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La storia di Senko Karuza potrebbe convincervi ad abbandonare finalmente la città

Lo scrittore, filosofo e chef croato, che ha lasciato Zagabria per andare a vivere in un baia semi deserta sull'isola di Lissa, ci racconta la sua storia in occasione dell'uscita della prima edizione italiana del libro L'isola.

di Roberto Carvelli

«Mi piace dire a quelli della terraferma che hanno tutto quello che mi manca, e a me stesso che ho tutto quello che manca a loro». Senko Karuza, poeta, filosofo e scrittore croato, ha chiuso con la vita di città ma non ha cercato solo un buen retiro lontano da Zagabria: voleva una nuova vita dentro se stesso. Da qualche hanno vive sull’isola di Lissa (Vis) e la capitale è diventata un lontano ricordo. «I miei amici scrittori [ci dice in questa che è la sua prima intervista italiana, nda] che vivono in città soffrono il mio stesso tormento nel trovare il tempo libero necessario per scrivere: mentre io sto nella mia vigna che mi prende tutto, loro sono negli uffici, nelle scuole o nelle redazioni. E ci invidiamo a vicenda e questo sarà sempre così».

Karuza esce per la prima volta in Italia, dopo essere stato riconosciuto ampiamente nel suo Paese e fuori, con Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico (per Bottega Errante, traduzione di Ginevra Pugliese), un curioso libretto fatto di brevi capitoli tematici. Karuza ha preso in gestione da qualche anno una konaba, una locanda, in una piccola e sperduta baia, Mala Travna, dove offre da mangiare ai turisti soprattutto piatti di pesce (pescato da lui, che è anche produttore di vini).

Senko Karuza

La vita dell’isola scorre lenta, tra affollamenti estivi in cui conosciamo quanto «la trama sottile dell’ospitalità» dei proprietari delle case affittate ai turisti rimanga «impenetrabile», e località semideserte nelle altre stagioni dell’anno dove chi rimane coltiva la terra, cura gli gli ulivi e le vigne. Gli isolani allora vanno al porto a vedere chi arriva e poi ritornano indietro infilando i vicoli e alzando i baveri delle giacche per proteggersi dal vento. Dopodiché al bar: «Tutti sono benvenuti al caffè del mattino in piazza, se fanno parte della ristretta cerchia di amici della piccola comunità. Ma bisogna assolutamente voltare le spalle al muro, guardare il mare, avere il pieno controllo sulla piazza». Forse è una vita simile a quella di chi non è isolano «ma le differenze tra la vita sull’isola e quella sulla terraferma – ci spiega lo scrittore – sono enormi». La sensazione di isolamento e di distanza, l’impossibilità di muoversi a piacimento, un territorio molto piccolo che è impossibile espandere, la sensazione di abbandono e di solitudine, sono tutti elementi che possono avere effetti molto gravi sulla salute mentale ed è certo che non tutti riescono ad affrontarli, soprattutto chi qui non è nato e non ci ha trascorso l’infanzia e gli anni formativi.

In questo senso Senko, capelli e barba canuti, dice che il suo è stato un passaggio indolore: «l’indisponibilità di ogni cosa era già intessuta in me, dovevo solo trovare delle buone ragioni e dei vantaggi per ritornare». Pur essendo nato a Spalato (il 18 giugno 1957), infatti, ha trascorso l’infanzia e la giovinezza sull’isola di Vis. Poi scuole a Spalato e laurea in Filosofia a Zagabria. Ogni guadagno porta con sé una perdita e la parte più difficile è sapere che non esistono vie di mezzo. «Particolarmente difficile – mi racconta – è stato lasciare l’ambiente urbano, la città dove avrei potuto realizzarmi meglio». Ma ogni piccola storia di Isola dimostra come la scelta sia stata remunerativa, quanto meno dal punto di vista valoriale. Lo dice il racconto intessuto di un amore per il mare e la sua conoscenza, quello del capitolo iniziale, dedicato a La barca.

Karuza pensa che sia possibile trovare una vita piena nell’oggetto più piccolo e nel movimento più semplice, e che se non hai occhio nemmeno la città più vivace del mondo può aiutarti a vedere questa vita. In fondo, dice che «qui sto in pace perchè so che la ricerca del senso è la stessa ovunque». Quella di Karuza è stata una scelta influenzata anche da padrini e numi tutelari: «Non mi sembra un caso che Defoe con il suo Robinson, Huxley con la sua Isola o Hamsun, per citarne solo alcuni del recente passato, per cercare il senso della vita abbiano scelto di fuggire dalla città, e nel loro vagabondare lontano abbiano cercato di penetrare l’essenza della vita su questo pianeta fuori dalle sicure mura cittadine. La ricerca del senso e dello scopo della nostra esistenza è un peso uguale per tutti, ma forse è un po’ più chiara lontano dal calderone dentro al quale ci stiamo cuocendo tutti».

Su questo spiraglio si apre il tema della riscoperta delle aree interne, in vita come in letteratura. E con esso il tema della globalizzazione, che ha portato in maniera tremendamente rapida all’uniformità della vita. «Una delle vie d’uscita da questo vicolo cieco – dice Karuza parlando della saturazione raggiunta dal nuovo progresso e della sensazione di non avere uscita – ci porterà sicuramente verso un ambiente rurale e verso i luoghi solitari dove questi processi si svolgono più lentamente e hanno un volto più umano». Ma anche la sua isola, Lis, sembra dire a Karuza che il senso della vita “lontana” si sta perdendo qui come in città «perché rapidamente sono abbandonate e disabitate, perdono la loro autentica cultura e stanno diventando sempre più luoghi più o meno attraenti per lo svago e per le vacanze» e il libro racconta con franchezza l’ansia di uniformarsi a bisogni prima non percepiti e ora incontrati magari solo nello spicchio dell’estate e attraverso il contagio dei turisti.

Per incarnare con successo il senso del tempo serve avere una pace che nasce dall’osservazione distaccata di quel che è. Come lo scrittore racconta nel libro: «Quando il mare non ci è favorevole, lo dimentichiamo in fretta e lo lasciamo perdere finché non si ravvede, ci volgiamo al villaggio e al fuoco, al caminetto e al cibo che adesso non è più il pesce». Karuza non fa sconti al sé più debole e bisognoso della compagnia di un canto per l’inverno e confessa il male egoistico dell’uccellagione praticata con cecità bisognosa («Soddisfatti, non pensiamo alla libertà», così conclude I cardellini).

Mi piace finire di parlare dell’Isola di Karuza con il Glossario – e con quest’espressione che vorrei fare mia da ora in poi, un modo di dire dalmata che sta per “acqua passata”, per qualcosa che è andato irrimediabilmente perduto: «Adio mare».