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Ripensare gli uomini alle sfilate di Milano
In un momento storico in cui l’idea di mascolinità è più che mai campo di battaglia, le collezioni di questi giorni la trattano come qualcosa di mutevole e aperto a espressioni di molteplicità, da Valentino a Prada, fino a Magliano.
Cosa sono gli uomini oggi? Se l’è chiesto Pierpaolo Piccioli da Valentino, come ha spiegato durante la conferenza stampa dopo la sfilata che ha inaugurato la tre giorni (perché quelli di fatto sono, non certo una settimana) di moda maschile a Milano. Una città che per l’uomo di Valentino ha un significato speciale, visto che è qui che, nel gennaio del 1985, il signor Garavani debuttò con la sua collezione maschile ed è qui che Piccioli è tornato più volte negli ultimi anni, a dimostrare il suo supporto concreto al sistema della moda italiana, che ne ha più che mai bisogno. Dopo l’ex fonderia Macchi in zona Bovisa e il Teatro Piccolo, questa volta Piccioli ha scelto il cortile dell’Università Statale di Milano, lo stesso dove in periodo di lauree si vedono i ragazzi saltare le siepi curate che lo circondano, il gesto che simboleggia la fine del percorso universitario e l’entrata nel mondo adulto.
L’invito della sfilata era una riedizione speciale di Una vita come tante di Hanya Yanagihara (alcune frasi del romanzo comparivano infatti su giacche, borse e pantaloni), che racconta proprio il passaggio dalla giovinezza all’età adulta di quattro giovani amici, seguendoli per più di mille pagine e più di trent’anni nelle loro vite. Ha raccontato Piccioli di aver scelto questo romanzo, un vero e proprio fenomeno culturale degli ultimi anni che ha animato vivacissime discussioni (una delle più importanti: sulla visione della mascolinità –e dell’omosessualità– della sua autrice, che in molti considerano troppo “dolente”), non tanto per la trama in sé, quanto per il modo in cui questi giovani uomini che crescono – e invecchiano – sono raccontati. «Mi ha colpito la fragilità e la resilienza degli uomini del romanzo», ha spiegato infatti il Direttore creativo, «Per lungo tempo gli uomini sono stati incasellati in scatole molto rigide, come quella dell’uomo di potere, definito dalla giacca e dalla cravatta, da determinati atteggiamenti e prerogative. Credo però che oggi, per fortuna, non sia più così: il vero potere è sentirsi liberi, liberi di rifiutare certe idee di perfezione o di successo». La collezione scardinava perciò tutti i classici dell’armamentario maschile con il tocco delicato e intelligente di Piccioli: i blazer e i cappotti sartoriali portati con gli short «addolciti» o con la gonna, come nel caso di due look che hanno creato qualche furore tra gli addetti ai lavori, i fiori applicati che sbocciano al posto della cravatta, il denim decostruito giapponese che è sinonimo di rigenerazione, il puro cotone (grill, popeline, cotone double) a cui viene data una nuova nobiltà: la sartoria tradizionale si rinnova, prende molteplici forme come sono molteplici gli uomini che la indossano.
Anche Miuccia Prada e Raf Simons sono partiti da un elemento chiave, la camicia, e l’hanno declinata con freschezza e inedito calore per la collezione Primavera Estate 2024: la sua struttura e i suoi dettagli diventano la base per trasformare un intero guardaroba di capi maschili, dagli abiti agli impermeabili, dagli indumenti tecnici alle reporter jacket e i gilet pieni di tasche, la cui funzionalità diventa qui vezzo, scelta di stile, decoro. Mentre uno slime verde scendeva dal soffitto della Fondazione Prada come sempre ridisegnata dall’allestimento di OMA/AMO generando divertimento e genuino stupore tra il pubblico, la silhouette della collezione veniva definita dal punto vita accentuato e messo in evidenza, con una certa sensualità suggerita anche dai boxer esposti, dai fiori (anche qui) sulle camicie, dagli shorts e dagli “sbuffetti” in pelo di capra sui maglioncini morbidi, leziosi alla maniera di Prada. Molti dei tessuti utilizzati sono quelli classici della sartoria inglese anni Quaranta, qui ri-editati per una sensibilità contemporanea ma non per questo meno preziosi o precisi, mentre il dettaglio del cerchietto dell’invito (un pezzo unico) si scopre essere la montatura di occhiali dal sapore futuristico. Architettura fluida sul corpo, che come lo slime può avere infinite declinazioni.
