tipica mediorientale.

«Grandi case con stanze enormi e fontane, cortili con prati verdi incorniciati da alberi di limoni»

Un articolo apparso sul sito dell’Independent lo scorso giugno raccontava la particolarità della sorte della capitale siriana: «A Homs, la guerra ha distrutto la città vecchia e lasciato intatti molti dei moderni sobborghi; ad Aleppo, dov’è arrivato tardi […] il conflitto si è fatto strada a colpi di esplosioni fino all’antico bazaar e ha divelto la Grande Moschea risalente all’XI secolo […]. Ma Damasco è stata salvata – o maledetta – dal fenomeno opposto. Mentre il suo circondario veniva distrutto o reso irriconoscibile da munizioni, cecchini e bombe, il suo antico cuore continuava a battere, la Moschea degli Omayyadi e le colonne romane e i tunnel dei suk rimanevano preservati, la sua gente – che vive nelle case middle class dei quartieri di Melki e Mezze o che si aggrappa alla “normalità” degli isolati attorno alla città vecchia – stranamente chiusa nel suo bozzolo a resistere alla distruzione».

Che tratti ha la “normalità” vissuta a pochi metri da una guerra così cruenta, un conflitto che sta inghiottendo (quando non ha già inghiottito) tutto ciò che hai intorno, le persone più care, i posti che frequenti? Nur ricorda, anche in tempi molto recenti, «fiere espositive, club di lettura, centri commerciali, ristoranti, parchi tinti del viola della jacaranda, gli artisti che si ritrovavano al Rawda Cafe», in un flusso di coscienza nostalgico. Da anni Damasco poteva vantare una fervente attività culturale, che non soltanto non era stata interrotta dallo scoppio della guerra civile, ma aveva anche visto un’imprevedibile fioritura artistica recente dovuta all’allentamento del controllo governativo. In un pezzo apparso sul quotidiano libanese Al-Akhbar si sostiene che «musical, spettacoli teatrali e recite di poesia sono ormai dappertutto, a ogni angolo della città. Un barlume di speranza in un centro urbano circondato da violenza e miseria».

Hot Air Balloons Fly Over Damascus

A dieci chilometri da casa di Nur la vita è un’altra, la Siria è un’altra. Riad è scappato da Irbin nel 2011, sul finire dell’estate, quando in cielo volavano già da tempo gli elicotteri di fabbricazione russa del regime di Bashar al-Assad. Prima lavorava in un’agenzia di viaggi, si occupava dei visti, si recava spesso in Libano, nelle ambasciate più vicine, per consegnarli in tempo ai suoi clienti. Negli ultimi tempi, però, la strada che collega la capitale siriana a Beirut era stata disseminata di checkpoint dell’esercito, e viaggiare si era fatto troppo rischioso. Se il cuore di Damasco è rimasto intatto, Irbin oggi è in gran parte divelta e abbandonata, una città fantasma di rovine. A cavallo tra il 2012 e il 2013 è stato il teatro principale di un lungo confronto tra l’esercito regolare e l’Esercito siriano libero, la sigla principale che riuniva i ribelli anti-Assad, che ne ha controllato a lungo il territorio. Riad ricorda i giorni dell’ingresso degli elicotteri in città, le persone bloccate nelle case, improvvisamente atterrite, una sorella salva per essersi nascosta dietro la saracinesca di un meccanico. Quella che è diventata parte di una delle guerre più sanguinose della storia recente, a Irbin è iniziata come messaggio di intransigenza mandato dall’esercito a un avamposto dei ribelli. D’altronde gli Assad non erano certo nuovi a metodi del genere: ossessionati dal pericolo rappresentato dalla ribellione dei Fratelli musulmani, lo zio di Bashar, Rifaat, e il padre, l’allora presidente Hafiz, nel 1982 avevano dato ordine di assediare la città di Hama, roccaforte islamista duecento chilometri a nord della capitale. Ne risultò un massacro con un numero di vittime compreso fra mille e quarantamila unità. «In Siria le persone sono portate a combattere fra di loro dal regime», spiega Nur, «che colpisce i dissidenti facendoli soffrire di fame e arrestandoli per futili motivi. Molti giovani sono morti per le torture, molti abitanti dei sobborghi sono stati uccisi da sparatorie ed esplosioni con la scusa di colpire elementi dell’Esl che si presumevano nascosti lì».

Nonostante tutti i suoi problemi, sia Nur che Riad parlano del loro paese perduto con amore sincero, come se si trattasse di una sorta di stato di natura rousseviano e non di un luogo dove la libertà di parola e quella politica erano già di fatto assenti. «All’interno della nostra società era presente ogni tipo di culto religioso, ma non siamo mai stati uno contro l’altro», sottolinea Nur. Riad dice di aver scoperto che un suo collega e amico era cristiano solo durante il Ramadan, e lo dichiara con una nota impercettibile di orgoglio. «La gente era abituata», aggiunge poi, rispondendo a miei dubbi sul perché il relativo miglioramento economico sperimentato dal Paese negli anni Novanta (una legge di incentivo agli investimenti stranieri, primo atto di un progressivo sviluppo del settore privato, risale al 1991) e soprattutto, Duemila, non fosse stato accompagnato da aperture significative nel campo dei diritti civili. La minoranza alawita e i suoi più fedeli seguaci, parole di Nur, «hanno sempre potuto fare ciò che hanno voluto». Rami Makhlouf, cugino da parte materna di Assad, è diventato l’uomo più ricco della Siria e presidente di Syriatel, uno dei due operatori di telefonia mobile del Paese, grazie soprattutto alla sua indefessa fedeltà al regime.

Le nuove élite arricchitesi negli anni Novanta e Duemila avevano spesso legami con l’esercito o la minoranza al potere, in uno Stato in cui lo stipendio medio del settore privato si aggirava sugli 800 euro mensili, classificato tra i peggiori nell’Indice di percezione della corruzione di Transparency International (a Riad torna in mente quello zio bloccato al porto di Lattakia per una tangente non corrisposta). A Malki, il quartiere del centro di Damasco dimora del business che ha ottenuto il nulla osta degli Assad, riportava il Jerusalem Post nel 2013, «gli irrigatori automatici bagnano i prati appena tagliati all’esterno di isolati di appartamenti dal valore di milioni di dollari. Donne di servizio e autisti sono disponibili per ogni capriccio e gli uccellini cantano ancora sugli alberi. Il carburante per le Bmw e l’elettricità per gli impianti di condizionamento non manca, e per le strade sorvegliate non passano scocciatori». La situazione è necessariamente variata, ma la descrizione dimostra l’esistenza di almeno due Damasco, in un Paese nel frattempo a sua volta diviso in frammenti come un caleidoscopio. Parlare di Siria è difficile. Parlare di siriani, scopro, anche. Alla fine della nostra conversazione Nur dice «non siamo mendicanti, non vogliamo essere un peso per nessuno». Non è una risposta a nessuna mia domanda particolare. Vengo a sapere soltanto dopo che mentre abbiamo parlato si trovava in Ungheria, nel mezzo di un viaggio rischioso e discusso che sta facendo a fianco di tanti altri connazionali, e chissà quanti di loro ricordano gli stessi giardini.

Nelle immagini in evidenza e nel testo: Mongolfiere sorvolano Damasco, Siria. 7 maggio 2007 (Salah Malkawi/Getty Images)