«Cinque minuti in passerella valgono più di una vita di analisi». Con la frase di Bruno Pompa, direttore artistico dello storico centro culturale Lgbtq+ Cassero di Bologna, si apre invece la nota di ufficiale di Magliano che, proprio perché è Magliano, la combina con una citazione di Teresa D’Avila («Sono state versate più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non ascoltate»), da intendere nel senso più filosofico possibile. La passerella-cantiere che riempi gli spazi vuoti del Palazzo del Ghiaccio è il set perfetto per la prima sfilata del team Magliano in senso letterale del termine: loro che ci avevano abituati ad ambienti intimi e performance più vicine a un film che a un evento di moda, per la prima volta dopo la vittoria del Karl Lagerfeld Prize di Lvmh e dopo un anno ricco di soddisfazioni – ne parla lo stesso Luca nell’intervista sull’ultimo numero di Rivista Studio, in edicola – ci concedono infine una sfilata canonica, che è allo stesso tempo un ringraziamento, un invito («vieni a vederci») e anche una sorta di presa in giro del rito stesso (ho riso al maglione con gli auguri natalizi) e dei meccanismi del sistema-moda di cui tanto discutiamo. La collezione è un best-of dello stile Magliano che abbiamo imparato a conoscere, con l’aggiunta di nuovi eleganti elementi da sera nelle camicie e nelle giacche aperte sulla schiena: «couture povera», dicono loro, che si porta con la copia del Manifesto arrotolata sulla gamba e il pacchetto di sigarette fissato sulla tasca dei pantaloni. Magliano è un manifesto di italianità differente che si è concentrato sin dagli esordi sul raccontare uomini diversi rispetto a quelli che lo stereotipo ci associa: il buon gusto si strappa e si lacera, mostra la sua parte più intima e vulnerabile e riottosa, distrugge il macho e lo ricostruisce uomo capace di dare piacere e non solo di prenderlo (la scorsa settimana ho scritto di eredità maschile e vestire italiano nell’ultima newsletter di StudioIndustry, ci si iscrive da qui).
Tre le altre collezioni notevoli vanno sicuramente citati Federico Cina, un progetto solido che con la sua collezione “Terra” ha dato la sua prova più matura finora, e la prima collezione co-ed di Jordanluca, che si confermano essere l’aggiunta felice a un calendario che aveva un disperato bisogno della loro dose di strafottenza punk. Strafottenti anche nei riferimenti, come quelli a Helmut Lang, ma per questa generazione di designer (che è poi quella di chi scrive) la moda è sempre stato un collage di cose dal passato da cui provare a emergere a gomitate e spintoni: e Jordan Bowen e Luca Marchetto emergono eccome, come dimostra anche il lavoro fatto su accessori e campagne, che raccontano di un brand con un’identità chiara. È cristallina, poi, l’identità di Setchu di Satoshi Kuwata, che dopo aver vinto l’Lvmh Prize, ha presentato a Milano la sua collezione con un evento raccolto senza borie celebrative ma con lo spirito cosmopolita che lo caratterizza, da uomo giapponese che ha vissuto in molte città, da Milano a New York a Londra. La sua è una moda intellettuale eppure calda, precisa in tutte le sue sublimazioni dell’errore – voluto – di percorso: le giacche formali a doppiopetto che sono pronte per essere sistemate in piccole borse da viaggio, i bermuda con ampie pieghe che sembrano carta, le camicie dai lembi asimmetrici che si piegano seguendo il corpo e gli abiti che sembrano una lunga striscia rettangolare di tessuto ma che si adattano alle forme umane attraverso piccoli bottoni e strap.
Un’eleganza morbida si è vista anche da Emporio Armani e Zegna mentre progetti come Alyx e Andersson Bell, marchio coreano che ha deciso di celebrare i suoi primi dieci anni a Milano –e meno male, considerando come ogni stagione la moda maschile si restringe sempre di più– che sul guardaroba quotidiano e attento ai trend hanno costruito il loro percorso commerciale (anche da Bell c’erano gli uomini con i fiori, che spuntano dalle borse-vaso). Marco De Vincenzo è sempre alle prese con il suo difficile lavoro di riscrittura di Etro; Jonathan Anderson, invece, continua a lavorare sulla semplicità estrema, o «facilità» come da nota ufficiale, liberandosi di ogni orpello fatta eccezione per alcuni pezzi intrecciati. Per la sua uscita finale, il designer ha indossato la maglia della squadra di rugby del Cornishware, dove ha giocato anche suo padre visto che domenica 18 giugno, giorno della sfilata, era la festa del papà in Irlanda e nel Regno Unito.
In un interessante editoriale sul New York Times, Ross Douthat ha voluto individuare nelle recenti morti di tre uomini significativi e controversi, ovvero Ted Kaczynski (Unabomber), Silvio Berlusconi e Cormac McCarthy, un punto di non ritorno della «mascolinità alienata» nel discorso pubblico, o perlomeno del suo racconto, seppur con le fondamentali differenze che esistono tra queste tre personalità che per scherzo del destino sono scomparse a pochi giorni di distanza. Un’osservazione che ha il suo fascino e sembra trovare riscontro nei giorni di moda maschile che ora approdano a Parigi. In una società sempre più polarizzata dove il dibattito sull’identità è svilito dal manicheismo ottuso dei social media, gli uomini forti, la loro mascolinità fatta di violenza, giacche troppo grandi e cinismo disperato sembra allora parte del passato, ma sappiamo tutti che così non è: perché la mascolinità non è mai stata un qualcosa di unico. Lo stesso accostamento di questi tre nomi fa tremare, soprattutto per la presenza di McCarthy e per il peso della sua eredità letteraria: eppure gli uomini, come le donne, sono creature complesse, ed è così che dovremmo raccontarli, immaginarceli, amarli.